Alcune prose giovanili/Elogio di Vincenzino Romano
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ELOGIO
DI
VINCENZINO ROMANO.
Vincenzino Romano è morto, e nel più bello delle speranza, nella freschissima giovanezza di ventidue anni, quasi sull’incominciare della vita. Noi ci amavamo: e non è passato assai tempo ch’egli, per sollazzamento, non prevedendo ciò che sarebbe stato per avvenire, disse: Se alcuno di noi muore, i restanti amici debbono conservare memoria di lui. Il caso si avverò in te, giovane disavventurato: io ti prometto, e tutti gli amici tuoi ti promettono, che conserveremo con tenerezza di affetto, e per sempre, la tua memoria.
Vincenzino era uno di quei pochissimi giovani nei quali la originale stampa dell’ingegno italiano mostravasi più chiara. D’intendimento, di animo, come della persona bellissimo. Nella filosofia aveva una apprensiva notabile, e quantunque non la coltivasse di proposito, non pertanto con facilità intravvedeva il vero; e nelle disputazioni mostrava molta prontezza di concepimento, sia nel domandare, sia nel rispondere. Nondimeno la cosa onde si dilettava più insaziabilmente quell’anima era l’armonia e la bellezza; e ciò mostrava nei suoi componimenti vivaci e freschi di giovinezza, e nel desiderio per la musica, massime per quella parti manifestatrici dei dolori, delle ansie e dei silenti gaudi della vita. Cotesto sentimento della bellezza informavagli tutta quanta l’anima, la quale non s’inchinava mai basso, ed era sdegnosa, nobile, onesta, e tale appariva alle sembianze, in maniera che solamente a guardarlo l’avresti riputato di gentile casato. L’anima abitava nel corpo a similitudine di signora; e tutti gli atti, i portamenti, le membra, parevano governati da quella. Nel fare le cose meno importanti si conteneva in atteggiamento onesto; e quando in generale i giovani sollazzandosi insieme molto di leggieri trascorrono, egli, per contrario, non mostravasi altero, ma nemmeno si risolveva profusamente nel riso o nei giochi, e favellava attempato. Conversava con pochi amici per ordinario di cose rilevanti, e spesso andavasene solitario per lungo tratto di via, e pensoso. E la nobiltà di cotesto temperamento la manifestava di fuori: gli occhi belli, la bocca prima di favellare si apriva ad un sorriso velato, la carnagione sanguigna, la pronunzia piana, l’andatura grave.
Era dotato d’immaginazione viva, e aveva desiderio che fosse amato dall’universale, e le danze, le armonie, i teatri, i cavalli, gli erano di dilettamento. Seguitava e osservava la virtù imperciocchè bella; la malinconia che t’ispira la religione in riguardo alla vita non la sentiva dentro la giovane anima; e, immaginando che la bellezza fosse ritrovabile al mondo, lo amava, come le farfalle aman la luce.
I govani, ai quali la persona è vigorosa, i desiderii ardenti, l’immaginativa svegliata, e che si ripromettono lunga vita, non penetrano sin dentro al vacuo delle cose, ma solo si fermano alla superficie dove quelle s’ingiardinano e infiorano e compariscono bellissime, quali sarebbero state veramente se non le avesse mai contaminate la colpa. A vedere cotanti mondi che girano per gli spazii, cotanti splendori vivissimi che fiammeggiano pei firmamenti, cotanta musica universale, cotanti fantasmi che ti si rappresentano davanti, e che alla speciosità e dolcezza dei volti giudicheresti angioli, i giovani per necessità debbono provare contento. E questo giovane massimamente che mai sperava a vedere cotali cose? Quel medesimo che gli uccelli al comparire dell’alba, che allora si fanno più vispi, e cantano soavemente più dell’usato.
E un’alba comparve a lui d’un giorno chiaro e sereno, ed egli ne divenne più allegro che mai, se non che gli fuggì l’allegrezza quasi col fuggire di quel giorno medesimo.
Nel teatro, in mezzo ai musicali canti della Traviata del Verdi, vide una giovane, formosissima, celestiale nelle sembianze, con li neri occhi vagante, come dentro la gentilissima anima intendesse confusamente la malinconia ed i tremiti di quelle consonanze misteriose: ne innamorò. D’allora in poi ragionava di continuo di quella donna, e ricantava perpetuamente quelle canzoni, e pensava tra sè il modo di fare a quella aperto l’animo suo.
Ma gli mancò il tempo, e un morbo lento gli sopravvenne, quello che pare deputato per la generalità dei giovani: conciossiachè la natura è benigna, e non toglie tutte le illusioni all’inaspettata, a fine di temperare l’acerbità ed il cordoglio del disinganno. Le sue sembianze diventarono magre e bianche, il naturale sorriso si fu velato da una sconosciuta mestizia: oramai da lui andavasi allontanando la vita, come gli ultimi raggi del crepuscolo si allontanano dai lembi dell’orizzonte. Non pertanto stava nell’illusione, e scriveva agli amici essere convalescente, e avere speranza di rivederli tra breve; ma noi non ci rivedemmo mai più. Dal suo villaggio nativo fu consigliato dai medici a tramutarsi a un altro di aria più dolce; e, sul partire, per l’ultima volta egli contemplava l’estrema luce del tramonto, che moriva dentro le quiete stanze della sua casa. Dove andò il luogo era ameno; era l’autunno, e ancora la natura lo lusingava colla bellezza delle sue forme; all’avemaria guardava nella campagna le allegre danze dei vendemmiatori, e la notte udiva in lontananza il canto dei giovani che andavano a mattinare le loro donne. Quei canti non erano più per lui! Questo sole che illumina tante migliaja di mondi, dopo poco tempo negava un solo raggio di luce ai suoi occhi. Si fece vie più magro e bianco, la voce diventò fioca, e diceva che il beato tempo di giovinezza per lui passava; nonostante, la nera chioma e i neri occhi al paragone di così estremo pallore facevano un comparire bello. Quanta amaritudine non provò dentro, egli che aveva immaginato la vita piena di contentezze, a vedersi lontano dagli amici, in parte solitaria, abbandonato da tutti gli uomini, imperocchè sentono naturale paura di tali malattie. Quel giovane stava come trasognato, come colui al quale improvvisamente venendo meno tutte le speranze mancano le forze per querelarsene. Come un viandante, dopo avere pellegrinato per lontane contrade, ritorna tediato al suo luogo natale, desideroso di riposare; somigliantemente egli, dopo avere viaggiato per questa vita mondana, ma in tempo brevissimo, ancora giovane, e direi illuso, apparecchiavasi per entrare nell’eternale quiete. Chiama nell’avvicinare dell’ultima ora la madre, la quale per il soprabbondante dolore nascondeva la faccia; e le chiede che lo baci nel volto, e dipoi le soggiunge che lo rammemori alle lontane sorelle: Filomena, Raffaella, Amalia; oh quanto le amava! Dopo pochi momenti chiuse gli occhi e morì.
Che non fece la madre! piangeva, stampava baci, lo chiamava per nome, moveva quel corpo come per risvegliarlo. Che dolore, accomiatandosi da quei luoghi dove abbandonava le reliquie del suo figliuolo; quando, ritornandosene di notte tempo, cominciavano in lontananza a tralucere le invetriate delle prime case del villaggio! Che dolore per le disavventurate sorelle alla veduta della madre che ritornavasene scapigiata, traggendo guai, sola, senza Vincenzino!
O buon giovane, i tuoi amici, i quali hai lasciato, pregano il Signore per concederti il luogo della pace eternale, dove le speranze sono contente, e la giovinezza è perpetua.