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L'attivismo - 10. La mobilitazione politica online

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10. La mobilitazione politica online


Il 2009 si apre, per Aaron, con un nuovo progetto, che prende vita e che viene pensato e fondato con Adam Green, Stephanie Taylor, Michael Snook e Forrest Brown: gli viene dato il nome di PCCC (Progressive Change Campaign Committee) e diventerà già nel 2012 – con oltre un milione di membri – il principale gruppo progressista degli Stati Uniti d’America.

Lo studioso David Karpf pubblicò un libro per la Oxford University PressThe MoveOn Effect – espressamente dedicato a questo fenomeno/movimento e al ventaglio di novità che l’iniziativa avrebbe portato nel quadro sociale e politico di quegli anni.

Internet, nota lo studioso, stava facilitando una vera e propria transizione generazionale all’interno del sistema dei gruppi di attivisti politici negli Stati Uniti d’America; si registrava il sorgere costante di nuove associazioni politiche netroots – ossia organizzate tramite blog, forum, siti web, sistemi di messaggistica – che avrebbero svolto un ruolo sempre più importante nella mobilitazione politica dei cittadini.

Allo stesso tempo, le organizzazioni che si occupavano di raccogliere e coordinare l’impegno politico dei cittadini, e loro azione collettiva, stavano cambiando radicalmente: si basavano, ormai, su strutture e routine di lavoro innovative, impiegando nuove strategie e strumenti mai visti prima.

Il nuovo ambiente dei media e del web aveva dato origine a modalità di organizzazione che univano varie entità, spesso anche molto piccole, cambiando completamente i regimi sociali e le modalità di adesione, di tesseramento e di raccolta fondi.

Stava apparendo all’orizzonte, in poche parole, la nuova organizzazione politica del XXI secolo che teneva in grande importanza anche le iniziative piccole, estremamente verticali e portatrici di singoli interessi specifici. Il coordinamento, e l’unione, di tutti questi “satelliti” con gli strumenti elettronici in vista di un obiettivo comune avrebbe, infatti, generato una grande realtà.

I membri del PCCC si dedicarono, sin dalle origini, a innumerevoli attività di sensibilizzazione, sostegno, organizzazione di campagne, petizioni, raccolta fondi e denunce pubbliche di fatti illeciti correlati alla politica nordamericana.

La presenza di Swartz fu preziosa per portare attenzione nei confronti dei temi digitali e per farne comprendere l’importanza politica; egli avviò, in particolare, campagne per ribadire e garantire la neutralità della rete, per opporsi a tentativi di censura, per reclamare contenuti liberi online e infrastrutture basate su architetture aperte e accessibili a tutti.

Nel 2010, venne lanciata l’iniziativa “GoogleDontBeEvil.com”: furono consegnate oltre 300.000 firme a funzionari presso la sede centrale di Google, con [p. 104 modifica]l’invito a rispettare il loro motto aziendale, “Don’t be evil”, e a porre fine ad accordi segreti – in particolare con l’operatore telefonico Verizon – che avrebbero messo in pericolo l’idea di neutralità della rete.

Oltre 100.000 membri dell’organizzazione, nelle settimane successive, firmarono una petizione per domandare al presidente della Commissione federale per le comunicazioni, Julius Genachowski, di impegnarsi al fine di garantire una reale protezione della neutralità della rete e affinché non lasciasse che fossero le multinazionali a “scrivere le regole” della società digitale del futuro. Inoltre, quasi cento candidati al Congresso per le elezioni del 2010, stimolati dagli attivisti, assunsero l’impegno formale di proteggere la neutralità della rete seguendo le indicazioni, e il lavoro in tal senso, degli esperti del PCCC.

Nel 2010, uno degli obiettivi principali degli sforzi di Aaron era la creazione di realtà per l’attivismo politico che, negli Stati Uniti d’America, ormai fiorivano come le startup nella Silicon Valley. Aaron decise, allora, di contribuire anche alla fondazione di Demand Progress, una seconda organizzazione, con sede a Washington, che aveva lo scopo di sviluppare una coscienza critica con riferimento ai diritti degli utenti sul web. Rispetto al PCCC si trattava, quindi, di un’iniziativa particolarmente orientata al mondo digitale.

Anche in questo caso, l’organizzazione avrebbe operato promuovendo campagne di raccolta di firme online e si sarebbe battuta per la libertà di manifestazione del pensiero in rete e per la protezione dei dati personali.

Demand Progress fu fondata con un primo, grande fine specifico: avviare una battaglia per contestare un disegno di legge denominato PROTECT IP Act e cercare di fermare l’approvazione di una legge denominata SOPA. Erano, entrambi, provvedimenti correlati al copyright, che avevano come obiettivo un inasprimento delle sanzioni per tutti coloro che avessero violato le leggi a tutela del diritto d’autore e della proprietà intellettuale, ostacolando così, di fatto, il libero accesso alla conoscenza.

Demand Progress si presentava come un progetto particolarmente interessante per il suo collegamento diretto a Internet e alla politica della rete e per le sue posizioni di supporto alle libertà in rete, alle libertà civili, alla trasparenza e ai diritti umani e di ferma opposizione a episodi di censura e di controllo.

La battaglia di Demand Progress contro il copyright iniziò con l’obiettivo estremamente importante, per difendere Internet, di bloccare una proposta di legge statunitense che voleva contrastare la pirateria online. Le azioni presero il via nel settembre 2010, quando un disegno di legge, denominato COICA – Combating Online Infringement and Counterfeiting Act –, sembrava riguardare specificamente e unicamente l’area della tutela del copyright online ma, a seguito di un’analisi più approfondita, appariva coinvolgere la libertà stessa di utilizzare Internet.

Fu questo, in particolare, il punto critico che attirò l’attenzione di Aaron: nel testo di quella norma vi era un passaggio per cui il governo degli Stati Uniti [p. 105 modifica]d’America avrebbe avuto la possibilità di stilare una lista di siti web che i cittadini americani non sarebbero stati autorizzati a visitare.

Veniva concretizzata, pertanto, l’idea di un vero e proprio “grande firewall americano” basato su una lista nera di siti, con un connesso sistema di censura immediata di determinati contenuti.

Aaron comprese all’istante – e cercò di far comprendere a più persone – come non si trattasse solamente del problema della rimozione di alcuni specifici contenuti, considerati dalla legge illegali, ma di una vera e propria procedura di chiusura discrezionale di interi siti web e del blocco della comunicazione fra gruppi di discussione.

In altre parole: il riferimento legislativo al copyright era stato usato come leva per aggirare i principi costituzionali sulla libertà di manifestazione del pensiero consacrati nel Primo Emendamento, e si partiva dall’istituto del copyright per dar vita a uno strumento di censura e per impedire in maniera generalizzata la comunicazione tra le persone in rete.

Il COICA venne presentato al Congresso il 20 settembre 2010. Il voto era previsto per il 23 settembre – appena tre giorni dopo – con un meccanismo di fissazione della tempistica dei lavori a dir poco criticabile: non apriva, in pratica, ad alcuna possibilità di discussione. Aaron, allora, pensò che l’unico modo serio di procedere potesse essere quello di coinvolgere direttamente alcune grandi aziende che operavano su Internet e che stavano creando – e, in molti casi, avevano già creato – l’economia digitale.

Voleva, in poche parole, generare tensione e ostilità tra le aziende e il mondo dei contenuti e di Hollywood, una lobbying che voleva la riforma in tal senso del diritto d’autore. Ma le reazioni dei responsabili delle aziende furono molto tiepide: non trovò, in concreto, una sponda solida in tal senso e le grandi società si disinteressarono del problema.

Allora, il giovane decise di lanciare una petizione online e creò, a tal fine, proprio il sito Demand Progress. Lo presentò come un’iniziativa nata per opporsi a una proposta di legge considerata nociva, coinvolgendo tutti gli amici e arrivando a raccogliere ben 300.000 firme in due settimane.

Ma non solo: gli attivisti iniziarono a mandare richieste specifiche ai singoli senatori, invitarono i cittadini a chiamare al telefono i politici per protestare, cercarono di bloccare la votazione, di sensibilizzare la stampa e pregarono singoli deputati di attivarsi per bloccare questo disegno di legge.

La legge venne approvata ugualmente, all’unanimità, nonostante fosse in corso una vera e propria ribellione di Internet. Poco dopo, però, l’iter di questa legge improvvisamente si bloccò. Un senatore democratico dell’Oregon, Ron Wyden, propose la sospensione del disegno di legge al termine di un accorato discorso, nel quale lo descrisse come uno strumento inadatto e devastante per combattere la violazione del diritto d’autore online, annunciando che non ne avrebbe consentito il passaggio senza modifiche. [p. 106 modifica]

Da solo, scrisse Aaron sul suo blog, un senatore non può certamente bloccare una legge, ma può soltanto rallentarne la procedura di attuazione. Un’opposizione così forte ed evidente, però, poteva far sì che il Congresso fosse costretto a investire un enorme quantità di tempo per organizzare il dibattito prima dell’approvazione definitiva. Ed è proprio ciò che fece il senatore Wyden, riuscendo, così, a fare guadagnar tempo prezioso agli attivisti.

L’intervento del senatore rallentò l’iter legislativo fino alla fine della sessione del Congresso, al punto che, quando la proposta vi tornò, si dovette ricominciare tutto da capo.

La necessità, per i politici, di ripartire da zero nell’iter' legislativo, li portò a rinominare questo progetto, prima con l’acronimo PIPA e, poi, con SOPA. Al contempo, però, il ritardo aumentava, garantendo agli attivisti il tempo di organizzarsi al meglio e di gettare le basi per una nuova, imponente opposizione.

L’attività di sensibilizzazione fu estremamente difficile: nonostante gli attivisti descrivessero alle persone in maniera molto semplice – proprio come era nella prassi di Aaron – concetti tecnici assai complessi, la sensazione diffusa, tra loro, era che non fossero presi seriamente. Che fossero visti come dei pazzi, ragazzini problematici e nerd che protestavano perché, a loro dire, il Governo statunitense voleva censurare Internet.

Quando, però, venne il momento di intervenire in concreto, si creò un bellissimo gruppo, e tante persone si attivarono. Singoli cittadini furono affiancati anche da grandi società, ormai leader nel digitale, quali Reddit, Google e Tumblr, e da vivaci startup della Silicon Valley.

L’attivismo e le sue modalità, si diceva, erano radicalmente cambiati, e la protesta prese, questa volta, innumerevoli forme eterogenee tra loro: singoli cittadini iniziarono a registrare video, a preparare infografiche, a dar vita a comitati di sostegno elettorale, a diffondere annunci e a pagare spazi pubblicitari, a scrivere articoli e commenti sui blog, a organizzare riunioni. Dal basso, e grazie alla rete, tutti sentivano un’esigenza immediata di essere coinvolti e, soprattutto, di fare rete e di invitare altre persone a unirsi a loro.

Un momento cruciale che cambiò il corso della battaglia politica, ricorda Aaron, fu quello delle audizioni alla Camera dei Rappresentanti sul testo e le motivazioni del SOPA.

Divenne immediatamente chiaro come non fosse più ammissibile che i politici non comprendessero il funzionamento di Internet. Il mondo della politica non poteva più ignorare la natura della tecnologia e la delicatezza di quell’ecosistema digitale che si stava espandendo sempre di più.

I membri del Congresso fronteggiavano numerosi ostacoli che impedivano loro di comprendere lo stato della rete e l’impatto che una simile normativa avrebbe avuto. Erano ignoranti, in primis, nel senso che non erano alfabetizzati dal punto di vista tecnologico e, quindi, in molti non conoscevano neppure le nozioni di base del tema che era stato posto in discussione. [p. 107 modifica]

Erano, poi, molto seccati per essere stati contestati pubblicamente da un gruppo di giovani nerd. Erano, in fondo, convinti che Internet andasse regolamentata, anche se non la conoscevano. E anche le frange più progressiste e più attente alle libertà civili non avevano problemi ad avviare progetti di censura nei confronti di quel mezzo che non conoscevano e che richiamava immagini di spionaggio e di minacce nucleari, provenienti direttamente dagli anni Ottanta del secolo precedente.

Vi era, infine, un problema di percezione di grande asimmetria nelle competenze. I senatori avevano timore di soggetti che erano dotati di competenze tecnologiche maggiori delle loro.

Aaron descrisse sul suo blog questa atmosfera come «una paura irrazionale che le cose fossero fuori controllo», e come tutta l’azione politica di quel tempo fosse collegata a questa sensazione. Occorreva, nell’idea della politica, tenere Internet costantemente sotto controllo.

Le audizioni al Congresso furono fondamentali per cercare di far comprendere, in maniera pacata e neutra, i problemi alla base di una simile proposta di riforma legislativa e la reale natura di Internet e dei suoi utenti. Pian piano, i politici più lungimiranti iniziarono a pensare, ad opporsi e, persino, a congelare la proposta per alimentare un ulteriore dibattito.

Fu, quello, il momento della vittoria, anche perché la protesta non si arrestò, ma arrivò a vette mai raggiunte da nessun’altra presa di posizione pubblica su quei temi: Wikipedia oscurò le sue pagine, Reddit oscurò il sito, e lo stesso fece Craigslist. I telefoni del Congresso furono tempestati di chiamate e i membri del Congresso si affrettarono a far circolare nuove dichiarazioni, ritirando il sostegno alla proposta garantito proprio da loro fino a pochi giorni prima.

Il 14 gennaio, praticamente tutti i senatori supportavano quella proposta di legge. Il 15 gennaio, tutti erano improvvisamente di parere opposto, e la volevano affossare.


Ma non facciamoci illusioni — scrisse Aaron sul suo blog dopo questa vittoria — i nemici della libertà nell’uso della rete non sono scomparsi. L’ira negli occhi di quei politici non è svanita. Ci sono tante persone potenti che vogliono soffocare Internet. E, a essere onesti, non ce ne sono altrettante che abbiano interesse nel proteggerla da tutto questo. Anche alcune delle più grandi aziende attive su Internet, per dirla francamente, trarrebbero vantaggio da un mondo in cui i loro concorrenti commerciali più piccoli potrebbero essere censurati. Non possiamo permettere che ciò accada.


L’entusiasmo di Aaron, la sua crescita come attivista e come uomo, la sua passione, finalmente esplosa, per il mondo politico emergono chiaramente dalla gioia palpabile con cui descrisse questi fatti sul suo blog.


Vi ho raccontato questa storia come una vicenda personale — scrive Aaron — [p. 108 modifica]anche perché penso che vicende importanti come questa siano più interessanti se inquadrate a misura d’uomo. Abbiamo vinto questa battaglia perché tutti si sono trasformati nell’eroe della propria storia. Tutti hanno deciso d’impegnarsi per salvare questa libertà fondamentale. Si sono sentiti coinvolti, e hanno agito. Hanno fatto il meglio di quanto potevano. Non si sono fermati a domandare il permesso a nessuno.


Anche il delicato tema della rete libera dal predominio del governo e delle società commerciali è ormai ben presente nel pensiero del giovane.


I senatori avevano ragione: Internet è davvero fuori controllo – sostiene Aaron – Ma se ce ne dimentichiamo, se lasciamo che Hollywood riscriva la storia, in modo tale che sembri che a fermare quella legge sia stata una grande azienda come Google, se gli consentiamo di convincerci che in realtà non siamo stati noi a cambiare le cose, se cominciamo a pensare che la responsabilità di quest’impegno spetti a qualcun altro, e il nostro compito sia solo quello di andare a casa per sdraiarci sul divano ingozzandoci di popcorn mentre guardiamo Transformers – beh, allora la prossima volta potrebbero anche vincere.