Andromaca (Euripide - Romagnoli)/Quarto episodio

Quarto episodio

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Euripide - Andromaca (420 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1931)
Quarto episodio
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Dalla reggia esce la vecchia nutrice d’Ermione.

nutrice

O carissime donne, oh quanti mali,
l’un succedendo all’altro, oggi si compiono!
Ché la nostra regina, Ermíone dico,
dal padre abbandonata, e riflettendo
al male che compié, ch’essa d’Andromaca
tramò la morte, e di suo figlio, adesso
vuole morir, temendo che lo sposo,
per quanto ella operò, voglia scacciarla
da questa casa ad ignominia, o ch’essa
debba morir, perch’essa volle uccidere
quelli che non doveva. Ora i famigli
con grande stento a trattenerla valgono
che il collo a un laccio non appenda, e il ferro
le strappano di man: tanta è la doglia,
tanto adesso comprende il mal che fece.
Stanca sono io dal trattenere, amiche,
la mia signora, ch’ella non si strangoli.
Entrate in casa voi, dunque, tenetela,
ché non s’uccida: piú, quando intervengono,
dei vecchi i nuovi amici acquistan credito.

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coro

Infatti, nella casa odo che gridano
per ciò che annunzi, i servi, e quanto gema
pel male che compié, par che la misera
voglia mostrar: di casa esce, e si svincola,
per brama di morir, di mano ai servi.
Esce Ermione, disperata, con le vesti e le chiome in disordine, lacerandosi e graffiandosi i capelli e il viso.

ermione

Strofe
Ahimè, ahimè!
Strappar mi vo’ le chiome, orrendo strazio
di me vo’ far con l’unghie!

nutrice

Figlia, che fai? Cosí strazi il tuo corpo?

ermione

Antistrofe
Ahimè, ahimè!
Lontana va’, lontano dai miei riccioli,
sottil benda, per l’ètere!

nutrice

Copri, figlia, il tuo sen, raggiusta il peplo.

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ermione

Strofe
A che giova il mio petto nascondere fra i veli?
È chiaro a tutti, è manifesto il male
ch’io feci al mio consorte, non tale è che si celi.

nutrice

Smanî perché tramasti la morte alla rivale?

ermione

Antistrofe
Piango gli eccessi della mia tracotanza infesta.
Maledetta fra gli uomini
io, maledetta sono.

nutrice

Del fallo tuo lo sposo t’accorderà perdono.

ermione

Perché di man togliermi il ferro? Rendilo,
rendilo, cara, a me: con questo braccio
vo’ piantarmelo in seno.
Perché mi vieti ch’io m’appenda a un laccio?

nutrice

Lasciarti a morte, e il senno tuo vien meno?

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ermione

Oh mia sorte funesta!
Dov’è la chiara vampa del fuoco?
Su che rupe levarmi, in che foresta
fra i monti inabissarmi, od in che pelago
dove morta fra i morti io trovi loco?

nutrice

A che t’affanni? Cadono i flagelli
dei Numi ora su questi ora su quelli.

ermione

Tu m’hai lasciata, o padre, su la spiaggia
m’hai lasciata soletta; né remo ho, che sul pelago
m’adduca; e il mio consorte
a me la morte darà, la morte,
sicuramente: in questo
talamo nuziale io piú non resto.
Di qual Nume alla statua
andar dovrò? Dovrò cadere supplice
schiava ai ginocchi della schiava mia?
Oh potessi volar lungi da Ftía,
come augello azzurrino,
o come il curvo pino
che in mezzo alle cerulee
rupi, il primo compie’ corso marino!

nutrice

Figlia, l’eccesso tuo d’or ora, quando
contro la donna d’Ilio infurïavi,

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io non lodai, né il tuo spavento or lodo,
che mi sembra eccessivo. Non potrà
lo sposo tuo repudïar le tue
nozze cosí, per creder d’una barbara
alle parole inefficaci. Preda
di guerra ad Ilio esso non t’ebbe: figlia
d’un primate egli t’ebbe, e ricca dote
ebbe con te, da una città potente,
e non a mezzo. E il padre tuo, figliuola,
non patirà che tu da questa casa
sia discacciata, come temi. In casa
entra, e alla soglia fa’ che non ti veggano
dinanzi: ne verrebbe a te disdoro.
Ermione rientra nella reggia.

coro

Un peregrino, vedi, a passo rapido,
di straniero aspetto, a noi s’appressa.
Entra Oreste.

oreste

Del figliuolo d’Achille, o estranee donne,
la sede è questa, e la regal magione?

coro

Questa: ma tu chi sei, che ciò dimandi?

oreste

Di Clitemnestra il figlio, d’Agamennone:
mi chiamo Oreste, e da Dodòna giungo,

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dall’oracol d’Apollo. E, giunto a Ftía,
d’una donna vorrei notizie avere,
parente mia, se vive, e se le arride
felicità: della spartana Ermíone;
ché cara m’è, sebben lontana vive.
Dalla reggia esce

ermione

O porto apparso ai navicchieri in mezzo
alla tempesta, o figlio d’Agamènnone,
abbi pietà di me, te ne scongiuro,
per le ginocchia tue, ché la mia sorte
non è felice, ben lo vedi: valgano
per te le braccia mie, che ai tuoi ginocchi
stringo, non meno delle bende supplici.

oreste

Ehi là, che avviene?
M’inganno, oppur di Menelao la figlia,
di questa casa la signora, io scorgo?

ermione

Quella che figlia ad Elena Tindàride
unica nacque a Menelao, ben sappilo.

oreste

Febo, dai mali tu salvala! E il danno
ti proviene dai Numi, oppur dagli uomini?

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ermione

Parte dal mio signor, parte da me,
parte dai Numi: in tutto io son perduta.

oreste

Quando figli non ha, dove una donna
esser colpita può, tranne nel talamo?

ermione

E qui colpita io son: m’induci a dirtelo.

oreste

Ama, invece di te, lo sposo un’altra?

ermione

La prigioniera, sí, la sposa d’Ettore.

oreste

Dici un mal, che uno sposo abbia due spose.

ermione

Appunto; ed io ne volli far vendetta.

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oreste

Contro la donna, con donnesca trama?

ermione

Lei volli morta, e il figlio suo bastardo.

oreste

E l’uccidesti? O chi te l’impedi?

ermione

Pelèo, quel vecchio che i piú tristi venera.

oreste

E qualcun della strage era partecipe?

ermione

Il padre mio, che a ciò da Sparta giunse.

oreste

E fu sconfitto dalla man d’un vecchio?

ermione

Per riguardo; e partí, mi lasciò sola.

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oreste

Intendo; e l’ira dello sposo or temi.

ermione

Appunto: a buon diritto ei mi darà
la morte: e che apporrei? Ma te, per Giove
protettor dei parenti, adesso imploro,
recami quanto piú si può lontano
da questa terra, o alla magion del padre.
Ché queste case par che mi respingano,
come avessero voce, e mi detesta
di Ftía la terra; e se qui prima giunge
dall’oracol di Febo il mio signore,
m’ucciderà pei miei turpi trascorsi,
oppure assoggettarmi a un’illegittima
sposa dovrò, mentre già fui signora. —
Ma come mai, dirà qualcuno, a tanto
fallo giungesti? — Mia rovina fu
la compagnia di tristi donne. Queste
mi gonfiavan di boria, e mi dicevano:
«Tu nella casa tua sopporterai
che la piú trista delle schiave il letto
partecipi con te? No, per la Dea,
coglier piaceri in casa mia, nel letto
mio non potrebbe, e rimanere in vita.»
Ora, udendo parlar queste sirene
furbe, maligne, cicalone, finte,
m’empiei di vento e di follia. Difatti,
perché dovevo esser gelosa, quando
avevo quanto mi bastava? Avevo

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ricchezze a iosa: in casa ero padrona,
figliuoli, ne potevo aver legittimi,
l’altra bastardi, e semiservi ai miei.
No mai, no mai, lo dico e lo ripeto,
quanti mariti hanno giudizio, devono
acconsentir che a frequentar la moglie
entrino in casa donne: esse maestre
son di ribalderie. Questa, per lucro
gli corrompe la moglie; un’altra, adultera,
l’amica vuol del fallo suo partecipe;
molte, per vizio. E le famiglie intanto
vanno in rovina. E dunque, uomini, gli usci
di casa vostra custodite bene
con serrature e catenacci: ché
nulla di buono arrecano, se v’entrano
estranee donne in casa, e assai malanni.

coro

Troppo la lingua tua contro il tuo sesso
sfrenasti. Degna di perdono sei;
ma tuttavia dovrebbero le femmine
dissimular del proprio sesso i vizi.

oreste

Saggio fu quei che gli uomini ammoní
che le ragioni di ciascuno udire
convien dalla sua bocca. Io, ben sapendo
che tutta questa casa era in trambusto,
e la tua lite con la moglie d’Ettore,
stavo osservando ed aspettando, se

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tu preferissi qui restare, oppure,
per timor della schiava, allontanarti
da questa casa. E son venuto qui,
senza che tu me ne scrivessi, pronto,
se tu dicessi una parola, come
or me l’hai detta, a condurti lontano
da questa casa. Ché, promessa a me
tu fosti, ed or convivi con quest'uomo,
per la malizia di tuo padre, che
prima d’invader la terra troiana,
sposa t’aveva a me promessa, e dopo
ti ripromise all’uom ch’ora ti tiene,
se Troia egli abbattesse. Or, quando il figlio
tornò d’Achille, io perdonai tuo padre,
e chiesi invece a lui che rinunciasse
alle tue nozze, i miei casi esponendogli
e il mio destino, che una sposa avere
potrei del parentado, ma un’estranea
non facilmente, quando esule vado
dell’esilio che sai. Ma quello fu
ingiurïoso contro me, la strage
mi rinfacciò di mia madre, e le Dee
dagli occhi sanguinosi. Ed io, che tanto
pativo già della mia casa i lutti,
mi crucciai, mi crucciai; ma rassegnato
patii le mie sciagure, e a mal mio grado
m’allontanai, delle tue nozze privo.
Or però, che travolta è la tua sorte,
e la sciagura t’ha colpita, e sei
nell’imbarazzo, io via ti condurrò
da questa casa, e ti consegnerò
nelle man’ di tuo padre. Ha gran potere

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il legame del sangue. E nei pericoli
nessuno può giovar piú d’un parente.

ermione

Delle mie nozze è solo responsabile
il padre mio: non tocca a me deciderne.
Ma tu, recami via da questa casa
prima che sia, ché ritornar non debba
lo sposo a prevenirmi, o il vecchio Pèleo
non sappia ch’io la casa ho abbandonata,
e non muova cavalli ad inseguirmi.

oreste

Sta pur tranquilla, quanto al vecchio. E quanto
al figliuolo d’Achille, ond’io coperto
d’ingiurie fui, non lo temere: tale
trama di morte, contro lui, da questa
mano è tesa con lacci inestricabili.
Quale, non lo vo’ dir prima: la rupe
vedrà di Delfo l’opere compiute:
se manterranno fede ai giuramenti
i miei compagni d’arme, il matricida
gl’insegnerà, sopra la terra pitica,
ch’ei non doveva far sua sposa quella
ch’era promessa a me. Dovrà d’amaro
la vendetta sapergli, a Febo chiesta,
di vendicare il padre ucciso. Poco
il pentimento suo potrà giovargli,
ché al Nume il fio non paghi. E per le insidie

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di Febo e mie, morrà miseramente,
apprenderà che sia nemico avermi.
Ché degli uomini infesti un Dio travolge
lo sorti, e non li fa troppo ir superbi.
Esce conducendo con sé Ermione.