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L’assoluto.


Che vi siano delle persone che non mi amano mi pare naturalissimo. Piacere a tutti è una aspirazione volgare. Quello che non posso soffrire sono i finti fratelli. Essi mi fanno l’effetto di uno che essendosi rosolato al fuoco davanti e di dietro, tutto caldo di dentro e di fuori, si credesse per un momento il fuoco stesso e stendendo alla fiamma la sua mano scottante la chiamasse sorella.

Il mondo è abbastanza vasto perchè v’abbiano a trovar posto anche coloro che dell’arte, della poesia, della bellezza non intendono nulla, ma che non se ne occupino almeno! È la sola grazia che [p. 199 modifica]domandiamo loro. Vi sono delle parole sacre che non a tutti è dato pronunciare, che non si possono mettere insieme alle altre senza profanazione, parole che vengono rivelate in mezzo ai roveti ardenti a chi ne affronta il bruciore per la gran passione di esse. Le persone calme e ragionevoli hanno però un compenso. Possono chiamarci pazzi, ciò è nel loro diritto e dovrebbero approfittarne; ci riuscirebbe meno spiacevole che sentirci chiamare fratelli.

Sono grata a tutti coloro che mi vogliono bene; qualcuno mi conobbe bambina o giovinetta, altri mi ha beneficata, gli inferiori mi trovano buona e tutti si credono in dovere di ammirarmi. Sorridono benevolmente quando sentono dire che sono la prima attrice italiana, la sola che intuisce l’anima: questa parola li esalta. Mi proclamano [p. 200 modifica]superiore a chiunque e nessuno degno di sciogliermi i calzari; ma ecco che una piccola discussione, un’opinione contraria, manda all’aria trono ed altare. Sconto allora in pochi secondi le cambiali rilasciate sul mio merito e sulla mia intelligenza. Essa valeva finchè trattavasi di illuminare e riscaldare l’intelligenza loro? Trovo che è pagare troppo cara la benevolenza. Preferisco riscaldare gratis.

Sono più antipatici, ma mi fanno cadere da minore altezza i giovinetti entusiasti che hanno veduto in me la scala delle loro ambizioni e vengono a bruciarmi l’incenso della loro ammirazione con un manoscritto in tasca.

Il dolore è quando si ritrovano vecchie amicizie che il tempo ha fossilizzate in una immobilità mostruosa di mammuth. Non ci si intende più, ed essi si lagnano [p. 201 modifica]con una punta di ironia che sono molto cambiata. La facoltà di progredire è ben rara. Mi hanno conosciuta meschina, schiacciata sotto il mio destino che sembrava simile al loro, e non possono perdonarmi di esserne uscita. Pensano forse che li ho derubati. La proprietà pare sempre illegittima a questi Proudhon per cui il più alto ideale è il loro livello.

E i miei compagni d’arte? Che cosa abbiamo noi di comune? Nulla. I nostri principii e il nostro fine sono diametralmente divisi. Io li guardo qualche volta meravigliata senza odio e senza disprezzo, e li ascolto timida, un po’ come un indigeno caduto dalla luna ci guarderebbe tutti noi; ben inteso che il torto è sempre di quello che cade dalla luna.

Il pubblico? Oh! il mio pubblico per poco non mi ha fischiata, una sera, nel [p. 202 modifica]secondo atto di Frou-frou perchè avevo un povero abito di sessanta lire.

Non dico verbo dei critici. I primi, i veri critici sono i filosofi, i poeti, i romanzieri; essi fanno la critica della vita. Non è che dopo di essi che si è costituita la critica della critica. Ci sarebbe troppo da dire in proposito e ben poco che ne valga la pena. Anche qui come dovunque lo spirito vivifica e la lettera uccide. Un vero critico non può sgorgare che da una grande intelligenza. Da ciò in fuori le ciane sui ballatoi, sui trivii e intorno al pozzo fanno continuamente della critica.

Tutto ciò, capite, è troppo diverso da quello che provo quando piango o gemo o impreco o imploro o perdono dalle tavole del palcoscenico davanti alla bellezza ed alla verità assoluta. Io non vedo in quei momenti d’ebbrezza che il [p. 203 modifica]fantasma ideale della folla, la parte migliore, i più nobili istinti, le aspirazioni gentili che sotto il tocco dell’arte vibrano, divina musica, sopra una tastiera presa a prestito.

Ed essi pure non s’ingannano nella idealizzazione dell’artista? Forse. Noi siamo davvero l’arpa eolia che un soffio celeste percuote a intervalli e fa vibrare. Che cosa possono trovare essi quando ci avvicinano se non delle corde mute?

Sì, quando essi ci avvicinano trovano l’istrumento arido, torturato, fesso. Il nostro genio non è in noi; esso è volato via colla nostra voce, col fuoco dei nostri sguardi, coi nostri nervi, col nostro sangue che abbiamo prodigato per rivelare la bellezza.

Beati coloro che possono fermare l’anima dentro a un capolavoro. Noi, la nostra povera anima la diamo al vento. [p. 204 modifica]

E penso ancora qualche volta ad un ignoto che non mi abbia vista mai, che io mai non vedrò, che solo e lontano (sarà sopra una vetta ideale cinta di nevi? o in una triste palude fra i salici grigi e piangenti? o nel rumore vertiginoso di una grande città? o nella quiete austera di una vecchia casa di provincia?) segue la mia vita, il mio pensiero e palpita e sospira e spera insieme a me. Egli — l’ignoto — mi ha amata, lo so, lo sento, attraverso le vibrazioni del mio nome e questo amore puro che la caducità della materia non può raggiungere mi consola spesso; esso è come il profumo di un fiore che avessi chiuso nell’interno del mio abito. Lo sento senza vederlo.

Ma tremo tutte le volte che un’anima esce dalla moltitudine per accostarsi a me; so che perdo un amico. Accettando [p. 205 modifica]la gravosa responsabilità di parlare al cuore delle masse ho rinunciato al dono di trattenere il cuore dell’uomo. L’uomo che mi abbraccia stringe un fantasma. L’anima mia, pellegrina errante, non ha casa, non ha tetto, la sua dimora è il mondo.

Perchè venite da me? vorrei gridare al visitatore curioso. L’ora che vi concedo è dolce, mi fate dei complimenti ed io vi credo, più o meno, ma in fine vi credo. E poi? il visitatore si alza. Tornerà almeno? — Presto — Presto? — Prestissimo. Una stretta di mano, l’uscio si apre, il visitatore non appare più che di scorcio, è già lontano, scompare. È finito tutto. Passeranno dei mesi prima di avere un’altra visita simile e quando verrà, la dolcezza sarà smussata, un velo malinconico sarà sceso sull’entusiasmo, non si crederà più. [p. 206 modifica]

E le lettere? Quelle lettere che si ricevono con tutto il fascino dell’ignoto, che si interrogano con un desiderio sempre morto e sempre rinascente, quelle città lontane che ci hanno lasciato nella memoria tanti profili graziosi e orizzonti puri e impressioni e rimpianti e che ci tornano davanti con una voce che sembra uscire sonora e sicura dal pudico mistero della busta! Certo sono un gaudio. Ma si scrive tutta la vita? Tutta la vita sotto lo stesso grado di passione?... Sere sono il lampionaio passava accendendo ad uno ad uno i fanali. Il mio vicino stando alla finestra col capo voltato a sinistra guardava con interesse ciascuna fiammella; quando i lampioni di sinistra furono tutti accesi il mio vicino volse tranquillamente il capo a destra. Si può stare tutta la vita in contemplazione di un lampione acceso? [p. 207 modifica]

C’era nella mia casa di fanciulla una boccetta faccettata colle stelline d’oro sopra ogni faccettatura, la quale a detta della buona donna che mi governava veniva da mia madre. La ebbi vuota, restò vuota sempre, ma della essenza contenuta una volta le era rimasto così intenso profumo che era una delle mie delizie il fiutare al buio, come una carezza misteriosa, quel profumo che mia madre aveva fiutato prima di me e che durava ancora quando lei non c’era più. Ho cercato poi invano una essenza duratura; nessun fiore staccato dall’albero e condensato in un lambicco dà il profumo inalterabile. I migliori prodotti moderni durano un’anno o due al massimo; la boccetta di mia madre ha trenta o quarant’anni di vita forse. Però, ora, anch’essa odora un po’ meno...