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242 LIBRO NONO — 1820.

rammentare in questo loco che l’esercito antico era viziato di parecchi pessimi uffiziali venuti col re da Sicilia, accetti per fedeltà, e di altri pessimi conservati per il trattato di Casalanza, e perchè l’aver mal servito a Murat non era demerito per i Borboni. Il general Pepe bramò, ed un decreto prescrisse che fosse scrutinalta la vita militare di ogni uffiziale da una giunta di generali e colonnelli, numerosa indi pubblica. I cattivi della milizia si agitarono, sparsero discordie, congiurarono, si pubblicò in quel tempo la lista dei promossi, tutti di Monteforte; ed allora le scontentezze si unirono, e convertite in tumulto, fu minacciato e insidiato a morte il general Pepe; così che intimidito cedè al numero, si soppressero gli scrutinii, non avevano effetto le promozioni; quando, nel giorno istesso, i promossi e delusi con pubblico foglio rinunziarono i ricevuti avanzamenti, dicendo non meritarne per le opere facili della rivoluzione, e averne ottenuti larghissimi dalla felicità de’ successi: finta e necessaria virtù, dispetto vero e segreto. Così divise stavano le forze di quello stato, allor che giunse nuova della ribellion di Palermo. che da prima si disse della intera Sicilia; del quale avvenimento descriverò le parti degne di esser saputo.

XIII. Ho riferito nei precedenti libri che, nel 1815, cadendo la costituzione di Sicilia dell’anno 12 seco trascinò l’altra di otto secoli antichissima. Invero da quelle libertà poco profitto trassero i Siciliani, che, incalliti alle servitù regie, feudali, ecclesiastiche, rispingevano le dolcezze del viver franco, tenendo l’operoso esercizio della costituzione a peso quasi più che a diritto; e perchè quelle leggi non acquistate nè richieste, ma ricevute in dono, erano al popolo come le nuove virtù che sempre gli appajono vizii nuovi. Ma le istesse politiche istituzioni, pazientemente perdute, poco pregiate quando erano presenti, vennero in amore della moltitudine per nuove leggi del re, aspre, intempestive. Erano le leggi di Napoli. Ma variando le due società per origini di ricchezza, per pratiche di amministrazione, per costumi, per usi, per civiltà, l’accoppiamento era deforme, così che in Sicilia la più parte delle sociali condizioni venne offesa dai nuovi codici. Il governo restò ingannato dall’esempio dei due regni francesi, quando in Napoli per le stesse leggi gli stessi interessi perturbaronsi; e presto la pianta rinvigorì, perchè l’innesto naturato diè frutto di prosperità e di ricchezza: non avvertiva che mancavano alla legittimità la forza e l’aura della conquista, ed ai Siciliani la pazienza che deriva da necessità e dal sentimento di esser vinti. Si aggiungeva che quelle leggi erano il codice Napoleone, codice che poco innanzi per comando dello stesso re fu nelle piazze di Palermo, qual sacrilego libro, dalla mano del boja lacerato e bruciato. Perciò quel popolo, per ingiurie fresche o antiche, per leggi non opportune, intese credute malvage ed in-