Ad Elena (Poe-Ragazzoni 1896)
Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
AD ELENA
Questi delicatissimi, patetici versi «ad Elena» vennero dedicati da Pöe a M.rs Withman, alla quale fu per un momento fidanzato, e la cui amicizia fu una delle poche consolazioni, dei pochi conforti dei suoi desolati ultimi anni.
Le circostanze accennate nel poema sono reali e tutta la fantasmagoria del plenilunio, delle rose, del parco addormentato dipinta dal vero.
Nel 1845 Pöe, una notte, in cammino per Boston, ove era aspettato per una lettura, vide per la cancellata di un giardino una bellissima signora passeggiare solitaria, al chiaro di luna. L’ora, il scenario, i particolari tutti lasciarono in lui un’indelebile impressione quando il caso l’avvicinò a quella donna, un anno, circa, più tardi, egli che aveva già tanto fantasticato su quell’incontro, le indirizzò questa elegia che il Bourget non esita a chiamare una delle più ammirabili che si siano mai scritte.
Ad Elena.
T’ho veduta una volta, una, una sola,
anni son, non rammento ben più quanti,
ma non molti, e quell’ore, quegl’istanti
non mi sono al pensier più che una fola.
Fu una notte di luglio, e dalla luna
piena, che, come l’animo tuo anelo,
si cercava una via traverso il cielo,
cadea, nel sogno e nel mister, com’una
fascia di seta diafana, d’argento,
sui volti aperti e attoniti di mille
e mille rose, in linea, tranquille
in un giardino magico, ove il vento
non osava passar che sulle punte
de’ pie’: cadea sul volto delle rose
che esalavan le loro alme odorose,
in cambio di que’ rai, quasi consunte
in una morte estatica; cadea
sul volto delle rose che spiegate
aulivano e languivano ammaliate
dal tuo sguardo, dal tuo sguardo di dea.
Là ti vid’io seduta, tutta in bianco,
mentre cadea la luna sulle cose
tutte e sul volto assorto delle rose
e sovra il tuo, composto in atto stanco!
Oh! a que’ viali, laggiù, in su quella mezza
notte di luglio non fu già un destino
arcano che mi trasse al tuo giardino
a respirare l’intima dolcezza
di quelle rose addormentate? Oh aiuole!
niun suon! tutto era immerso nel sopore,
tutto, salvo me e te (ciel, come il cuore
mi trema ancora a queste due parole:
«salvo me e te»). Ristetti, ti guardai
e ogni cosa disparve in quel momento
(certo, qualche divino incantamento
mi traeva a quel parco), ti guardai,
e i fior, l’acque, le piante gaudiose
più non furono, e l’erba si fe’ bruna,
e la luce di perla della luna
si spense... l’odor stesso delle rose
morì in grembo dell’aüre tranquille!
Tutto, tutto svanì, salvo te, salvo
il tuo sguardo, il tuo spirito nell’alvo
misterioso delle tue pupille!
Più non vidi che quelle, quelle tue
pupille, altro non vidi fino a quando
non tramontò la luna! quale blando
sogno! quanto incantesimo in quei due
astri e quanto pensier! qualche dolore
ignoto parea farli anche più buoni,
quante carezze, quante visïoni
e quale — oh quale! — oceano d’amore!
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Come la luna si tuffò tra i crocchi
delle nuvole, lungi, in occidente,
come una fata tu, soavemente
dileguasti tra i fiori, ma i tuoi occhi
rimasero! Rimasero! e pur ora
io li vedo (oh! prodigio senza nome!)
io li vedo! e ogni dove e sempre come
due veneri in fulgor, pria dell’aurora.
E. R.