Anima sola/III
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Accordi.
Conoscere un’anima, cuore o intelligenza, e amarla senza speranza di ricambio: amarla per ciò che essa è, amarla per il bello che ha in sè; illuminarsi dei suoi raggi e bruciare nel suo fuoco, non è una prova che noi siamo degni di quell’anima? E se essa non ci risponde che cosa importa? La nostra soddisfazione consiste nel sentirci eguali.
Ho scritto questo pensiero, tanto tempo fa, sulla prima pagina di un libro che voi mi avete regalato. (Sapete quale?)
Ebbi sempre l’abitudine di segnare qualche mio pensiero accanto a quelli degli autori più simpatici, talvolta una semplice parola, un nome, un punto; mi pareva così, nella infinita tristezza dei miei giovani anni, di conversare con un amico, e posso dire che le mie sole gioie per un lungo volgere di tempo furono queste conversazioni ideali.
Trovavo in esse non un mondo fantastico, ma il vero mondo, la vera terra della quale io mi sentivo l’abitatrice, la patria che non so per quale crudeltà della sorte mi fu rapita prima di nascere, il mio possedimento, il mio diritto. Era quella la porta dietro cui sentivo il cozzare delle armi de’ miei fratelli; ma quanto, quanto tempo rimase chiusa ai miei ardenti desideri!
Una descrizione minuta dell’ambiente dove trascorse la mia adolescenza, tutto quel contorno meschino, prosaico, tenterebbe certamente la penna di uno scrittore verista. Ma so che voi sdegnate tali compiacimenti volgari ed io stessa rivolterei a malincuore quel mucchio di rovine, dove ho sofferto anche troppo, per cui non serbo più nè rancore, nè odio, nè quasi direi memoria. Vi ripeterò invece certe scene isolate, brani della mia esistenza sopravvissuti alla distruzione del resto. È veramente questo un lavoro femminile, staccare dal canovaccio logoro di una vecchia tappezzeria i fiori del ricamo. Ahi! poveri fiori, molti di essi mi si rompono fra le dita e nessuno potrà essere riportato sopra un’altra stoffa.
principe.
Ho in mente una strada piena di sole e di polvere; una gran folla accalcata, un pigiarsi di corpi, di voci, di risa, tutto quell’insieme meccanico e animalesco che mi rende così avversa alle riunioni del popolo — ed io fragile fanciulla, vivente di sogni, travolta, urtata, offesa e ferita — e muta — e gemente nell’anima, mentre le mie compagne mi beffavano: e tutto intorno fin dove l’occhio arrivava, fin dove l’orecchio poteva cogliere un suono e la mente un pensiero, tutta una turba sorgente contro di me, contro i miei ideali più accarezzati e più occulti, un grido brutale che usciva da mille petti: tu sei sola!
Avevano detto in casa: andiamo a vedere il principe. Era il principe ereditario che passava per recarsi ad una rivista militare. Fu la prima volta che mi trovai davanti ad una forma di vita superiore, ad un essere ben reale e ben vivo che incarnava una delle mie visioni. Il principe! Questa parola magica mi suscitava un tumulto di idee confuse ed oscure nei profili, ma illuminate da un raggio fondo, da una attrazione misteriosa. I giudizi grossolani, i frizzi, le celie che si incrociavano tra la folla durante l’ozio dell’attesa mi facevano male; mi facevano male alcuni volti stupidamente beati, mi pungevano come lame gli scrosci di risa grasse; certi gesti trinciati nell’aria mi scendevano sul capo a guisa di fendenti; guizzi di sorrisi e lampeggiamento di pupille mi facevano salire il rossore alla fronte come attentati al mio pudore. Tutti sembravano allegri, soddisfatti, stimolati dalla curiosità superficiale di vedere il principe, di trovarsi intanto riuniti fiato a fiato, gomito a gomito, mescendo gli istinti inconsapevoli della loro carnalità al tripudio un po’ cinico dei loro cervelli, sentendosi forte ognuno della forza degli altri, dello spirito degli altri, ogni personalità annegandosi voluttuosamente in quel morboso oblìo di sè stessi che tiene unite le masse.
Ed io mi stringevo nel mio abito, cercando di mettere uno strato d’aria fra me e loro, sfuggendo i contatti, essendo già riuscita ad isolarmi un poco turandomi le orecchie con le dita.
Ogni tanto dal fondo dello stradone un elmetto luccicante al sole faceva correre un fremito nella folla. È qui! È qui! Io allora provavo uno strano senso di amarezza, un singulto, un groppo che mi serrava la gola. Se il principe mi guardasse! Se sovrastando quel fitto muro di teste col suo occhio d’aquila mi riconoscesse!...
La mia commozione cresceva di minuto in minuto; mi pareva che dovesse compiersi allora il più grande avvenimento della mia vita, mi batteva il cuore, sudavo ed avevo le mani di ghiaccio.
Già tre o quattro volte la folla aveva gridato: È qui! senza che si vedesse nessuno. Finalmente un piccolo gruppo di cavalieri apparve. È lui! È quello! Tutti si rizzarono sulla punta dei piedi, tendendo acutamente lo sguardo, tutti mossi, attirati da un punto solo.
Rammento benissimo, proprio nel momento che la zampa dei cavalli batteva il suolo davanti a me, io che m’ero pure alzata sulla punta dei piedi per vederlo, ricaddi e chinai gli occhi.
Un rispettoso silenzio dominò per alcuni istanti la folla, un palpito più accelerato del mio cuore, quasi una soffocazione, poi un urlo: Viva il principe! Egli era passato.
Sollevando allora lo sguardo vidi il bianco pennacchio che ondeggiava sulla sua testa e che rapidamente scomparve. La folla si sciolse subito ciarlando, commentando, leggiera, ironica, allegra, dimentica.
Devo dirvi che dormii male quella notte, che il giorno seguente mi trovai il cuore tutto occupato, triste fino alla morte e che per un lungo anno l’immagine del principe, che non avevo veduto, dominò tutti i miei pensieri?
Convenite che per un primo amore esso non è affatto comune. Risponde a quel bisogno di innalzamento, che in urto col mio destino mi rattristò tutta la giovinezza. Immatura ancora per l’amore credevo di amare, ed amavo veramente, un simbolo: colui che a’ miei occhi inesperti rappresentava la maggior bellezza, il maggior ingegno, la più alta nobiltà, l’impossibile, l’inarrivabile, il sogno. Vi sono parole che hanno in sè stesse il potere di sollevare l’ideale anche quando nessuna realtà vi corrisponde.