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332 | POESIE |
Tir. Ah Montan, qual ferita
Riapri entro il mio petto, si sommerse
In quel punto ogni ben della mia vita;
Sì certamente, ma mi chiama ad alto
Paragon di fortezza,
Se vuoi che tale io sia verso un straniero,
Quale inverso il figliuol possa formarmi
Natural tenerezza, io non affermo
Cotanta mia virtude;
Affermo ben che il padre di costui
Daría sul figlio mio quella sentenza
Che oggi darò del suo,
Però non mi sviar dalla giustizia
Con arte di pietà, ma riguardiamo
Schiettamente le colpe, e quella legge,
Che fra noi le corregge.
Mon. Ho non so che nel cor, sento una voce
Dentro del petto mio, che mi sconsiglia
Da l’ammazzar costui, se non ti spiace
Facciam così, prendiam piena contezza
Di questo sventurato, onde egli sia,
E cui figliuolo, e per qual modo altrove,
E con quali costumi ei sia vissuto;
Se ci si scopre uom vile, e per usanza
Rivolto a brutti vizj, ei si sommerga;
Se all’incontro veggiam che la sua vita
Sia condotta gentile ed innocente,
E che forza d’amor l’abbia tirato
A sì fatto periglio
Pur con umana colpa, prenderemo
Alcuno altro consiglio.
Tir. Facciasi il voler tuo, ma ti ricordo,
Montano, il detto è antico,
Che la Giustizia è cieca;
Non è varia la colpa,
Perchè l’uomo onorato e l’uomo vile
Se ne dimostri reo;
E chiunque commise
Moltissimi peccati, ei certamente
Diede principio, e tempo fu, ch’egli era
Come gli altri innocente.
Mon. Siam giunti alle capanne,
Or chiamiamo Aritea,
Vienne fuora, Aritea,
E mena il prigioniero
Qui fuor con esso teco;
Odi tu ciò ch’io parlo?
Tir. Eccolo al tuo cospetto, oggimai prendi
A bene esaminarlo.
SCENA II
Montano, Tirsi e Megilla.
Mon. Tutto quel ch’io ti chiedo
Credi, che per tuo ben noi lo chiediamo
E non per altro, e tu posto in periglio
Devi accettar sì come gran ventura
I nostro desiderio di salvarti;
Però rispondi e dimmi infra quai genti,
E qual loco è tua patria,
Nè ci tener nascoso
Il nome dei parenti.
Meg. Se risponder deggio io veracemente,
Montan, non saprei dirti
Certo dove io mi nacqui,
E men che della patria,
So de’ parenti favellar, Montano,
Non so di chi sia nato,
E men dove nascessi,
Solo mi so, ch’io vissi,
E morrò sfortunato.
Mon. Giovine, tu favelli
Per non so qual vaghezza, e ci dimostri,
Che di noi non ti caglia, io t’ammonisco,
Che sei molto vicino
A perdere la vita, o conservarla,
Pensa su te medesmo,
Ed a colui che parla.
Meg. Mia ventura è si strana
Che s’io rispondo il vero
Del modo in che son nato e son vissuto,
Rassembra ch’io vaneggi,
Montano, ed il mio dir non è creduto.
Ma tu per certo mi minacci in vano,
Minacciandomi morte,
È sì fatta mia sorte,
Ch’esser dee mio desío
Il perder questa vita.
Perchè viver deggio io?
Già fatto amando di provare indegno
Un minimo conforto,
E riserbato all’ira
Ed all’altrui disdegno?
Deh che vedrei vivendo,
Salvo una fronte oscura?
Ed un guardo per me non mai sereno?
Atti sempre feroci,
Ed accenti e parole
Da pormi dentro il cor rabbia e veneno?
Ah rompasi oggi mai
Il corso de’ miei giorni,
Sia lieta Clori di vedermi estinto,
Poi che sì mal l’amai.
È giusto che risponda
Al principio la fin del viver mio,
Appena nato al mondo
Perdei patria e parenti, e di me stesso
Non ho notizia alcuna
Dalle miserie oppresso
Io pur fui sostenuto,
Perchè crescendo io ben gustar potessi
I gravissimi affanni,
Che conosciuti non avrei morendo
In su quei teneri anni;
Montano, è gran ragione,
Ch’io m’affoghi nell’onde d’Erimanto,
Dentro a lui pargoletto
Ebbi a perder la vita,
E per gran meraviglia io ne campai,
Oggi pur mi vi tragge
La legge, ch’io sprezzai.
Tir. Un gran fascio di mali
Stringi in poche parole;
Deh fa più piano alquanto il tuo parlare,
Come è, che pargoletto
Avesti ed affogarti in Erimanto;
Meg. Come ciò fosse io non saprei narrare,
So, ch’indi fui raccolto;
E questo io so, perché mi fu narrato
Da lui, che mi raccolse;
Io di me non so nulla;