All'armonia più flebile d'un legno
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L
FILOCRATE
in morte di maria maddalena
All’armonia piú flebile d’un legno
piacemi disposar metrica voce;
a me ne’ moti suoi genio veloce
di musico furor scalda lo ’ngegno.
Amai chi volle amarmi e chi congiunte
bramò le fiamme mie, le fiamme sue;
fece un’anima sola anime due
e seppe unir due volontá disgiunte.
Amai la bella estinta, e gelosia
ardenti piú rendea gli amori miei.
Io la bellezza idolatrai di lei,
perché la sua bellezza era magia.
Per la beltá di lei la Grecia tutta
sollecitar potea prodi campioni,
e dopo mille rischi e mille agoni
potea l’Asia dal foco esser distrutta.
Quand’ella nasce, alla Betania nasce
di giorno senza occaso alba giuliva,
e della prima vita in su la riva
il gaudio corre a vezzeggiarla in fasce.
Se grondâr gli occhi suoi liquido gelo,
se le fauci temprâr singhiozzi infranti,
erano que’ singhiozzi, eran que’ pianti
brine d’aurora ed armonie di cielo.
Lasciò la sfera sua la cipria dea,
e discesa fra’ turbini guerrieri
sul plaustro a cui colombe eran destrieri,
venne a baciar la pargoletta ebrea.
Le disse poi: — Tu meritavi, o bella,
d’aver meco nell’onde il tuo natale.
S’a me nella beltá rassembri eguale,
la mia conca era tua; tu, mia sorella. —
Né pigre sono a ricettarla in seno
perché le tergan gli occhi allor che piagne,
della madre d’Amor le dee compagne,
le dee dell’Acidalio e d’Orcomeno.
Ma se piangeano gli occhi, in su la fronte
iride di letizia apparve il riso;
dal labro, che in coralli era diviso,
tra i vagiti alitò mirre d’Oronte.
Degli amori pennuti il coro arciero
esultò su la culla e sparse rose;
vibrò per l’aria i vanni, e poi dispose
su lo spazzo alle danze il piè leggiero.
La fanciulla schiudea le due pupille
e nel cielo d’un viso eran due stelle;
compartivano allor calme o procelle,
quand’eran men turbate o men tranquille.
Al nascer di costei, della sua Tai
obliò la beltá l’attica Atena,
e se Aulide non piú vantò Lacena,
Corinto, ch’ha duo mar, tacque di Lai.
Crebbe con gli anni e crebbe seco ancora
quella beltá che bambinetta espresse;
dove col bianco piè vestigio impresse,
sul vestigio ridea piú d’una Flora.
Scioglieva i suoi capelli ed eran lacci,
lacci per intrigar core ch’è sciolto;
e mentre svolazzavano sul volto,
libera fantasia stringeva impacci.
Della cervice i palpitanti avori
godean di posseder quell’ambre intatte,
e della fronte il piú canuto latte
d’aver godeva in compagnia quegli ori.
Depositati all’aure, e fuor de’ nastri,
scoteano vampe d’òr, strali di foco;
ed allor si pensò di splendor fioco
esser di Berenice il crin tra gli astri.
Calamistri di ferro all’auree some,
che ’l foco riscaldò, facean torture,
perché del cor tra le cocenti arsure
apparissero ardenti ancor le chiome.
Le inebriò talor nardo straniero
per dispensar novelli odori al vento;
nella sua man tra martellato argento
venne a farsi l’Idaspe un prigioniero.
Sudâr le tele a lei subbi etiopi
e fregiò le sue gonne ago troiano,
e per le gonne ancor pino africano
tributò la Giudea de’ suoi piropi.
Così temprate le maniere avea,
che, se parean senz’arte, eran con arte;
or flessibile alquanto, or dura in parte,
e speranza e timor destar solea.
Dove mirava esser la fiamma ardente,
ella men soccorrendo era piú schiva;
dove face d’amor vedea men viva,
palesava d’ardor petto cocente.
Se girava lo sguardo, era delitto,
e non mirava altrui, benché mirata;
piacevole talor, talor sdegnata,
l’un rendeva contento e l’altro afflitto.
Mostravasi men scaltra al piú sagace
e col piú lieto amante era piú mesta;
sovente con gli audaci era modesta
e co’ modesti poi sembrava audace.
Era lasciva ed onestá fingeva;
quando mostrava sdegno, allora amava;
sotto ardor simulato ella gelava,
e sotto finto gelo ella coceva.
Mentre in tante follie le voglie implica,
bieco disnor nel proprio nome imprime;
le infamie sue fama loquace esprime
e palesa Maria meno pudica.
Mentre è lecito a lei ciò che non lice
e cieca vuol per guida i ciechi sensi,
gridan con libertá gli altrui consensi
che la suora di Marta è peccatrice.
Donna, quantunque vanti aver bellezza,
men bella è poi se tien l’onor negletto;
qual cristallo è l’onor fragile e schietto,
schietto si macchia e fragile si spezza.
Lunga stagion vaneggia e per le scorte
de’ piú sozzi diletti a Dio s’invola;
tien ragion vilipesa e la sua scola,
ama il mondo maestro e la sua corte.
Stima suo bene il male e col tributo
fa delle colpe insuperbir l’inferno;
oblia la nobiltá, né prende a scherno
esser, come d’Amor, preda di Pluto.
Ma Dio che la vuol seco a sé la chiama,
e consiglio miglior le spira in mente;
giá delle colpe andate ella si pente
e di virtú novelle ornarsi brama.
Dal profondo letargo alfin si desta,
ammenda l’opre ed i pensier corregge;
giá gli arbítri dispone a nova legge
e l’antiche libidini detesta.
L’accusano le colpe ond’ella è grave,
ma la pietá del Redentor l’affida;
la combatte il timore e nulla fida,
la speranza l’assale e nulla pave.
Vince alfin la speranza, il timor cede,
ma non lascia il dolor de’ falli suoi;
in un sospir l’anima scioglie e poi
perdono del fallir l’anima chiede.
Si duol d’amor, si duol del mondo, accusa
artefici d’inganni amore e mondo;
duolsi che mondo insano, amore immondo
con l’ésca del piacer l’abbian delusa.
Un aspe appella amor, da cui si beve
con bocca baciatrice egro veleno;
il mondo un Mongibel, che chiude in seno
incendio edace ed ha sul crin la neve,
un mare, che tranquillo appar su l’onde
e bianca fé su l’onde sue promette,
ma sotto l’empie spume, ancorché schiette,
o baratri disserra o scogli asconde.
Amor non sazia mai l’umane brame,
ché quando par che piaccia, allora incresce;
quando par che piú manchi, allor piú cresce,
e l’ésca d’un desir dell’altro è fame.
Poi rapida sen corre a’ piè d’un Cristo,
dove, fermando il piè, Cristo l’aspetta;
e qui nel suo pensier tutta ristretta,
pensa del cielo al glorïoso acquisto.
Qui di balsamo colma un’urna infrange
e del balsamo innaffia a Cristo il piede;
ma scusa qui dell’ardimento chiede,
e quando chiede scusa, allora piange.
Al puzzo delle colpe al fin marcite
di peregrino odor sparge tempeste;
o porge unguenti al medico celeste,
forse per medicar le sue ferite.
L’Ibla sicana ed il cecropio Imetto,
l’anima de’ suoi fiori ha qui sommersa;
Arabia d’alimenti è qui dispersa,
e rinchiusa l’Assiria in picciol tetto.
Delle chiome prolisse il gran volume
da seriche ritorte in giú discioglie,
e con sí vaghe e prezïose spoglie
degli unguenti diffusi asciuga il fiume.
Disciplinato crin varia compensa,
perché l’uso fu vario, a tutti addita;
a Maddalena il crine apporta vita,
il crine ad Assalon morte dispensa.
Appaga qui le simpatie divine
di fragranze lugubri umida usura,
e godono di far bella congiura
gli alabastri d’un piè, gli ori d’un crine.
Edera tronco mai, smilace pietra
non stringe sí, com’ella stringe un Dio,
perché dimostri a lei piede ch’è pio
al novello cammin la via dell’etra.
Benché vegga Giesu fatto cortese,
a tanta cortesia l’occhio non fisa;
stassene addietro mesta e ben s’avvisa
che rimirar non dèe nume ch’offese.
Il Redentor non sa partirsi intanto,
che pur di Maddalena è fatto amante,
e rivolto a goder quel suo sembiante,
piangente il vede ed egli gode il pianto.
Oh di pianto orator dedalee vene,
che convincono Dio, quantunque mute!
Perché malvagitá speri salute,
quel che non può la lingua, il pianto ottiene.
Ottien perdono, e non qual era è tutta,
postergato l’inferno, al ciel rivolta;
e da’ lacci mondani al fin disciolta,
degli affetti s’oppone all’aspra lutta.
Delle spoglie ch’avean tesori eoi
povera fa la piú caduca salma,
e spoglia delle membra, oblia dell’alma,
come gli abiti suoi, gli abiti suoi.
Lascia i bissi piú molli e d’irte lane
al molle petto i bei candori ammanta;
ignudo brama il piede, o talor vanta
di coturno piú vil piante villane.
Pruine di cerussa ella delude
e di cinabro invetrïate fiamme,
ché non piú brama adulterar le mamme
e vuol di stranio ardor le gote ignude.
Sdegna quanto pria volle. Al mar di Gnido
non piú le squadre imprigionate invola,
né per servir l’ambizïosa gola
agli augelli di Colchi insidia il nido.
Giá le crapule sue son l’astinenze
per dar legge frugale a’ lussi sciolti;
richiama a sanitá sensi piú stolti
e dánno economie le penitenze.
Le dovizie detesta e le divide
a povertá, ch’è della fame afflitta;
cieca spelonca agli anni suoi prescritta,
agli anni suoi bel paradiso arride.
Fugge dalle cittá, fugge alle selve
e cangia in cavo speco i suoi palagi;
e se gli uomini pria trovò malvagi,
ora bontá san palesar le belve.
Tra l’angustie piú corte aduna i passi
ed ama calpestar dumi spinosi.
Vuol poi, per disturbar lenti riposi,
piume le paglie ed origlieri i sassi.
Qui su roso macigno altar dispone,
dove invece d’incenso offre i sospiri,
e con ostie di sangue e di martíri
memorie di clemenza al cielo espone.
Vive cosí piú lustri. Ed un sol grato
raggio consolator appena vede,
ed ha, s’è d’ombre eterne un antro erede,
sepolcro alla sua morte anticipato.
Del manto a lei co’ piú sdruciti velli
tempo divorator non fa piú scudo;
ma pure all’onestá del corpo ignudo
fanno splendida veste i suoi capelli.
Stupor non è che ’l pendulo tesoro,
impudico non piú, rassembri onesto:
ché se baciò d’un Cristo il piè modesto,
or tesse alla modestia argine d’oro.
Talor d’Averno empio drappello afflige
la bella penitente, e l’etra accorre,
mentre pennuto esercito giú corre
e giú disperge i cittadin di Stige;
flagella d’arpa aurata indi le corde,
e sposa all’arpa analogia di lode.
Respira intanto Maddalena e gode
letizie vive all’armonia concorde.
Gode cosí tra le beate schiere
pegno di gloria. Ed accorciate l’ore,
deliquio tenerissimo d’amore
l’anima scioglie a passeggiar le sfere.