Storia del reame di Napoli dal 1734 sino al 1825/Libro IX/Capo II

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CAPO SECONDO.

Discordie civili, e primi pericoli del novello reggimento.


XI. Compiuta quell’opera, e dall’universale creduta magnifica, onorevole, gli operatori misuravano il merito della impresa non più dalla pochezza dei travagli, ma dalla vastità dei successi; e però, vinta la modestia dei primi giorni, ambivano apertamente cariche ed onori. Ma già i ministri murattiani avevano messo ai più alti gradi della monarchia altri murattiani, e questi ancor altri; sì che le ambizioni di Monteforte salirono, si frammise dispetto e discordia fra due genti di vicina politica; e nelle opinioni del mondo acquistava peso il falso grido che la rivoluzione di Napoli fosse stata operata dai murattisti. Governavano i murattisti, che per età già matura, fortuna già compiuta, conoscenza dei popoli ed invecchiate abitudini piegavano all’antico della monarchia più che al nuovo della setta. Il solo general Pepe, benchè della stessa gente, aveva volontà e persuasioni da carbonaro; ma quel generale, buono al certo ed onesto, era di grosso ingegno, datosi alla rivoluzione, senza possederne le arti, per cupidigia di pubblico bene, non che di propria fama e potenza.

In alcune province (due Principati, Basilicata, Capitanata) si composero governi proprii, collegati da vicendevoli patti; e gli autori brigavano che le altre province imitassero l’esempio, acciò la costituzione del regno fosse la confederazione delle province. Ma quelle democratiche fantasie, non essendo nella volontà e nello interesse del maggior numero, ai primi provvedimenti del governo [p. 240 modifica]sì dissiparono. Ne restò la impressione e ’l pretesto, così che i nemici della rivoluzione alzavano grido che l’indole di lei era sfrenata; che la carboneria, nel primo cimento avventurosa, preparava i secondi, e vagheggiava la piena libertà, la legge agraria, religione sciolta o mutata. Desiderii e voci, forse manifestate da poca plebe, ma impossibili dove la forza del rivolgimento stava nei proprietarii, e in un popolo trascurato di religione, in un secolo di comodità e di piaceri.

Trecento soldati del reggimento Farnese, armati e minaccevoli, disertarono di pieno giorno dal quartiere di Piedigrotta. Altri soldati per ricevuto comando li perseguirono; e scontratisi al ponte della Maddalena, combattendo più ore, furono morti parecchi di ambe le parti, e ’l resto dei disertori preso e imprigionato. La guerra in città, le recenti torbolenze, gli animi agitati cagionarono grave scompiglio: ma così continui erano i disordini, così scatenata la disciplina, così debole l’autorità che i colpevoli dopo breve prigionia tornarono liberi ed impuniti.

In quei giorni morì di febbre il general Napoletani, compagno del general Pepe nei fatti di Monteforte. Nel 1799 prete, confessore, curato, cacciato in esilio, quindi soldato degli eserciti francesi, salì per valorosi servigi sino al grado di capo squadrone; e regnando Gioacchino, a colonnello e generale. Nel corso delle sue milizie fu due volte marito, e padre avventurato di numerosa famiglia: per essere conservato sotto il regno del divoto Ferdinando, andò a Roma nell’anno 1815 a comprare la remissione de’ suoi falli, ed indi appresso restò legittimamente generale, padre, marito.

Ed in quei giorni medesimi l’eccessivo calore della estate (28°. del Rèaumur), o malizia, o caso fu cagione che incendiassero la foresta di Terracina, e i boschi di Monticelli, San Magno e Lenola; per uno spazio di quattordici miglia lungo, variamente largo. Più celere il foco nelle sommità, più lento nelle selvose pendici di Lenola e Falvaterra, durò sei giorni e sette notti; nè si spense che per mancanza di alimento sopra il nudo monte di Sant’Andrea. Visitati i luoghi, osservando circondato da cumuli di cenere dove un arbore intatto e dove un tugurio, i popoli ammiratori ebbero sacri quei casuali resti dell’incendio, vi piantarono le croci, vi appesero i voti.

Era libera la stampa; e della libertà nei primi giorni si fe’ uso scempiato e maligno. Ma presto la ignoranza sfogata, la mediocrità inaridita, la malvagità dispregiata, ciò che liberamente si scrisse fu sapiente e civile.

La carboneria si aggrandiva, perocchè tutti vi aspiravano per timore o ambizione; e tutti la meretrice accoglieva per far guadagno [p. 241 modifica]di danaro e di numero. Ogni magistratura, ogni reggimento della milizia aveva la sua vendita: i capi, chiedenti o richiesti, vi si ascrivevano; ed ivi, perchè nuovi, erano minori degli infimi. Fu carbonaro il tenente-generale duca di Sangro; e se fra tanti e tanti nomi questo solo io registro nella istoria, il lettore ne apprenderà le cagioni nel seguito di questo libro e nel succedente. Vincitrice, numerosa, e non più cauta dei suoi misteri, la setta bramò un trionfo; e compose coi mistici riti suoi sacra e pubblica cerimonia. In giorno di festa moltitudine di carbonari, profusamente spiegando le dovizie dei loro fregi, ad ordinanza di processione, stando nelle prime file preti e frati in petto ai quali miravasi la croce ed il pugnale, protervi al guardo, taciturni, a passi lentamente misurati, si recarono in chiesa; dove un sacerdote, settario o intimidito, benedisse la insegna e i segnati. Non già tra le file, ma presente alla cerimonia fu visto il general Pepe; e tante genti, tante armi, tanto mistero spaventarono la città.

Un duca di famiglia illustre, spacciatore delle proprie sostanze, poi delle altrui, menato per sentenza di giudice alla prigione, traversando la popolosa strada di Toledo, cavò di tasca le insegne della setta, le sventolò in alto col braccio e dimandò soccorso ai cugini. L’ottenne; perciocchè innumerevoli carbonari, sguainando i pugnali, liberarono quel disonesto con aperto scherno delle leggi e della giustizia.

E misfatti peggiori commettevano tutto di uomini di mala fama e audacissimi, che ora in un loco della città, ora in un altro, più spesso nel campo Marzio, adunavano il popolo armato, trattavano di governo per concioni; e le sentenze più infeste alla quiete pubblica erano le meglio accette. Quegli stessi nelle notturne adunanze, per malvagità o sospetto, lanciavano contro i più alti dello stato accuse e minacce; che non antica fama, non presente virtù, non grado. non decoro, era scudo agli onesti cittadini. La carboneria, egli è vero, non aveva macchia di sangue, e non delitti, usati nei civili sconvolgimenti; ma soprammodo spargeva timori e afflizioni.

XII. Benchè lusinga di quiete esterna e brama di restringere le spese dello stato consigliassero a trasandare i fornimenti di guerra, provvidenza di stato esigeva che si rifacesse l’esercito; tanto più che dello antico restava poco per abbondantissime diserzioni, prodotte dalla usitata contumacia dei soldati, e dalla natura delle coscrizioni nei paesi non liberi; di modo che alcuni battaglioni erano scemati di meta, altri sformati. Ma impedivano la ricomposizione dell’esercito così le ambiziose schiere di Monteforte, dal general Pepe, per proprio vanto, decantate meritevoli di doppio avanzamento, come il maggior numero e le ragioni degli altri uffiziali che non tolleravano la preminenza, a dir loro, de’ disertori. E conviene [p. 242 modifica]rammentare in questo loco che l’esercito antico era viziato di parecchi pessimi uffiziali venuti col re da Sicilia, accetti per fedeltà, e di altri pessimi conservati per il trattato di Casalanza, e perchè l’aver mal servito a Murat non era demerito per i Borboni. Il general Pepe bramò, ed un decreto prescrisse che fosse scrutinalta la vita militare di ogni uffiziale da una giunta di generali e colonnelli, numerosa indi pubblica. I cattivi della milizia si agitarono, sparsero discordie, congiurarono, si pubblicò in quel tempo la lista dei promossi, tutti di Monteforte; ed allora le scontentezze si unirono, e convertite in tumulto, fu minacciato e insidiato a morte il general Pepe; così che intimidito cedè al numero, si soppressero gli scrutinii, non avevano effetto le promozioni; quando, nel giorno istesso, i promossi e delusi con pubblico foglio rinunziarono i ricevuti avanzamenti, dicendo non meritarne per le opere facili della rivoluzione, e averne ottenuti larghissimi dalla felicità de’ successi: finta e necessaria virtù, dispetto vero e segreto. Così divise stavano le forze di quello stato, allor che giunse nuova della ribellion di Palermo. che da prima si disse della intera Sicilia; del quale avvenimento descriverò le parti degne di esser saputo.

XIII. Ho riferito nei precedenti libri che, nel 1815, cadendo la costituzione di Sicilia dell’anno 12 seco trascinò l’altra di otto secoli antichissima. Invero da quelle libertà poco profitto trassero i Siciliani, che, incalliti alle servitù regie, feudali, ecclesiastiche, rispingevano le dolcezze del viver franco, tenendo l’operoso esercizio della costituzione a peso quasi più che a diritto; e perchè quelle leggi non acquistate nè richieste, ma ricevute in dono, erano al popolo come le nuove virtù che sempre gli appajono vizii nuovi. Ma le istesse politiche istituzioni, pazientemente perdute, poco pregiate quando erano presenti, vennero in amore della moltitudine per nuove leggi del re, aspre, intempestive. Erano le leggi di Napoli. Ma variando le due società per origini di ricchezza, per pratiche di amministrazione, per costumi, per usi, per civiltà, l’accoppiamento era deforme, così che in Sicilia la più parte delle sociali condizioni venne offesa dai nuovi codici. Il governo restò ingannato dall’esempio dei due regni francesi, quando in Napoli per le stesse leggi gli stessi interessi perturbaronsi; e presto la pianta rinvigorì, perchè l’innesto naturato diè frutto di prosperità e di ricchezza: non avvertiva che mancavano alla legittimità la forza e l’aura della conquista, ed ai Siciliani la pazienza che deriva da necessità e dal sentimento di esser vinti. Si aggiungeva che quelle leggi erano il codice Napoleone, codice che poco innanzi per comando dello stesso re fu nelle piazze di Palermo, qual sacrilego libro, dalla mano del boja lacerato e bruciato. Perciò quel popolo, per ingiurie fresche o antiche, per leggi non opportune, intese credute malvage ed [p. 243 modifica]infami, per ingiustizie, tributi, fastidii di novità, stavasi disordinato e scontento.

E talora nel 1820 quando a governarlo andò il general Naselli siciliano, educato alle servitù della reggia, ingrandito per sovrano favore, inabile, indotto. Gli si diede compagno il cavalier de Thomasis, di molta fama e d’ingegno, perchè alla nota incapacità del primo supplisse la virtù del secondo: usato stile dei governi assoluti per dare delle cariche pubbliche il lustro ed il benefizio ai favoriti, il peso e ’l pericolo ai meritevoli. Quella coppia era in Sicilia da pochi giorni, quando avvennero le rivoluzioni di Napoli.

Qui stavano per servizio di corte o a diporto parecchi nobili Palermitani, ai quali più giovando la costituzione anglicana del 1812 che la popolare delle Cortes ne palesarono il desiderio al vicario ed al re: e questi, per timore arrendevoli a tutte le speranze dei sudditi, dierono risposte ambigue o disadatte; poi divolgate dai richiedenti (fosse scaltrezza od errore) come mascherato assenso alla dimanda. Alcuni di quei nobili, dopo ciò partiti, giunsero a Palermo, quando la nuova della rivoluzione di Napoli concitava il popolo, numeroso ed ebbro più dell’usato, perchè ricorrevano le feste di Santa Rosalia. Il general Church capo militare dell’isola, volendo reprimere quei moti, fu dalla plebaglia oltraggiato, minacciato, inseguito, e ’l general Coglitore ai suoi fianchi ferito; e salvi entrambo fuggendo. Il general Naselli già da due giorni trepidava in segreto, perocchè prima del pubblico aveva saputo gli avvenimenti di Napoli, e nascosti per fino al suo compagno de Thomasis, sperando incautamente nella fortuna, e persuadendosi di non so qual fato irresistibile, condizioni solite nelle difficili congiunture ad uomini pigri ed ignoranti.

XIV. Era vasto il movimento, ma senza scopo. I nobili venuti di Napoli, adunandosi con altri e concordando nella costituzione dell’anno 12, ne lanciarono fra i tumulti la voce che restò schernita, perocchè i settarii e liberali della Sicilia presentivano le dolcezze della costituzione spagnuola. Caduta la prima speranza, propagarono l’altra voce d’Indipendenza, e fu accolta perchè grata a tutti gli uomini, più agl’isolani, gratissima agli abitanti della Sicilia, cui francarsi da noi era desiderio antico e giusto. Dio, re, costituzione di Spagna ed indipendenza fu quindi il motto della rivoluzione di Palermo, così che ai tre nastri della setta aggiunsero il quarto di color giallo, patrio colore. Il luogotenente Naselli costretto ad operare, trasportato dagli avvenimenti, fece, disfece; ondeggiava fra pensieri opposti, sempre al peggio appigliavasi. Diede, richiesto, al popolo il solo forte della città, Castellamare; ma indi a poco, mutato pensiero, e non bastando a riaverlo le dimande o l’autorità, comandò di espugnarlo. Tre volte le milizie lo assaltarono, tre volte [p. 244 modifica]furono respinte; perderono uomini e credito, crebbe della plebaglia l’audacia e lo sdegno. Naselli, sentita la sua debolezza, nominò al governo della città una giunta di nobili, che in breve fu dispregiata, perchè le derivazioni di cadente autorità sono inferme come la origine, solamente valevoli ad accelerare i precipizii comuni.

Soperchiare ogni legittimo potere, sconoscere i magistrati, calpestare le leggi, opprimere, imprigionare le milizie, schiudere le carceri e le galere, abbassare le bandiere del re, rovesciar le sue statue e mutilarle, bruciar le effigie, saccheggiar la reggia, devastar le delizie, in tutte le guise offendere la sovranità, oltraggiare il sovrano, furono la ribellione di un giorno. E poco appresso molte case spogliate, altre incendiate, parecchi cittadini per furore o sospetto miseramente uccisi, e due principi, Cattolica e Iaci, a’ quali per maggior ludibrio fu troncato il capo e portato in mostra per la città. Viste quelle furie, la fazione dei nobili si atterrì; il general Naselli, quasi nudo e invilito, fuggì sopra piccola barca. Il popolo creò una giunta sovrana, facendone capo il cardinal Gravina, e membri parecchi nobili ed alcuni della più bassa plebe, il qual magistrato governava fra comizii armati, meno da reggitore che da soggetto.

Fuggitivi sopra varie navi arrivarono in Napoli nel giorno istesso Naselli, de Thomasis, Church ed altri parecchi, che per onestare la viltà della fuga, o per narrare casi di pietà e di spavento, aggiungevano favole alle verità per sè grandi della rivoluzione di Palermo. Il popolo tumultuariamente ragunato a crocchi, a moltitudini, correndo le strade maggiori della città, l’un l’altro chiedevasi: Che fa il governo? che aspetta? I Napoletani sono trucidati in Sicilia, i Siciliani comandano in Napoli. Al qual grido si univano i lamenti ed il pianto dei parenti di quei moltissimi che si dicevano uccisi. Le sentenze variavano; i più caldi della plebe proponevano chiudere in carcere i Siciliani per ostaggio, proponevano i più iniqui di trucidarli per rappresaglia. Ma potè la giustizia; così che vincendo il parere di eccitare il governo a partiti solleciti e severi, si spedirono ambasciatori al vicario, gli ammutinamenti si sciolsero: dei Siciliani ch’erano in Napoli ai primi gradi dell’esercito e della corte, fu rispettata la persona, obbedita l’autorità.

Ondeggiava il governo fra pensieri diversi, perocchè vedeva pericoloso il rigore, nocevole la pietà, l’esercito non ancora composto, e le discordie nostre non meno pericolose. Per allora si spedirono in Sicilia due editti del re, del vicario, che impegnavano i buoni alla pace, minacciavano i ribelli, o promettevano di perdonarli qualora senza indugio tornassero all’obbedienza. I Napoletani, dicendo due fogli essere debole rimedio e nessuna [p. 245 modifica]vendetta, sospettavano la lealtà del vicario, tanto più che nella devastazione dei palagi e delizie reali gli appartamenti suoi e le sue ville furono rispettate; accusavano la giunta e i ministri; volevano i generali Naselli e Church giudicati; diffidavano, spiavano. 1l cielo preparava i futuri mali.

XV. Così contristata la parte costituzionale, ritornò da Vienna il principe di Cariati, là spedito ambasciatore straordinario, e riferì l’inurbano accoglimento e gli atti ostili di quella corte. Le ansietà esterne e le interne fecero trasandare, benchè primario obbietto della rivoluzione, il discarico dei tributi, e volgere il pensiero alla ricomposizione dell’esercito. L’animo dei cittadini mostravasi voglioso e audace, la finanza pubblica era copiosa, i generali abbondavano, ed a parecchi tra loro non mancava uso ed arte di guerra; ogni detto ed ogni opera del vicario e del re dimostrava il proponimento di sostenere il nuovo stato; ed a tali apparenze di concordia e di forza le menti leggiere superbivano, le sapienti non disperavano. Per formare cinquantamila combattenti si richiedevano ventottomila nuovi soldati; e poichè le pratiche di coscrizione erano lente rispetto al bisogno, s’invitarono a difendere la patria i già congedati dalla milizia con editto che dichiarava volontaria l’ascrizione, breve il servizio perchè di sei mesi, grande il merito. Si aspettava da quello invito alcun soccorso ai bisogni, ma i congedati avanzando le comuni speranze, corsero in folla ad ascriversi; le mogli e i genitori (freni mai sempre) furono questa volta stimoli alla partenza, si negligevano le domestiche dolcezze, le private faccende, l’istesso amore dei figli, ed allorchè partiva un drappello di congedati gli sì faceva festa dalla città, gli si pregavano voti nelle chiese. Prendevano il peso e la cura delle abbandonate famiglie le autorità del municipio e i cittadini presenti, tanto che in alcun luogo fu visto coltivato senza mercede il campo degli assenti. Assai più, assai prima dei provvedimenti giunsero i congedati; e però che il troppo numero faceva peso ed impaccio, molti ne furono rinviati, e la necessaria parzialità cagionò invidia negli altri. Oltracciò essendo angusti gli alloggiamenti ai venuti, mancando le vesti e le armi, vedendosi mal corrisposto il fresco zelo di quelle genti, nacque scontento pubblico, e si levarono i primi sospetti e le prime accuse contro il ministro della guerra.

Frattanto l’esercito si accrebbe a cinquantaduemila soldati, con saggia misura tra fanti, cavalieri, genio, artiglieria; e benchè da prima fossero poche le munizioni, meno le armi, più scarso il vestimento, a tutto fu provveduto con mirabile celerità, Si volsero al tempo stesso le cure alle fortezze. Civitella era stata smurata dai Francesi nel 1805, Pescara da’ Tedeschi nel 1815, e però quei due già baluardi del regno, inutili alle difese. restavano monumento [p. 246 modifica]di nazionale vergogna e di straniero barbarico dominio; Gaeta non aveva riparato tutti i danni dell’assedio del 1806; Capua, rosa dal tempo, a parti a parti rovinava. Delle quali fortezze in breve tempo si restaurarono i bastioni e si accrebbero; si alzarono altre fortificazioni nella frontiera, così che ogni entrata nel regno fosse impedita e difesa; si ridussero a fortezze occasionali Chieti, Ariano, Montecasino; si tracciarono due gran campi, a Mignano ed Aquila, quello compiuto per opera del general Carascosa, questo non mai cominciato per le improvvidenze del general Pepe. Altre linee, altre trincere, altri forti erano segnati nella Calabria e nella Sicilia.

Oltre alle milizie assoldate, si composero le civili, ajuto delle prime o riserva. Tutti gli uomini atti alle armi (atti sentivansi per fino i vecchi) furono ascritti, chiamando i più giovani legionari, i meno giovani militi, gli anziani urbani; con legge che i primi, richiesti, si unissero all’esercito, i secondi difendessero la provincia, gli ultimi la città o la terra. Erano delle tre specie duecentomila.

Ma a così grandi forze invaniva la carboneria. Essendo per essa in ogni reggimento due ordini di gradi, cioè della milizia e della setta, i militari discendevano dal primo all’ultimo, i settarii ascendevano dall’ultimo al primo; un colonnello sopra tutti nel campo, era infimo nella vendita, ed un sotto-uffiziale, infimo nelle ordinanze, spesso era primo nella setta. Si scontravano si confondevano i doveri, la disciplina fu spenta. I lodatori della carboneria (ignorantissimi di guerra) all’incontro dei descritti mali vantavano l’entusiasmo dei soldati settarii: non pensando che le impetuose passioni, raramente cagione di alcun prodigio, lo sono più spesso di rovina; e che l’ardore delle milizie, se legato all’obbedienza, è invincibile, se libero si scompiglia. Nelle notturne adunanze scrutinavasi l’animo e le azioni dei generali, e, come è natura delle basse congreghe, si diceva chi traditori, chi contrarii alla libertà; della quel censura pigliando sdegno i generali, si concitavano vicendevoli dubbiezze e discordie. Fu maggiore il pericolo poscia che il general Pepe, non avendo pregi e fama da reggere il credito e la possanza in esercito bene ordinato, datosi ai settarii, gl’ingrandi dell’aura del suo nome e dell’autorità di capo supremo dell’esercito.

Visti quei mali, la giunta di governo e i ministri, adunatisi per trattar dei rimedii, chiamarono a consulta il capo della polizia Pasquale Borrelli, per natura scaltramente ingegnoso e per lunga usanza esperto delle brighe di stato. Egli opinò di non reprimere la carboneria, ma spiarne le pratiche, dirigerne le voglie e l’opera; e soggiungendo che d’assai tempo egli usavi quel modo, discorrendo i casi e i successi, pregando a non recidere o intricare le [p. 247 modifica]bene ordinate fila, prometteva piena e vicina tranquillità. Essendo fra’ pregi suoi parlar facile e scorto, mascherò l’ambizione di reggere la parte più potente dello stato, così che gli astanti sì arresero al suo voto, e quello oscuro artifizio di polizia si slargò in sistema di governo. Uomini astuti e loquaci, abusando la ignoranza delle moltitudini, professando sfrenata libertà, fingendo sospetti contro il re, il vicario, i capi del governo, divennero primi della carboneria, motori e regolatori delle sue opere. La qual arte, alle prime apportatrice benefica di quiete, col mutar dei tempi e il dechinar delle cose costituzionali tradì lo stato e fu principal cagione di pubblico disastro.

XVI. La rivoluzione in Sicilia erasi distesa dalla città di Palermo al Vallo dello stesso nome, ed indi al contiguo di Girgenti. Là Vallo vuol dir provincia; e vien da valle, che essendo tre principali, dividono l’isola in tre gran parti, e però in antico erano tre le province, oggi divise in sette, che pur chiamansi Valli. I due valli ribelli con inviti e minacce concitavano gli altri cinque, che rispondevano da nemici coll’armi; avvegnachè ridestato l’antico livore fra le siciliane città, facendosi altiera Siracusa per le sue memorie, Messina per le sue ricchezze, Palermo perchè regina dell’isola, si combattevano i concittadini, le famiglie, i congiunti, in guerra, non che civile, domestica. Quei soli due valli erano contrarii al governo di Napoli; gli altri cinque obbedienti. Il re nominò suo luogotenente il principe della Scaletta, e comandante delle armi il generale Florestano Pepe che andò a Messina, vi dimorò pochi giorni, ed inatteso ritornò in Napoli.

Così passando i giorni, la rivoluzione di Palermo rinforzavasi. Quella giunta sovrana, con alterezza di governo, mandò in Napoli ambasciatori per patteggiare da stato a stato, mentre nello interno faceva nuove leggi sovversive delle antiche, chiamava eserciti, nominava magistrati, usava la sovranità negli attributi maggiori. Ma la bruttavano le turpitudini dell’anarchia: violenze nella città, correrie nelle campagne, spoglio dei presi contrarii, ed in ogni loco uccisioni e rapine; non fu salvo il banco dove stava in deposito il denaro pubblico e privato; non furono salve le biblioteche, le case di scienza e di pietà: cose umane e divine la stessa furia distruggeva. Gli ambasciatori domandavano pace; mirando ad ottenere per patti le speranze della ribellione, ossia il governo di Sicilia separato da quel di Napoli; ivi la stessa costituzione di Spagna, lo stesso re, i due stati confederati. Prima di rispondere agli ambasciatori si consultò. Materia gravissima era la contesa tra due stati, sostenuta da due eserciti combattenti in guerra civile, e due nazioni sollevate, inanimite una da diritti naturali ed antichi, l’altra dalle presenti giustizie: per interessi di gran momento, in politica nuova, [p. 248 modifica]sotto re sdegnato, e reggitori dalle due parti superbi: cogli affetti eccessivi e varii delle domestiche brighe. Non sia però maraviglia se in quell’adunanza erano incerte le opinioni, rotti i discorsi, dubbiose le sentenze. Uno dei pochi convocati così parlò:

«La costituzione di Spagna in due stati non si apprende ad unico re, perchè nei casi più gravi di governo, come la guerra, la pace, le alleanze, il matrimonio del re, lo smembramento dello stato, abbisognando alla regia volontà assenso del parlamento: se dei due parlamenti l’uno assentisse, dissentisse l’altro, qual ne sarebbe l’effetto? a chi si appiglierebbe la decisione del re? qual sarebbe lopera di governo? E dire non abbisogno, però che il presente lo dimostra, che la sconcordia dei due parlamenti sarebbe facile e continua fra genti, per genio antico e nuovo, nemiche.

E nemmeno è possibile la confederazione di due (e non più) stati liberi, mancando il modo di costringersi alle pattovite condizioni; così che la confederazione di due soli stati è sustanzialmente alleanza, la quale per varietà d’interessi, di tempi, di passioni, si stringe o scioglie.

Perciò gli ambasciatori dimandano cose impossibili, ed io penso che concedendole, sarebbero le duce Sicilie o presto in guerra, o divise affatto di governo. Che non giovi la guerra, le presenti ansietà lo dimostrano; e che nuoccia lo star divise, lo mostra più chiaramente la natura. Ella così ha situato le due Sicilie che nelle invasioni nemiche il regno di Napoli sia antimuro a quell’isola, e l’isola cittadella del regno. Riandate, per non dire le vecchie cose, la istoria dei nostri tempi: la napoleonica potenza, che tanti eserciti disfece, che tanti regni conquistò, fu trattenuta sul lido del Faro, non dai presidii dell’isola, nè dalle armate nemiche, ma da poco mare. Sono le fantasie dei tempi, o, a dirla più schiettamente, le ingiustizie nostre, che fan desiderare ai Siciliani separarsi da Napoli.

Abbia la Sicilia tutti i frutti della libertà; serbi a sè la sua finanza, diriga le amministrazioni, compisca i giudizii: abbia comuni con noi leggi ed esercito, abbia eguale dignità e decoro di governo, tal che altiera signoria o livida dipendenza non più rompa i legami naturali dei due popoli. Provveda a’ suoi bisogni più veri, che sono l’abolizione piena della feudalità, lo scioglimento degli opulentissimi monasteri, la misura ed eguaglianza dei tributi, il ritorno delle proprietà, col nome di soggiogazioni, distratte.

Io quindi avviso dover rigettarsi, come impossibili o nocevoli, le proposizioni dei Siciliani ambasciatori; e trattare accordi alle condizioni vere, giuste, persuadenti, di sopra esposte. Per lo [p. 249 modifica]che cesserà la ribellion di Palermo, o la colpa di durarla resterà tutta dei Siciliani, non divisa, quale oggi appare, col popolo e governo di Napoli.»

Ma nulla ostante, i ministri del re, con pompa di vecchio astuzie, dieron risposte vaghe, disadatte: non concederono, non rigettarono Napoli, come avviene nella vera o creduta libertà, voleva esser tiranna sugli altri; sì che sdegnandosi della offerta pace, la chiamava temerità e seconda ribellione maggior della prima. Superbia nostra impediva gli accordi, superbia propria concertava nuove discordie nell’isola; ed a questa insensata passione son debite tante morti e tanti danni. Le città più avverse erano Palermo e Messina, che per qualità di natura e di stato hanno condizione sì varia che mancherebbe, se lo sdegno non le acciecasse, ogni motivo al contendere: Palermo è capo, Messina è forza dell’isola; l’una dellaltra libera e bisognosa. Ma sbandito il ministerio della ragione, le opere dei due popoli e dei due governi erano turpi e disordinate. Il re offeso nel nome, nei beni, nella potestà, nel decoro, voleva sulle ribellate province aspro e sollecito gastigo; secondavano quello sdegno i ministri, la giunta, il popolo; fu apparecchiata una spedizione di novemila fanti, cinquecento cavalli, un vascello, due fregate, parecchi legni minori da guerra e da corso; tremila altri fanti erano in Messina, Siracusa e Trapani. Si consultava nei consigli del re la scelta del duce supremo di quelle squadre, quando voce di popolo (in grazia del nome) preconizzò il generale Florestano Pepe, che il governo nominò e pregò; però che quegli a mal grado accettava l’onore.

L’armata sciolse le ancore al finir di agosto, e pochi giorni appresso arrivò in Sicilia: duemila fanti guidati dal colonnello Costa aggiravansi per lo interno dell’isola onde ritornare all’obbedienza i paesi ribelli, rassicurare i fedeli, contenere gl’incerti. Il generale per la più diritta via marciava sopra Palermo con diecimila soldati, avendo unito alle sue schiere alcuni battaglioni di milizie calabresi, e parecchi drappelli volontarii della Sicilia. In tutti gli scontri vinsero i Napoletani, che, sebben di numero minori, prevalevano per uso ed arte di guerra; ma sì poco e sì tardi si raccontavano tra noi le geste di Sicilia, che il popolo, credendole avverse, tumultuava. Si acchetò quando si volse a nuove cure di stato, alla elezione del parlamento.

XVII. I collegi elettorali furono affollati come in paesi di antica libertà; lo zelo del pubblico infaticabile, il giudizio severo: i primi offici della elezione erano sperati non contesi; e se alcun mai pregava o consigliava per sè o per altri, subito palesato e accusato, si mutava in demerito quella preghiera o consiglio. Così oneste furono le prime congreghe, non così tutte le seconde e le succedenti: e [p. 250 modifica]però in alcune province, prepotendo la carboneria, furono scelti a deputati i più caldi settarii; ma tanto piccolo era il numero a confronto dei buoni, che la prima rappresentanza nazionale si direbbe opera di popolo già fatto alle costituzioni. Di 72 deputati erano dieci ministri della chiesa, otto professori di scienze, undici magistrati, nove dottori, due impiegati del governo, tre negozianti, cinque militari, ventiquattro possidenti: e fra tutti due soli nobili. I collegi elettorali mostraronsi avversi all’antica nobiltà, cui spesso disonestamente impedivano il diritto comune di dare il voto. Furono ingiusti ed ingrati, perciocchè la legge non escludeva i nobili; e non vi ha in Napoli altra nobiltà che di nome e questi nomi, Colonna, Caracciolo, Pignatelli, Serra, altre cento chiarissime famiglie, diedero alla scure il primo sangue per amore di libertà. Qui di poco anticipando i tempi, mi convien dire che di ventiquattro deputati siciliani la terza parte era di nobili, la quarta di preti, gli altri dieci fra tutti i ceti della società: onde veggasi come ancora duravano nelle opinioni di quel popolo le preminenze feudali ed ecclesiastiche.

Terminate le elezioni, venuti gli eletti alla città, giunse il 1° ottobre, giorno fissato per l’apertura del parlamento. Era surta voce che il re deputerebbe il vicario; e veramente abbisognarono arti e preghiere dei ministri e del figlio per dissuaderlo dal proponimento, e scrivere lettere che dissipassero la popolare inquietudine. Altra voce diceva che i liberali volessero dar segni al re di servile obbedienza, tirando a braccio la carrozza regia; ma un’ordinanza di polizia vietandolo, rassicurò gli animi dalle turbolenze che spesso produce la troppa gioja dei popoli. Ed infine credendosi angusta per la cerimonia, come che destinata alle adunanze del parlamento, la sala di San Sebastiano, fu apparecchiata la più vasta chiesa dello Spirito Santo. Il re doveva recarvisi alle undici ore della mattina, i deputati ed i primi dell’esercito e della corte alle dieci; e frattanto non ancora spuntava la prima luce del giorno, ed il popolo ingomberava la magnifica strada e le tre piazze di Toledo; imperciocchè alla immensa popolazione della città erasi aggiunto gran numero di provinciali, venui per interesse o curiosità fin dalle parti estreme del regno.

All’ora stabilita il re preceduto dai principi e principesse della casa, standogli a fianco il vicario del regno, uscì con magnifica pompa dalla reggia, percorrendo a passo grave di cerimonia la strada di Toledo, tra ’l popolo che a mille voci lo applaudiva, e spargeva fiori sul suo cammino, e liberava uccelli al suo sguardo, per doppio simbolo di allegrezza e di libertà. Fra questa gioja giunse in chiesa, ov’era tanto numero di spettatori quanti nel vasto edifizio a stento capivano. E frattanto così profondo era il silenzio che parea [p. 251 modifica]vacua la sala: sia che la maraviglia impedisse le voci, sia che ciascuno intendesse a scuoprire nel viso del re i secreti del cuore. Ma poichè si mostrò lieto e sereno, da mille e mille ripetuti evviva fu rotto ed emendato il silenzio. Egli, fatta riverenza all’altare, saluto al pubblico, sedè in trono, mentre alla manca sopra sgabello minore sedeva il vicario, e stavano in piedi ai suoi fianchi i grandi della corte e il general Pepe. Il cavalier Galdi presidente del parlamento, ed il più anziano dei segretari si avvicinarono al trono; il primo portando in mano il libro degli Evangeli, l’altro il giuramento scritto: ed il re, levatosi, prese la carta, pose sul sacro libro la mano, e ve la tenne finchè a voce alta ed intesa pronunziò il giuramento. E poi, rendendo saluti agli evviva del popolo, nuovamente sedè.

Il presidente profferì lungo discorso; e ’l re, di tempo in tempo affermava col cenno. Finita la orazione, il vicario si levò; e preso rispettosamente un foglio dalla mano del padre, lo lesse: conteneva i sensi del re, i suoi precetti al parlamento, le riforme ch’egli credeva necessarie allo statuto, il confine dei poteri del parlamento, o ’l proponimento di sostenere le ragioni della monarchia costituzionale; ogni detto era sentenza di giustizia e di fede. Poscia il general Pepe rassegnò il comando dell’esercito, e dal re n’ebbe lode. Ed il duca di Calabria, qual figlio, drizzò discorso al padre, che ragionava non già di politica o di regno, ma della gratitudine sua e della sua stirpe; adombrando che solo per la costituzione poteva esser salda la dinastia. Dopo ciò, il re dichiarò aperto il parlamento nazionale dell’anno 20, e partì. Si ripeterono al suo muovere i voti del pubblico; tanto ch’egli non era più nella chiesa, ed il grido di plauso e di gioja si prolungava. Ma il cielo, che nel mattino era sereno, all’uscir del corteggio annebbiò; si fe’ più scuro, e quando il re giurava si addensarono le nubi, e cadde stemperata pioggia. Fu caso: ma superstizioso volgo diceva, che Iddio antivedendo l’avvenire, cruccioso di preparati spergiuri, oscurasse improvvisamente i luminosi spettacoli della natura.

XVIII. Convocato il parlamento, fu cassa la giunta di governa della quale si lamentava il popolo, accusatore instancabile dei governanti; incolpandoli delle sue sofferenze, benchè le cagioni fossero più potenti della sapienza e dell’arte di governo. Nel parlamento fissarono gli sguardi il re. il vicario, i ministri, i moderati, gli eccessivi, per indagar lo spirito di quella congrega, e farne guida chi di regno, chi di salvezza, chi di ambizione, chi d’inganni. Presto spiacque ai seguaci delle parti estreme; chiamandola demagogica gli assoluti, servile gli sfrenati, dissoluta i ministri, ministeriale i dissoluti. Le quali ingiurie si volgevano in lode; però che dove le passioni opposte trasmodano, gli uomini giusti che [p. 252 modifica]stanno in mezzo dagli uni e gli altri son maledetti. Ed oltracciò in quella libertà nuova mancando l’abito del dir franco, spesso scorreva in licenzioso; e mancando la pazienza delle scoperte confutazioni, ne indispettivano i grandi e i superbi. Ed è pur vero che i deputati, tirando esempio dal costume inglese, confondendo due costituzioni di genio diverso, una invecchiata, l’altra nascente, credevano domma di libertà l’opposizione ai ministri, e li trattavano nemichevolmente. Il pubblico, nuovo anch’esso alle scorrevoli dicerie di tribuna, spesso credeva sentenza del parlamento il voto audace o scorretto di un deputato. Queste erano le condizioni vere o apparenti dell’adunanza.

Sua prima cura fu il mutar nome alle province, in Irpini, Marsi, Sanniti, ed altri dell’antichità; essendo natura di popoli scarsi del presente ricordar le glorie del passato, e con vergognoso vanto mostrare le miserie della decadenza. Altre cose nuove ogni dì si proponevano, sempre grate alla moltitudine, perchè il nuovo piace a’ nuovi; onde il far poco nelle rivoluzioni è l’opra più difficile e più sapiente. La intera macchina sociale volea mutarsi per l’argomento che a popolo libero sconvengono le instituzioni della servitù; e così caddero l’amministrazione comunale, la provinciale, quella di acque e boschi; erano cadenti le amministrazioni del demanio, delle dogane, de’ ponti e strade: altri sistemi si meditavano, giudiziario e finanziero. Opere di molti lustri e di pesato consiglio innovator momento distruggeva.

È più crebbe il desiderio di novità quando le discussioni del parlamento si temperarono alle opinioni momentanee degli ascoltatori, e dirò come. Nelle prime adunanze, dalle tribune del popolo si applaudirono alcune orazioni o sentenze, la quale mercede popolare fu grata agli oratori, gratissima al presidente perchè più spesso gli era diretta; ma di uso fatta diritto, si estese così, che sovente uscivano voci contrarie di plauso e dissentimento da quelle istesse tribune che si chiamavano giudizio pubblico, come che fossero popolate da pochi, guasti e insipienti. Animata da quest’aura, una scintilla divenne incendio. Trattavasi del modo di proporre al re le riforme della costituzione, allorchè ad un deputato, che pure abbondava di senno, sfuggì dal labbro la dimanda: Questa assemblea è costituita o costituente? nè altro disse. Gli scaltri fra’ deputati e le popolari tribune accolsero la voce, la ripeterono, non più si parlò di riforme, ma il costituita o costituente era il subietto tumultuoso delle parlamentarie discussioni. E poichè, divise le sentenze, senza nulla decidere passavano i giorni: il re, la casa, i ministri, gli onesti, sentirono spavento, ricordando la costituente di Francia, la convenzione, l’atroce giudizio e i primi fatti della cruenta rivoluzione francese. [p. 253 modifica]

Altra sollecitudine sopravvenne. La carboneria insino allora divisa in tante società, quante almeno le province, si strinse in una, sotto proprio reggimento, col nome di assemblea generale che componevasi da’ legati delle società provinciali. L’assemblea generale aveva un vasto edifizio nella città, sue leggi, sua finanza, suoi magistrati, ed un regolatore supremo col nome di presidente. Ella era sì potente che, spesso richiesta, soccorreva il governo, come fu al richiamo dei congedati, allo arresto dei disertori, alla esazione dei tributi fiscali, alla leva delle milizie, ad altri bisogni dello stato. Erano soccorsi e pericoli.

Ed aggravò le condizioni del regno la vita privata del general Pepe, che sceso dal comando supremo dell’esercito, senz’abito militare, senza pompa o segno di autorità, davasi argomento della caduta rivoluzione. Però tumultuando i partigiani suoi e i ribaldi, il governo, a mal grado, lo nominò capo supremo delle milizie civili, ufficio immenso e nuovo, pericoloso alla monarchia ed alla libertà. Quelle milizie, già molte, si accrebbero smisuratamente.

In quel mezzo il capo della polizia Borrelli, che ad un tempo era vice-presidente del parlamento, e come innanzi ho detto, dirigeva per suoi ministri la carboneria, disponitore di tante forze, vedendo in mano al re nel presente gl’impieghi e le ricchezze, o, nel possibile rovesciare di fortuna, le persecuzioni e le condanne, attese ad ingraziarsi ai principi coll’arte più valida sopra i timidi, atterrire e rassicurare. Finse che un Paladini, avvocato, e per natura impetuoso, congiurasse con altri ad imprigionare il re, il vicario, tutti della casa, menarli in Melfi, città forte della Basilicata, e tenerli guardati sino a che la rivoluzione di Napoli fosse riconosciuta da’ potentati stranieri. Fece chiudere in carcere il Paladini e i disegnati compagni, affermò che per documenti era chiaro il delitto, ottenne guiderdone di grazia dalla regia famiglia; e quando il giudizio ebbe liberato quegl’innocenti, egli fece credere ingiusta la sentenza, forzata per timore che i giudici avevano dei congiurati. Paladini, che lo accusò di calunnia, viste indi a poco peggiorar le sorti dello stato, con foglio pubblico dichiarò sè veramente innocente, Borrelli veramente calunniatore; ma non volendo aggiungere alle pubbliche inquietudini le private discordie, ritirava per amor di patria l’accusa, e rimetteva l’ingiuria e la colpa. Altre volte il Borrelli diceva al vicario stare in pericolo la vita di lui e del re, raddoppiava le guardie, accresceva i provvedimenti, concertava le simiglianze della verità, ed a notte avanzata con viso allegro andava in corte a rassicurare del pericolo superato i timidi principi. Quegli artifizii medesimi ordiva per gli amici del re, sì che il Medici, il Tommasi, l’Ascoli, il Sangro, ingannati e creduli, si tenevano debitori di vita al Borrelli. [p. 254 modifica]

XIX. Erano così meste le cose pubbliche, quando venne in parte a consolare un foglio del generale Florestano Pepe, con lieto annunzio: che più volte scontratosi co’ ribelli siciliani gli aveva vinti e fugati, prese le artiglierie e le bandiere, spinta e chiusa la rivoluzione in Palermo; che attendato con L’esercito nelle soprastanti colline, poteva torre le acque alla città, ma in carità ne concedeva sei ore al giorno; che dopo tre combattimenti occupava la Flora ed una delle porte, la Carolina, sì che l’entrata gli era aperta; ma il riteneva pietà dei Palermitani, nostri concittadini benchè ribelli, aspettando d’ora in ora la loro volontaria sommissione. La magnanimità del generale fu laudata, perchè indizio di forza, e perchè le azioni generose o feroci piacciono ai popoli; ma il re non se ne allegrava, o che lo rendessero indifferente le dubbiezze di regno, o che gli piacesse il prolungato contrasto alla napoletana rivoluzione. Altre nuove della Sicilia giungevano tuttodì, ed agli 11 ottobre pervenne il trattato di pace, ed il racconto degli ultimi fatti di quella rivoluzione; le quali cose riferirò partitamente.

Poi che i ribelli furono confinati nella città, cadute le speranze, suscitato il timore nei capi, arricchiti gl’infimi, bramavan tutti la pace, ma in scereto, giacchè nello impero della plebe le sentenze dissolute apportano lode, le oneste supplizio. Dell’universal desiderio si avvide il principe di Paternò, che dopo la popolar disgrazia del cardinal Gravina e la partenza del principe di Villafranca presedeva la giunta di governo. Paternò, ricco, nobile, ottuagenario, gottoso, vegeto ancora di animo e di mente, conoscitore astuto della sua plebe, convocandola nella piazza maggiore, le disse: «Palermitani, il nemico è alle porte, noi mendichiamo l’acqua dalla sua pietà, i viveri sono al termine; il ferro, la sete, la fame ci minacciano morte, mentre il pregar delle mogli, il pianger dei figliuoli e ’l consiglio dei padri ci discorano: nè fia maraviglia se tra poco, snerbati di forza e d’animo, crederemo ventura darci agli abborriti Napoletani colle nostre case, donne e ricchezze. Se un resto di virtù è ancora in noi, tentiamo le sorti estreme: ascoltatemi.

Il nemico ci propone la pace; e però ch’egli la vuole, a noi giova di rigettarla. Ho preso spazio di un giorno a rispondere per consultar con voi delle nostre sorti. ed ora dirò primo e libero il mio voto. Io propongo di ordinare a schiera tutti i giovani della città; escir dimani alla campagna; chiudere indietro le porte per non avere altro scampo che nella vittoria; cingere il nemico ed assaltarlo alle spalle ed ai fianchi, mentre i vecchi e le donne combatteranno dai muri; nè lasciar la battaglia che morti o vincitori. Saremo, lo prevedo, meno numerosi del nemico; mancheranno a noi l’uso e l’arte di guerra; ma ogni difetto suppliscono il coraggio, la disperazione la necessità. Io dovrei per vecchiezza [p. 255 modifica]combattere dalle mura. ma sarò nel campo, ed inabile a trattar le armi, pugnerò colla voce, vi darò ajuto di esempio e di ardire.

Compagni, amici, prima di rispondere riflettete maturamente, perciocchè i subiti consigli sconvengono dove sono a cimento vita, onore, libertà, ed avvenire; dimani allo spuntar del giorno, in questa piazza, ci raduneremo, ed armati; se Iddio, se i santi protettori e custodi della città vi avranno inspirata la guerra, noi sotto la guida celeste usciremo dalle porte, e combatteremo; sarà stata mia l’idea, vostra la decisione, comune la gloria o la rovina.»

Ciò detto, non attese risposta, ed applaudito partì: l’adunanza si sciolse. Restavano ancora molte ore del giorno, e tutte della notte alla fredda riflessione, ed alla solitudine, che sono negli uomini esortatrici di quiete; e ridottosi ognuno alla famiglia, già intesa e mesta del discorso, non cessò la doglia se prima i giovani non giurassero sopra i più teneri e sacri nomi di votar l’indomane per la pace.

All’ora prefissa del vegnente giorno la piazza fu ripiena di popolo, e giunto il principe Paternò in abito e treno da guerra, innanzi ch’ei parlasse si alzò grido universale di pace. Lo astuto principe lo avea previsto; e però col cenno intimato il silenzio, parlò in questi sensi: «Palermitani, poichè vi duole la guerra, tratteremo di pace, nè io sosterrò le opinioni di jeri, che oggi dannevoli mi sembrano sol perchè voi le rigettaste. Il nemico anch’egli ridomanda pace, ignorando per ventura nostra lo stato della città, e l’abbattimento del nostro spirito, ma non tarderà saperlo, se tarderemo a trattare. Primo dei nostri bisogni è la prestezza; oggi si dovea combattere, se volevate la guerra; oggi si fermi la pace, però che pace volete. Scegliete negoziatori che abbiano fama ed ingegno, e più che ingegno e fama, la fiducia vostra.»

Si gridò dal popolo, il principe di Paternò negoziatore. Ed egli: «Non potrei esserlo, perchè l’oratore di guerra mal si trasforma in legato di pace.» Più stimolo fu il ritegno; ed il popolo ripetendo a romore lo stesso voto, non permise che il principe parlasse, se non quando col gesto affermò di accettare. Ed allora disse: «Giacchè lo volete, sarò trattatore di pace, ma unite a me tre compagni da sostener la fiacchezza della mia mente, Concedete ai vostri quattro legati piena fidanza, pieni poteri; non rinnovate sopra noi la stessa ingiuria che faceste al principe di Villafranca, pur egli ambasciatore di pace, da voi spedito, per voi fatto fuggitivo e disertore; perchè allora (ricordatelo con vergogna) era pericolo tra voi riferire il vero.» Furono aggiunti al Paternò il colonnello Requesenz, l’avvocato...., e prima di muovere dalla città mandarono nuncio al general Pepe del loro vicino arrivo.

XX. Fu al generale nuova gratissima; perocchè le munizioni di [p. 256 modifica]guerra scemavano, era il vivere ora profuso per saccheggi, ora mancante per disordini; le casse vuote, i soldati scontenti per insita ribalderia, e perchè tenuti sotto le mura, pazienti delle offese, inabili ad offendere, il campo mal collocato, le alture sguernite, la città non investita. I montanari, vista la lentezza de’ Napoletani, parteggiando per Palermo, scendevano a combattere; altre torme si radunavano alle spalle dell’ esercito; le navi per forza di vento si tenevano in largo mare, lontane dal campo. Soprastava il pericolo più ai vincitori che ai vinti. Giunti al campo i legati, avuta onorevole accoglienza, richiesero che si trattasse sulla nave inglese (il Racer) ch’era nel porto; e fu accordato. Era negoziatore per la nostra parte lo stesso general Pepe, che condusse con sè il general Campana e due uffiziali superiori dell’esercito; trovarono sul Racer i consoli austriaco e inglese, testimonii al trattato. Il secreto, l’ingegno, l'arte, gli usi di diplomazia si trasandarono; non era esame o negozio, ma discorso; nè pareva che si trattasse delle sorti future di due regni. I negoziatori siciliani chiedevano, il Napoletano concedeva; e sol talvolta, dubbioso de’ suoi poteri, dimandava scopertamente se la inchiesta trovava impedimento nelle istruzioni del governo, facendosi vanto di non averle mai lette. Si racchiudevano in un foglio di tredici articoli, che per importanza erano le norme di quella guerra, e per brevità non facevano tedio alla pigrizia.

Si fermò (a’ di 5 ottobre): pace; libertà delle milizie napoletane imprigionate nella rivoluzione; cessione a noi dei forti della città, le armi dei ribelli deposte, l’autorità del re obbedita, le statue rialzate. E per l’altra parte, la convocazione in assemblea generale dei deputati delle comunità (uno per ognuna dell’isola), per decidere a maggioranza di voti della unità o separazione dallo stato di Napoli: in ogni caso, costituzione della Sicilia la costituzione di Spagna, e re, il re di Napoli; il governo della città, sino a che le sorti politiche dell’isola fossero incerte, commesso ad una giunta di Palermitani; le opinioni libere, sicure; i falli e delitti della rivoluzione, rimessi,

Appena scritto il trattato, entrarono in città due battaglioni di milizia napoletana preceduti dal principe di Paternò, che tra mezzo alla plebe faceva segni di vittoria per sè, di ludibrio per l’avversa parte, indicando con gesto plebeo la scempiatezza dei Napoletani. Erano artifizii e verità. Il popolo fra speranza e maraviglia fu cheto e muto, i castelli trovati aperti e senza guardia ebbero presidio napoletano, i prigioni furon liberi, molte armi esibite, tutte deposte, l'esercito accampò fuori della mura. Quell’anarchia, dopo vita lunghissima di ottanta giorni. fu spenta.

XXI. La resa di Palermo, allegra per Napoli quando il telegrafo [p. 257 modifica]la segnò, fu poco appresso cagion di tumulto e di tristezza. Avvegnachè, pubblicato il trattato, si vide che alla ribelle città erano concedute, come patti di pace, le condizioni medesime ricusate (come preghiere) agli ambasciatori prima che cominciasse la guerra; quasi l’esercito napoletano fosse perdente non vincitore. Si aggiunse un foglio della città di Messina, diretto al parlamento ed al vicario, segnato da molti più noti cittadini, che diceva: «Il benefizio di unire in uno stato le due Sicilie non è inteso che da pochi sapienti; ma la comune de’ Siciliani, ricordevole delle ingiurie patite da’ Napoletani, e vaga del nome d’indipendenza, credendo libertà l’esser sola, pronunzierà nell’assemblea generale la lusinghevole separazione. Quindi Palermo sarà capo di questo regno, la città ribelle avrà trionfato; noi, perchè città fedeli, nemiche a lei, saremo oppresse. Se voi tollerate, anzi se voi stessi fate infelice la fedeltà, chi mai più vi sarà fedele? E se la ribellione da voi vincitori è premiata, qual città non sarà ribhelle?» Sensi aspri, veri, minacciosi. I Napoletani a torme correvano le strade della città, biasimando quella pace, maledicendo chi la fermò, trasmodando in sospetti e voci di vendetta. Il vicario a quel romore vituperava anch’egli il trattato, ed il ministro Zurlo, autore delle istruzioni date al general Pepe, spedì tre messaggi al parlamento per dimostrare che il generale, di sua mente, le avea trasgredite. Allora nella sala del parlamento, piena di popolo, il deputato colonnello Pepe (diverso ai generali Pepe per patria, famiglia, animo, ingegno) parlò in contrario di quel trattato, pregò che fosse casso; propose che l'autore (o fosse il general Pepe, o fosse il ministro) si assoggettasse a giudizio; e che altro generale con nuove schiere andasse in Sicilia per ridurre le ribellate genti all'obbedienza. Quel parere, seguito dal parlamento, fu decretato dal vicario; l’arringa diede all’oratore fama e favor popolare e poco appresso sventure.

Il generale Pepe, rivocato, ebbe in premio dal re la gran croce di San Ferdinando, e dal vicario lodi e grazie; nè saprei dire se quel favore fosse verace o finto, per timore del nome, o per aggradire ai Palermitani, o perchè il contrasto al presente stato di Napoli giovasse alla politica, piacesse allo sdegno dei due principi. Il generale scrivendo al re, e pubblicando colle stampe lo scritto, rinunziò i ricevuti onori; perocchè, diceva, riprovata l’opera sua (la convenzione del 5 ottobre), non meritava premio l’operatore. Sensi onorevoli ed ammirati. A lui fu surrogato il general Colletta, che, arrivando in Palermo, levò il campo, sciolse la giunta di governo, disusò i nastri gialli, cancellò tutti i segni del passato sconvolgimento. Indi a poco nei paesi già ribellati fece dar giuramento alla costituzione di Napoli, ed eleggere i deputati al parlamento [p. 258 modifica]comune. Il Colletta preceduto da meritata fama di severità, l’accrebbe in Sicilia; raffrenò l’esercito e la plebe; amante a modo vero e possibile di libero reggimento, scacciava le false libertà, diceva essere gl’impotenti del suo tempo peggiori dei molto operanti e distruttori della repubblica francese; però che quelli, animosi e primi, meritarono col morire, si scusavano dalla inesperienza; mentre questi, sordi alla ragione se felici, timidi e pieghevoli ad ogni fortuna, non hanno della libertà che i vizii soli, la irrequietezza, la indisciplina, il sospetto. Egli fu amato da pochi Siciliani, obbedito da tutti, che bastava per la condizione dei tempi allo interesse dei due regni. Così quietata l’isola, cadde lo sdegno dei Napoletani; Naselli e Chureh furono liberi, l’autore dell abborrita convenzione non ricercato: incostanza e debolezze dei popolari governi. Gli eletti deputati de’ due valli, sapendo l’esercito austriaco sul punto di muovere contro Napoli, e le sorti costituzionali dechinanti, ricusarono per varii pretesti l’onorevole officio, e però l’opposizione allo stato di Napoli, detta in prima della intera Sicilia, poi di due province, quindi di una città, si ridusse a nove persone per proprio vanto pertinaci e superbi, nel fatto paurose o scaltre.

XXII. Le cose esterne. peggioravano, avvegnachè le principali corti, la Russia, l’Austria, la Prussia, riprovavano il nuovo stato di Napoli; la Francia nol riconosceva; taceva la Inghilterra: e benchè la Spagna, la Svizzera, i Paesi-Bassi, la Svezia facessero formale riconoscimento, era poca la sicurtà in confronto del pericolo. Sapevasi che i re contrarii si adunavano a congresso in Troppau per consultare delle cose di Napoli; dicevasi nuovo esercito tedesco sceso dall’Alpi; si vedevano nel nostro golfo giungere, trattenersi, crescere tuttodì navi da guerra francesi e inglesi. Il principe Ruffo e ’l principe Castelcicala, ambasciatori, quegli a Vienna, questi a Parigi, ricusarono di giurare per la monarchia costituzionale. Il principe Serracapriola, ministro in Russia, scrisse al re in lettera privata: «V. M. comanda che io giuri per il nuovo stato di Napoli, e qua corre fama che forza di ribellione, non libera volontà, le abbia imposto quel mutamento. Che farò io così avverso a disobbedire ai suoi comandi come a nuocere a’ suoi interessi? Rimetterò a V. M. in questo foglio secreto il mio giuramento, a fin che lo mostri o lo distrugga secondo a lei giova e piace.» E ’l re con messaggio palesò al parlamento il procedere dei tre ministri, lodò Serracapriola, tolse agli altri carica, onori e stipendi.

Non andò a Vienna nuovo ambasciatore perchè quella corte avea manifestato di non accettarne; il duca di Canzano succedette al principe Scilla in Ispagna, il principe Cariati a Castelcicala in [p. 259 modifica]Francia, dove fu aggradito come privato, non ricevuto come ministro; il principe Cimitile, spedito in Russia per ambasciata straordinaria, impedito a Vienna, volse verso Inghilterra dove andava ministro. E tutti e tre prima del partire avendo preso comiato dal re, ne avevano avute lodi, ordini, consigli. Il duca di Canzano, già maturo di età, stanco e schivo di vicende, padre di molta famiglia, non ambizioso, non ricco, aveva chiesto al re che altri andasse in sua vece, ma dopo lungo pregare quei rispose: «Canzano, sono tali le cose che o voi o un carbonaro. Non mi obbligate ad ingrate scelte, accettate; io vi darò lettere di mio pugno per la corte di Spagna, ed imbasciata che dimostra quanta fiducia pongo in voi. Dite al re mio nipote che io sto bene, e che la divolgata infermità è ritrovata per allontanarmi dalle presenti cure del regno.» L’ambasciatore si arrese, e contento e grato con numerosa famiglia partì. Cimitile, ritroso anch’esso, non mai ravviluppato nei tanti e tanti sconvolgimenti del regno, amante di riposato vivere, disse al re schiettamente che suddito fedele obbedirebbe al suo signore; ma che di anni pieno non si esporrebbe voglioso alle dubbietà di contrastata politica, e padre e sostegno di non poca famiglia, non vorrebbe esser cagione di domestico pianto, e sentir da’ figli ricordata la intempestiva ambizione. Ma il re interrompendo il discorso, aveva incorato il ministro con detti onesti, e con ingenue, a sentirle, protestazioni di fede, tal che Cimitile rassicurato e pago tornò dalla reggia.

XXIII. L’avversione dei potentati stranieri allo stato di Napoli era in segreto moderata loro istessa politica, giacchè fra tante fantasie dei popoli faceva pericolo la prima guerra. La casa che aveva motivo più forte ed esercito più pronto a combattere era l’Austriaca, il cui dominio, già grande in Italia, non piaceva agli altri re che si allargasse. Il Russo per ciò, e per dare qualche sfogo alle bollenti voglie dell’esercito, avviava numerose schiere, con sospetto di tutta Alemagna, dovendo passare per le sue terre. La Prussia, benchè terza, preparava un esercito. Armamenti così, poderosi ingelosivano la Francia e la Inghilterra. D’altra parte i liberali del mondo, facendo plauso alla rivoluzione di Napoli, e giustificandone le massime, minacciavano la sicurezza dei troni; molti d’Italia, parecchi Francesi, alcuni Prussiani, un Russo si offrivano campioni della napoletana libertà; due Inglesi di fama offrivano con sè stessi quattro reggimenti volontarii; case ricche di Londra e Parigi non dubitavano di fare imprestiti alla nostra finanza; generali stranieri, vietati di combattere per noi, consigliavano sulla difesa della frontiera, o per teorica trattavano della resistenza dei popoli agli eserciti ordinati; si affaticavano gl’ingegni di ogni parte a scoprire e comunicare secretamente a noi macchine o [p. 260 modifica]artifizii di guerra. Questa che ad immagine chiamerò Crociata Politica dava inquietudine ai monarchi, e più ancora per la natura della napoletana rivoluzione, che non prodotta da povertà o disperazione, non compagna di diletti, non cagione di danni, lasciando illese le proprietà, la civiltà, le religioni, era solamente un bene scevro di mali, una libertà nuova, bella, facile, innocente. La macchia militare dei centoventisette fuggitivi di Nola era stata dalla fortuna e dal grido pubblico volta in gloria, così che altri eserciti se ne invaghivano, altri governi vacillavano, le costituzioni di Europa in breve tempo muterebbero. E però se grave pericolo era il tollerare quello avvenimento, se grave il reprimerlo, si voleva, senza guerra, salvare l’impero o ’l prestigio delle monarchie, rendere la costituzione di Napoli più conforme alle usate in Europa, evitar lo scandalo e la imitazione. La Francia, alla quale più premeva la continuazione della pace, si mostrò inclinevole ad interporsi per gli accordi. qualora il governo napoletano colle riforme dello statuto sedasse le ragionevoli agitazioni dei potentati stranieri. Ed era opportono l’officio, perciocchè dei re congregati stando pronti gli eserciti, ma, sospese le volontà, rattenuti, non so se dalla supposta immensità dei pericoli o dalla ingiustizia di opprimere popolo quieto ed innocente, in quel librare dell’animo, molto valeva ogni argomento per la pace e per la guerra.

Sc ne aveva anche facile il modo, avvegnacchè di riforme consultava il parlamento. Ma in quel tempo medesimo la setta imperversava, ed il generale Guglielmo Pepe, fidando ai gridi di rassegna ed ai vanti dei settarii, era preso di tanta boria che desiderava la guerra, credea la pace sventura e vergogna. Lo spirito del parlamento era palese: di tre fazioni che lo componevano, una di troppo liberi, forte di numero, fortissima per ajuto delle popolari tribune, ma ignava, ineloquente; altra d’incuriosi dello stato, provvidi dello avvenire, taciturna inchinevole al bene, timidissima, nulla per proprio ingegno, potente negli secrutinii, perchè al computo dei voti più numerosa; la terza dei moderati, dove stavano la eccellenza del dire, l’altezza della mente, e dei pochi che la componevano erano primi per eloquenza Poerio, Borrelli, Galdi, e per dotto scrivere Dragonetti, Nicolai. Nelle contese vinceva il terrore, perciocchè la carboneria dominava in secreto, tanto che alcun deputato non ardiva contrastare le passioni, benchè sfrenate, di lei. E però i discorsi della tribuna nelle materie astratte erano alti, liberi, maravigliosi, nelle subbiette bassi e servili al popolo.

Da tali cose derivò che la mediazion della Francia fu rigettata; che le riforme allo statuto invece di stringerlo alla monarchia lo slontanavano; che altri errori più gravi, dei quali opportunamente parlerò, resero impossibili gli accordi, certa la guerra. Le più [p. 261 modifica]importanti riforme da proporre al re (abbandonata col silenzio la pur tumultuosa quistione di costituente o costituita) furono tre: ii numero dei deputati accresciuto di due quinti, il numero dei consiglieri di stato di due quinti scemato: regola per il parlamento ed obbligo al re di scegliere i consiglieri per provincia. Ma l’una camera, la sanzione (in certi casi forzata) delle proposte leggi, la deputazione permanente, altri articoli nocevoli o spiacenti al monarca, si confermarono.

La finanza impoverita, essendo grandi le spese per esercito ed armamenti addoppiati, minori le rendite poichè tolti alcuni tributi, altri minorati, e la Sicilia impuntuale per rivoluzioni e strettezze: poche le speranze, cadendo il credito per le minacce della guerra esterna; grave il bisogno, perchè maturavano i pagamenti all’ Austria ed al principe Eugenio: vergognosi patti accordati nel congresso di Vienna. E col dechinare della finanza decadevano le opere pubbliche, le instituzioni di pietà; inaridivano tutte le vene del pubblico bene, multiplicavano le popolari scontentezze, crescevano i timori del re, i maneggi della polizia, i preparamenti di guerra e moti d’interne concitazioni. Il re decise di allontanarsi dal regno, e ne scrisse secretamente per ajuto e consiglio ai re congregati a Troppau, dei quali giunsero le risposte al finire di novembre.

XXIV. Le lettere dei tre sovrani non altro dicevano che per terminare le quistioni politiche sullo stato di Napoli invitavano il re a congresso in Laybach. Ma non potendo il re, per le costituzioni del regno, allontanarsi senza permissione del parlamento, e dubitando che chiesta fosse negata, e non chiesta sembrasse fuga il partire, si ridussero a secreto consiglio il re, il vicario ed i tre ambasciatori dei sovrani congregati. L’uno dei tre pensava che bastasse palesare le lettere del congresso, e ’l proponimento di eseguirie, perocchè nomi sì alti ed opinione sì vasta di forza e di volontà ammutirebbero il parlamento ed il popolo: ignorava che nel pericolo lontano i meno prodi sono più temerarii. Perciò il vicario meglio esperto e più timido dando miti consigli, fu deciso che si notificasse al parlamento il foglio di Troppau, con messaggio del re non umile, non altiero.

AI facile proponimento succederono il dubbio e la lentezza. Il re non poneva fede ne’ suoi ministri, non avea partigiani nel parlamento e nel popolo, sospettava le sue guardie, il fantasima della carboneria gli stava sempre sugli occhi: quanto più temeva, più desiderava il partire; e quel desiderio palesato gli apportava nuovi timori. Però irresoluti e frequenti erano i consigli nella reggia, tanto che il pubblico ne insospettì; ma infine prevalendo l’avviso del vicario, fu scritto benevolo messaggio del re, che diceva essere sua volontà rendersi all’invito dei re congregati: farsi per il suo [p. 262 modifica]popolo mediatore di pace; invocar l’assenso di quei monarchi alle nostre libertà; ottenere, qualunque fosse il fato della presente costituzione, altro statuto che assicurasse la nazionale rappresentanza, la libertà individuale, la libertà della stampa, la indipendenza del poter giudiziario, la responsabilità dei ministri. Soggiungeva che in ogni caso i fatti della rivoluzione di luglio sarebbero tenuti innocenti; e chiudeva il foglio col dimandare che lo accompagnassero al congresso quattro deputati del parlamento, consiglieri e testimonii.

Nel mattino del 6 dicembre, il vicario lesse ai suoi ministri le lettere di Troppau ed il messaggio del re per consultare i modi da notificare quegli atti al parlamento e pubblicarli nel popolo. Un de’ ministri propose leggiero mutamento al messaggio; e ’l principe replicò non potersi variare lo scritto, perchè opera non propria nè del re, ma degli ambasciatori stranieri. Fu risoluto di persuadere o allettare il maggior numero dei deputati, e col mezzo de’ proprii carbonari ammansire la carboneria. Quindi due ministri, Ricciardi e de Thomasis, meno increscevoli al parlamento, vi andarono in privato, manifestarono quei fogli a diciotto deputati, quanti per ventura ne adunarono, e scoprendoli non avversi, li pregarono che al dimani confermassero pubblicamente quel voto. Spesero il resto del giorno, ciascun dei ministri, a vincere la opinione di altri deputati; e nella sera computavano quaranta voti affermativi, il resto incerto. Al tempo medesimo provvidero alla difesa della reggia, alla quiete della città, e credendo certa la riuscita, fermarono di ottenerla per arti o per forza. Dei ministri altri usato ai liberi comandi, altri scontento delle licenze di troppa e nuova libertà, altri adontato dal trovarsi nelle parlamentarie discussioni disuguale all’eloquenza di esercitati oratori, tutti bramavano mutar lo statuto sì che piegasse alla monarchia più che al popolo. Ma per la opposta parte, divolgato il messaggio, e scrutinato nelle nottarne adunanze de’ sellarii, vista in pericolo la costituzione spagnuola, opera loro e sostegno, giurarono di prorompere nei più rischiosi sconvolgimenti prima di tollerare che nulla si mutasse a quella legge. Nella stessa notte spedirono alle province messi, fogli, ordinanze; prolungarono le sedute; l’assemblea generale decretò di non separarsi sino a che durava il pericolo; tutte le altre vendite imitarono l’esempio. E i carbonari segreti agenti di polizia, non bastando a moderare la foga universale, amplificavano l’avversione del re al reggimento costituzionale, il genio liberale del vicario, la sua fede, la bontà, l’amicizia per la setta così che il diresti settario, e persuadevano che giovasse la partenza del re, e la pienezza dell’impero nel figlio. Fu questo il primo servigio di quei falsi settarii al monarca assoluto; perciocchè sino allora eransi affaticati per il monarca costituzionale, [p. 263 modifica]o più spesso per propria utilità ed ambizione. Fra tanti confusi moti dei reggitori, de’ carbonari, del popolo, e ’l trepidar degli onesti, e lo sperar dei malvagi, era grandissimo il concitamento della città: errore o colpa dei governanti che in uno stato sconvolto avvisarono trattar di regno colla lentezza e timidità dei consigli.

XXV. Nel seguente mattino stavano i deputati al parlamento, i settarii alle tribune, il popolo affollato nella sala e nei vestiboli, quando i ministri giunsero, lessero i fogli del congresso ed il messaggio del re, li deposero nelle mani del presidente, e, pregando sollecito esame, partirono. In loro presenza il popolo fu taciturno, ma partiti appena, si alzò strepitoso grido: La costituzione di Spagna o la morte. Per quel romore prolungato a riprese, e per dare spazio e quiete alle menti, si differì l’esame al dimani.

Così nelle sale: ma in tumulto maggiore si agitava la città; perocchè visti gli apparati ostili della reggia, le guardie decuplate, le artiglierie del castello volte al popolo, una moltitudine correva al parlamento per invocar soccorso e vendetta, quando l’altra ne usciva accesa di alto sdegno; e però scontrandosi le infuriate torme, infiammavano. Il messaggio del re, affisso ai canti della città, fu lacerato; il popolo in armi, la guerra civile imminente, ma trattenuta dalla vicina decisione del parlamento. Annottò, e temendosi che si affiggessero altri messaggi o editti, spiavano con fiaccole le mura; mentre la plebe a stormi correva le strade, gridando: Costituzione di Spagna o morte. Tutti i dirilti della notte, la quiete, il silenzio, le tenebre, furon turbati. La carboneria, intendendo ad offici maggiori, spedì alle province nuovi messi, altre lettere, per concitare i rivoluzionarii del 6 luglio, e mandò ambasciatori ai deputati del parlamento. significando esser voto di lei serbare intatta la costituzione di Spagna e concedere al re di partire.

Col giorno apparve scena più spaventevole. Si vide popolata la città di provinciali armati, venuti nella notte da paesi vicini, ed altri con mirabile celerità dal più lontano delle province di Avellino e Salerno. Durava eguale il moto, minore il grido, era nel pubblico più affannosa la espettazione e il timore; alcuni deputati, come fosse l’estremo di vita, fecero gli atti di religione, altri il testamento, ma nessuno si arretrò dal pericolo. I deputati passavano per mezzo il popolo dal vestibolo alla sala: a ciascun deputato gli ambasciatori della carboneria ripetevano la intimazione del giorno innanzi, mostravano il pugnale, minacciavano di morte i trasgressori. Cominciò l’esame del messaggio.

Aveva due gravi obbietti: il cambiamento della costituzione, la partenza del re. Primo a parlare fu il deputato Borrelli, che usato alle varianze del foro, parlator d’arte. pose in argomenti e ragioni le dissenate voglie dei settarii. Disse il parlamento costituito per [p. 264 modifica]la costituzione di Spagna; ogni deputato esser tale per essa, aver giurato a lei fede, obbedienza; non poter dunque cambiarla senza offendere il mandato dei popoli, l’autorità delle leggi, la religione dei giuramenti, In quanto alla partenza del re dimostrò l’utilità di aver nel congresso dei monarchi un monarca sostenitore dei diritti suoi e del popolo; chè un re qual egli religiosissimo, nipote per sangue e per virtù ad Enrico IV ed a San Luigi, non potrebbe supporsi mancatore alle promesse, spergiuro a’ sacramenti, così sciagurato da calpestare la dignità della sua corona, così snaturato da esporre l’abbandonata famiglia ai pericoli della guerra, e dell’odio pubblico. Ciò un editto del 1° maggio 1815 col quale il re Borbone, mentre le sorti del re Murat vacillavano, prometteva ai Napoletani libera costituzione; editto veramente ignoto al popolo, ma l’oratore ne portò le parole, lo disse pubblicato in Messina, rivocato e soppresso perchè la celere caduta di Gioacchino non abbisognò di nuove spinte. Altri oratori, dopo il Borrelli, parlarono nei sensi medesimi; e fu deciso rifiutare ogni nuova costituzione, ma permettere al re di partire, purchè di nuovo giurasse quella di Spagna, e promettesse di sostenerla nel congresso.

Si osservò con maraviglia il parlamento scegliere fra i possibili partiti il peggiore. Poteva accettare intiero il messaggio, e per la spontaneo promessa di nuova costituzione accrescere le ragioni del popolo, da difficoltà dei mancamenti; o poteva rigettarlo in intero, e tener presente il re, quasi ostaggio e prigione. Ma se poi riconosceva l’offerto statuto come riforma della costituzione spagnuola, e vietava al re di partire, avrebbe avuto nuove sicurezze, nuove speranze, maggior ritegno alla guerra, speditezza alla pace; e questo era per la natura dei tempi e delle cose il più sapiente consiglio. Come per l’opposto tutti i benefizii si perdevano col decretare nessun’altra costituzione che la spagnuola, e libero il re di partire. Non è già che i deputati volessero il peggio; ma spaventati dalle minacce dei carbonari, ed inesperti alle rivoluzioni, temevano i pericoli più vicini, non vedevano i futuri, giudicavano durabile quel che men dura, il presente.

Non ancor pubblicata la decisione del parlamento, il timido re, da popolari tumulti atterrito, credendo nemici suoi le guardie, i servi, gli stessi presidii delle navi francesi ed inglesi ancorate nel porto, mirando solamente a fuggire, scrisse nuovo messaggio, smentì le sentenze del primo, si giurò sostenitore della costituzione di Spagna, e superando le universali speranze, dichiarò che nel congresso s’ei non bastasse a serbar le ragioni del suo popolo e della sua corona, ritornerebbe in Napoli assai per tempo da difenderle coll’esercito. Raccomandava al vicario, ai ministri, al parlamento, al popolo di apprestarsi alla guerra, nè cedere alle lusinghe [p. 265 modifica]o speranze di pace innanzi che assentissero alla nostra costituzione i sovrani di Europa. Ripetè la dimanda che lo accompagnassero quattro deputati, suoi consiglieri nel congresso, e testimonii a noi della sua fede.

Pubblicato questo nuovo messaggio, divolgata la parlamentaria decisione, caddero i sospetti e i tumulti, L’indirizzo che al re manifestava il voto del parlamento rendeva grazie del proposito di assicurare al popolo le sue libertà, rammentava continuo la santità del giuramento, si scusava dal chiesto accompagnamento dei deputati, non a disprezzo del regio invito, ma perchè la sua sapienza non abbisognava di consiglieri, nè la sua fede di testimonii. Questo scritto fu presentato al re con gran cerimonia da ventiquattro deputati del parlamento; dei quali l’uno, Borrelli, ne rapportò i sensi con maggior forza della scrittura, come è permesso al discorso. Ed il re, che già nei messaggi aveva scritto più volte che giustificherebbe la fidanza posta in lui. rispose: «Io vado al congresso per adempire quanto ho giurato. Lascio con piacere l’amato figlio alla reggenza del regno. Spero in Dio che voglia darmi tutta la forza necessaria alle mie intenzioni.» Dopo ciò, gli stessi deputati gli presentarono, per l’approvazione; le riforme alla costituzione spagnuola, e la scelta dei consiglieri di stato; ed il re promise di rispondere dopo consiglio. Difatti nel seguente giorno nominò i consiglieri; ma, usando la regia facoltà, disapprovò la proposta legge che stabiliva sceglierli per provincia. In quanto alle riforme avvertì che mancava il tempo all’esame di materia sì grave, sembrandogli pericoloso e sconvenevole trattar con fretta, per leggiero giudizio, le leggi che fissar dovevano le sorti eterne del regno.

Affrettava il partire, Scrisse lettere al figlio, non pubbliche, nè da re; ma private, da padre: «Benchè più volte io ti abbia palesato i miei sensi, ora gli scrivo acciò restino più saldi nella tua memoria. Del dolore che provo in allontanarmi dal regno mi consola il pensiero di provvedere in Laybach alla quiete de’ miei popoli ed alle ragioni del trono. Ignoro i proponimenti dei sovrani congregati, so i miei, che rivelo a te perchè tu gli abbi a comandi regii e precetti paterni. Difenderò nel congresso i fatti del passato luglio, vorrò fermamente per il mio regno la costituzione spagnuola; domanderò la pace. Così richiedono la coscienza e l’onore. La mia età, caro figlio, cerca riposo; ed il mio spirito, stanco di vicende, rifugge dall’idea di guerra esterna e di civili discordie. Si abbiano quiete i nostri sudditi; e noi, dopo trent’anni di tempeste comuni, afferriamo un porto. Sebbene io confidi nella giustizia dei sovrani congregati e nella nostra antica amicizia, pur giova il dirti che in qualunque condizione a Dio piacerà di collocarmi, le mie volontà saran quelle che ho manifestato in questo [p. 266 modifica]foglio, salde, immutabili agli sforzi dello altrui potere o lusinga. Scolpisci, o figlio, questi detti nel cuore, e siano la norma della reggenza, la guida delle tue azioni. Io ti benedico e ti abbraccio.»

Il reggente, in argomento della fede paterna, lesse il foglio a parecchi ministri e confidenti; e però, di bocca in bocca divolgati quei sensi, e vieppiù le menti rasserenate, si facevano voti a Dio per la partenza del re, ed il conseguimento de’ suoi desiderii. Così benedetto, imbarcò sopra vascello inglese nel mattino del 14 dicembre, con seco la moglie, il ministro della casa, il cavaliere di compagnia, e pochi servi; il duca del Gallo, nominato ministro al congresso, lo attenderebbe in Firenze. Il vascello (il Vendicatore) era lo stesso che, dopo la battaglia di Vaterloo, accolse prigioniero in Rochefort l’imperator Bonaparte. Quel legno ed una fregata inglese, nella oscurità della notte, scontrandosi a caso o per fallo. si offesero così che la fregata venne in Napoli a ristorare i suoi danni, e ’l vascello andò a Baia. La città fu mesta dei pericoli e dei timori del re; la regal famiglia andò subito a visitarlo, nè furono lente le ambascerie del parlamento, della comunità, dell’esercito. Il re, rimasto a bordo, accolse tutti cortesemente; disse agli ambasciatori del parlamento che l’accidente della notte ed il breve ritardo di alcun giorno sperava che fossero le sole avversità che soffrirebbe la nave dello stato. Fu visto con maraviglia che, stando sicuro e libero sopra vascello inglese, portasse a fregio nell’abito il nastro tricolorato di carboneria, disusato nell’universale, solamente rimasto ai caldissimi settarii.

Andò fra gli altri a condolersi il duca d’Ascoli, vecchio amico del re, compagno a lui nei ruvidi piaceri della caccia e nelle dissolutezze degli amori, nelle regie fortune fortunato, alle sventure fedelissimo, che dopo i rallegramenti del passato pericolo della notte così gli disse: «Spesso è un bene accanto al mele; senza questo accidente non avrei potuto parlare a V. M. quando non è indiscreto il richiedere. Ella parte, noi restiamo smarriti senza comando e senza esempio. Qual sarà il mio contegno? che dovrò fare tra questi turbamenti civili? In carità ed in mercede di antica incorrotta servitù mi palesi la sua volontà, prescriva le mie azioni.» Quegli rispose:

«Duca d’Ascoli, farei scusa ad ogni altro della dimanda, ma non a le che da fanciullezza mi conosci. Dopo il giuramento, le promesse, le patite tempeste, la grave età, il bisogno di vivere riposato, come puoi credere che io voglia guerra co miei popoli, e nuovi travagli, nuove vicende? Io vado al congresso intercessore di pace, pregherò, la otterrò, tornerò grato ai miei sudditi. Voi che qui restate, manterrete la quiete interna, e, se avverso destino [p. 267 modifica]lo vuole, vi apparecchierete alla guerra.» A’ quali benevoli concetti Ascoli pianse, lodò il re, gli baciò la mano e partì. Funeste lodi per lui e funesto pianto, perciocchè il re lo sospettò propenso a libertà, e tornando da Laybach, stando ancora in Roma, decretò l’esilio del suo amico.

Il vascello ristaurato, e secondato da’ venti e da voti, dopo due giorni salpò. Ma l’ira del popolo, fervente ancora per lo tentato rivolgimento del 7 dicembre, incolpava i ministri, minacciava le guardie, perchè gli uni proponitori, le altre sostenitrici del messaggio. Il general Filangeri capo di quelle, fece pubblica dimanda di esser dimesso dall’esercito, giacchè senza fallo e con dolore vedeva i suoi servigi sgraditi o sospetti. Ma il reggente non aderì; il popolo commendò la modestia del generale, che, già grato per la sua fama di guerra e per la onorata memoria del padre, crebbe in grazia della moltitudine. Si disse della guardia ch’era suo debito custodire il re ne’ tumulti, e fu ammirata. Ammontando tutti gli sdegni sopra i ministri, furono aspramente accusati nel parlamento, e minacciati di pene gravissime; ma poco appresso, quattro assoluti, poi tutti. Frattanto per loro inchiesta erano già dimessi, ed il re innanzi di partire aveva nominato in lor vece il duca del Gallo, il duca Carignano, il magistrato Troyse, il general Parisi e ‘l marchese Auletta, tulti di grave età e venerati.

XXVII. Si trattavano in Laybach le sorti di Napoli: erano in Napoli rallentati, per le credute promesse del re, gli apparecchi di guerra; il parlamento al finir di gennajo fu sciolto; la carboneria, diretta e scommossa da secreti agenti del governo, non operava; l’indole del ministero era pacifica e muta, vacuo di cure appariva il regno. Ma non così l’Italia: questa sciaurata che ha libero il pensiero e la lingua, servo il cuore, pigro il braccio, in ogni politico evento scandalo non forza, allor che intese le prime fortunate mosse di Napoli si agitò, ed al crescer della rivoluzione, ed alla vantata felicità dei successi, il Piemonte preparavasi a soccorrergli; gli stati di Roma ed altri minori alcun’opera compivano se a loro sostegno fossero uscite schiere napoletane o editti. Ma il governo dichiarò che, contento di sè, non mirava gli altri stati, e che il miglioramento delle sue costituzioni dipendendo dal voto unanime del popolo e dall’assentimento spontaneo del re, disdegnava le pratiche usate delle rivoluzioni. Citava in prova i fatti di Pontecorvo e Benevento, due città del pontefice nel seno del regno, che ribellatesi e presa la costituzione di Spagna, chiesero d’incorporarsi al reame di Napoli; rifiutate, pretesero di confederarsi, offerendo danari, armi, e combattenti; rifiutate di nuovo, pregarono di essere protette. Il governo di Napoli rispondeva non poter trattare le cose degli stati romani che solamente col sovrano pontefice. Inutile, o forse [p. 268 modifica]dannosa modestia, sconosciuta da’ principi d’Italia e da’ congregati.

In quel tempo un delitto privato ebbe pretesto ed effetti pubblici. Era in Napoli un Giampietro, in gioventù avvocato, caldo ed onesto partigiano di monarchia, amante de’ Borboni, esiliato perciò dal re Giuseppe, richiamato da Gioacchino, intemerato sotto i re francesi. Al 1815 le sue affezioni trionfarono, ma non però il governo gli diede impiego, e della ingrata dimenticanza egli si dolse. Due anni appresso fu nominato prefetto e poi, come ho narrato, direttore di polizia; le quali cariche per sè malefiche, in tempi difficili e corrotti, gli procacciarono mumerosi nemici. Vero è che molti settarii erano stati per suo comando imprigionati o sbanditi, senza giudizio, senza difesa; pratiche inique, infeste all’innocenza, infeste per fino alla colpa, grate o necessarie a governi assoluti. Per la rivoluzione di luglio tornarono potenti quegli afflitti da lui; tornò egli privato ed oscuro, vivendo tra pochi amici e numerosa famiglia. Una notte, uomini armati, che si dissero della giustizia, andarono in sua casa; ed il capo impose a Giampietro di seguirlo: ma benchè autorevole fosse il comando, la voce balbuttiva, ed il sollecitare udivasi ansante come di misfatto, non riposato come di servizio e di zelo; mentre i compagni, evitando studiosamente la luce, nascondevano il viso alla famiglia ed ai famigliari. La moglie ed una giovane figlia furono prime ai sospetti; poi tutti della casa, e come voleva età, sesso, e misera condizione, proruppero in pianto, ed abbracciavano le ginocchia degli assassini; i quali ai lamenti più imperversavano, perchè faceva pericolo il romore. L’infelice padre, rapito sotto gli occhi di tenera moglie e di nove figliuoli, quasi all’uscio della sua casa è trafitto di 42 punte, collo stesso pugnale: gl’infami si prestavano il ferro per incrudelir sulle spoglie.

Fatto noto il delitto, la città si spaventò, tanto più che falsamente si diceva essersi trovato scritto sopra cartello, chiodato in fronte al cadavere, numero primo. Si citavano ventisei disegnate vittime, e perocchè ciascuno a suo talento ne indicava i nomi, le fiere liste spaventavano innumerevoli cittadini. Crebbe il terrore al sentire preparato il misfatto nelle notturne adunanze di carboneria, ed all’osservare il silenzio e la pazienza dei magistrati, non già per assentimento, ma per paura. Il cavalier Medici, nominato in molti fogli, fuggì sopra nave a Civita-Vecchia, indi a Roma; e l’alto nome, il pericolo, la fuga, i discorsi screditarono la rivoluzione di Napoli, non avvertendo gli uditori quanto egli fosse falso istorico di quei fatti, e cieco giudice. Il conte Zurlo, mal visto e minacciato, cercò asilo sopra fregata francese ancorata nel porto, e l’ottenne benevolo e riverente. Altri minori non offesi nè ricercati, ma timidi o nelle pubbliche rovine ambiziosi e speranti, fuggirono, [p. 269 modifica]come il duca di Sangro tenente-generale, che avendo giurato a quel governo, e tirandone onori e stipendii, fu disertore. E non pago di un sol delitto, trasse compagno un suo giovinetto figlio, tenente nell’esercito; il quale, insino allora innocente, fece contrasto alle voglie paterne, ma infine dall’obbedienza fu vinto.