Alcippo (1615)/Atto quarto
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ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA.
Montano, Tirsi.
Sul novo avvenimento, io mi conduco
A creder volentieri,
Che la nostra pietà non fia biasmata
Se daremo la vita a l’infelice;
Stimar si dee, che da principio fosse
Posta la legge per frenar la mente
De giovani orgogliosi,
I quali in queste selve erano usati
Fare oltraggio a le ninfe, e perturbare
I loro honesti studi
Con assalti amorosi; e certamente
Contra costor la morte oltra misura
Pena non è; ma fra le mani habbiamo
Caso diverso; et oserei giurare
Non mai venuto in core
A chi diede la legge: un giovinetto
Impazzito d’amore, e procacciando
Farsi sposa una Ninfa, è qui venuto
Come fanciulla, e sì modestamente,
E sì gentili furo i suoi costumi,
Che sempre reputossi una fanciulla
Fra nostri monti, e se sì strano intoppo
Non si faceva incontro a suoi disegni,
Ei partiva di quì, che pur una ombra
Non lasciava d’offesa; egli è caduto
Veracemente in colpa, ma la forza
D’Amore è sua difesa.
Tir.Montano io temerei, che la pietade
Usata verso un sol poi non uscisse
Ver la vita di molti
Non picciol feritate; riguardando
A la strada, che s’apre a l’ardimento
De la sfrenata gioventù; che ’n mente
Questo caso venisse a quegli antichi,
Che fermaro la legge, io già non posso
Affermare, ò negare;
Ben certo si comprende,
Che vollero munire, e far secura
In queste selve l’honestà; per tanto
A ciò si conservasse
Sotto pena di morte divietaro,
C’homo quì non trattasse; hor tu ripensa,
Se costui di nascosto qui venuto
Peccò contra la legge; egli ha peccato
Dirai, ma per amore; et io rispondo,
E dico tanto avanti,
Che chi prende a guardar la pudicizia
Sopra tutto la guarda da gli amanti;
S’à l’amor perdoniamo, ogn’hor con froda
Verran mille malvagi e se fian colti,
Diranno essere amanti; io non son fiero;
Ma costui di distrugger procacciando
L’honestà feminile, ha per tal modo
Noi tutti offesi, che condurlo a morte
È pena disuguale;
Imperciò che l’honore
Appo i cori gentili
Più che la vita vale.
Mon.Tirsi, che questo giovane s’uccida
È colmo di giustizia; e ch’ei s’assolva
Pur è colmo di grazia; e forse meglio,
Che noi pigliamo una mezana strada
Con la nostra sentenza;
Diasi a costui non lieve penitenza,
Pur ch’ei non mora; indi facciam decreto;
Che nessuna cagion non sia possente
A scusar l’hom, che fra le nostre Ninfe
Venire ardisca; in modo tal crudeli
Non sarem detti;
Fama di noi non degna, e chiuderemo
Il passo, ch’a seguirlo
Alcuno altro non vegna.
Tir.Se sì fatto ardimento
Ne i secoli avenir meritamente
Punirassi con morte,
A cangiarli la pena in questo giorno
Quale ragione è forte?
Mon.Tirsi, tu sei fermato
Ne i pensieri aspri; deh rivolgi il core
A l’amara novella,
Che de lo sfortunato
Riceveranno i miseri parenti;
E tu pur fosti padre; e quando avvenne,
Che ’l tuo figliolo Alcippo
Pargoletto affogossi in Erimanto,
Io ti vidi sommerso
In angoscia profonda,
E dentro un mar di pianto;
Intenerisci il core,
E la pena d’altrui fa, che misuri
Col tuo proprio dolore.
Tir.Ah Montan, qual ferita
Riapri entro il mio petto; si sommerse
In quel punto ogni ben de la mia vita;
Sì certamente; ma mi chiami ad alto
Paragon di fortezza,
Se voi che tale io sia verso un straniero,
Quale inverso il figliol possa formarmi
Natural tenerezza; io non affermo
Cotanta mia virtude;
Affermo ben, che ’l padre di costui
Daria sul figlio mio quella sentenza,
Ch’oggi darò del suo;
Però non mi sviar da la giustizia
Con arte di pietà; ma riguardiamo
Schiettamente le colpe, e quella legge,
Che fra noi le corregge.
Mon.Ho non so che nel cor; sento una voce
Dentro dal petto mio, che mi sconsiglia
Da l’ammazzar costui; se non ti spiace
Facciam così; prendiam piena contezza
Di questo sventurato; onde egli sia,
E cui figliolo; e per qual modo altrove,
E con quali costumi ei sia vissuto;
Se ci si scopre hom vile, e per usanza
Rivolto a brutti vizij, ei si sommerga;
S’à l’incontra veggiam, che la sua vita
Sia condotta gentile et innocente,
E che forza d’amor l’habbia tirato
A sì fatto periglio
Pur con humana colpa, prenderemo
Alcuno altro consiglio.
Tir.Facciasi il voler tuo; ma ti ricordo,
Montano, il detto è antico;
Che la Giustizia è cieca;
Non è varia la colpa,
Perche l’homo honorato, e l’homo vile
Se ne dimostri reo;
E chiunque commise
Moltissimi peccati, ei certamente
Diede principio, e tempo fù, ch’egli era
Come gli altri innocente.
Mon.Siam giunti a le capanne;
Hor chiamiamo Aritea;
Vienne fuora Aritea,
E mena il prigioniero
Qui fuor con esso teco;
Odi tu ciò, ch’io parlo?
Tir.Eccolo al tuo cospetto, oggimai prendi
A bene essaminarlo.
SCENA SECONDA.
Montano, Tirsi, Megilla.
Credi, che per tuo ben noi lo chiediamo,
E non per altro; e tu posto in periglio
Devi accettar sì come gran ventura
Il nostro desiderio di salvarti;
Però rispondi, e dimmi infra quai genti
E qual loco è tua patria,
Ne ci tener nascoso
Il nome de i parenti.
Meg.Se risponder deggio io veracemente
Montan non saprei dirti
Certo dove io mi nacqui;
E men che de la patria
Sò de parenti favellar; Montano
Non sò di chi sia nato;
E men dove nascessi;
Solo mi sò, ch’io vissi,
E morrò sfortunato.
Mon.Giovine tu favelli
Per non so qual vaghezza, e ci dimostri,
Chi di noi non ti caglia; io t’ammonisco,
Che sei molto vicino
A perdere la vita, ò conservarla;
Pensa sù te medesmo,
Et a colui che parla.
Meg.Mia ventura è sì strana,
che s’io rispondo il vero
Del modo, in che son nato, e son vissuto,
Rassembra, ch’io vaneggi
Montano, et il mio dir non è creduto;
Ma tu per certo mi minacci in vano,
Minacciandomi morte;
È sì fatta mia sorte,
Ch’esser dee mio desio
Il perder questa vita;
Perche viver deggio io?
Già fatto amando di provare indegno
Un minimo conforto,
E riserbato a l’ira
Et a l’altrui disdegno?
Deh che vedrei vivendo,
Salvo una fronte oscura?
Et un guardo per me non mai sereno?
Atti sempre feroci,
Et accenti, e parole
Da pormi dentro il cor rabbia, e veneno?
Ah rompasi oggi mai
Il corso de miei giorni;
Sia lieta Clori di vedermi estinto,
Poi che sì mal l’amai.
È giusto, che risponda
Al principio la fin del viver mio;
A pena nato al mondo
Perdei patria, e parenti, e di me stesso
Non ho notizia alcuna;
Da le miserie oppresso
Io pur fui sostenuto,
Perche crescendo io ben gustar potessi
I gravissimi affanni,
Che conosciuti non havrei morendo
In su quei teneri anni;
Montano è gran ragione,
Ch’io m’affoghi ne l’onde d’Erimanto;
Dentro lui pargoletto
Hebbi a perdere la vita,
E per gran meraviglia io ne campai;
Oggi pur mi vi traggie
La legge, ch’io sprezzai.
Tir.Un gran fascio di mali
Stringi in poche parole;
Deh, fa più piano alquanto il tuo parlare;
Come è che pargoletto
Havesti ad affogarti in Erimanto?
Meg.Come ciò fosse io non saprei narrare;
Sò, ch’indi fui raccolto;
E questo io sò perche mi fù narrato
Da lui, che mi raccolse;
Io di me non sò nulla;
Voi vedete un disprezzo di natura,
Natoci per morir subitamente;
Campato da la morte,
Per offerirsi a più crudel ventura.
Tir.Colui, che ti raccolse
Come chiamossi? e dove
Ti trasse d’Erimanto?
Meg.Ei si chiamava, et anco oggi si chiama
Per nome Melibeo;
Ei solea raccontarmi,
Che là, dove Erimanto
Entra nel fiume Alfeo,
Già vide correr voto un navicello,
In cui solo posava un fanciulletto,
C’havea forse cinque anni;
E lo trasse dal fiume a sue capanne,
E per pietà nudrillo;
Questo è quanto di me solea narrare
Quel mio padre, non padre,
E ch’io posso contare.
Tir.Dimmi, del nome tuo tieni memoria?
Ei come t’appellava?
Meg.Qual fosse veramente il nome mio
Son del tutto ignorante;
Ei mi disse Nerino,
Perche ne i pianti miei
Solea chiamar Nerina.
Tir.O pietade del ciel sempre infinita;
O fosca humana mente;
Montano, il mio pensier dove traea
Me lasso, e me dolente?
Mon.Io certamente ò Tirsi ho contrastato
A tue voglie severe,
Però che forza occulta
Mi conduceva a così fare; Dio
Il qual sempre è pietoso
Sia sempre anco lodato
O carissimo, omai
Non più Nerino, omai non più Megilla,
Ma sia tuo nome Alcippo;
Non più de la ventura,
Ma figliolo di Tirsi;
Nerina era tua balia;
Ella andava a diporto
Con altre donne giù per l’Erimanto,
Fù con forza assalita
Da fiero stuolo di d’huomini malvagi;
Seco trasser le donne;
E te solo lasciaro in sul naviglio
Preda de la ventura,
Dopo non molti giorni
Nerina liberata a me sen venne,
E narrò la sciagura; immantenente
Fei cercar d’ognintorno un lungo tempo,
Ne sentendo di te novella alcuna,
Io ti tenni per morto;
Ho ben pianto dieci anni,
Ne più sperava rivederti; ò solo,
E tardi ritrovato.
E mio vero conforto.
Meg.Tirsi, se ciò che narri, e fermamente
Ti metti nel pensiero
È da esser creduto, io proverollo
Con ben certo argomento;
Quando da Melibeo mi dipartiva,
Mi fe queste parole;
Tu parti, et io son vecchio,
Ne sò, s’harò ventura
Di più mai rivederti;
A molti varij casi
Esser poi riserbato
Essempio de mortali;
Però da me ricevi, e ben conserva
Questi pochi segnali;
Dal collo io te gli tolsi in sù quella hora,
Che ti trassi dal fiume;
Di quì forse potrai
Farti noto a parenti;
Quei segnali son questi, che dal collo
Pender tu mi vedrai.
Tir.Ogni dubbio e rimosso;
Certa è la verità; dunque piangendo
Non finirò mia vita;
Haverò pur chi mi richiuda gli occhi
Su l’ultima partita:
Meg.Tirsi, però che padre
Non ti voglio chiamar, quando assai poco
Hai da goder tal nome; il troppo affetto
Ti toglie di te stesso; e non avisi,
Che ritrovi un figliuolo,
Cui di vivere omai non è concesso;
Tre son, che fortemente
Contrastano mia vita;
La vostra legge, onde io
Homai son condennato;
Clori, che sol desio
Ha di vedermi ucciso; et io, che senza
La compagnia di lei
Non vuò, che vada innanzi
Pur un de giorni miei.
Tir.Deh che si metta in bando
Un sì fatto parlar; ben troverassi
Modo ad uscir di pena;
Dio, che fin quì stato è con esso noi
Non abbandonerà; movi Aritea;
Trova le Ninfe, trova
Clori, racconta lor ciò, c’hai veduto;
Sponi miei prieghi, e teco
A noi qui le conduci;
Montano, entriamo in tanto
Dentro queste capanne; et attendiamo
La fin d’ogni mio pianto.