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LIBRO NONO — 1820. 241

di danaro e di numero. Ogni magistratura, ogni reggimento della milizia aveva la sua vendita: i capi, chiedenti o richiesti, vi si ascrivevano; ed ivi, perchè nuovi, erano minori degli infimi. Fu carbonaro il tenente-generale duca di Sangro; e se fra tanti e tanti nomi questo solo io registro nella istoria, il lettore ne apprenderà le cagioni nel seguito di questo libro e nel succedente. Vincitrice, numerosa, e non più cauta dei suoi misteri, la setta bramò un trionfo; e compose coi mistici riti suoi sacra e pubblica cerimonia. In giorno di festa moltitudine di carbonari, profusamente spiegando le dovizie dei loro fregi, ad ordinanza di processione, stando nelle prime file preti e frati in petto ai quali miravasi la croce ed il pugnale, protervi al guardo, taciturni, a passi lentamente misurati, si recarono in chiesa; dove un sacerdote, settario o intimidito, benedisse la insegna e i segnati. Non già tra le file, ma presente alla cerimonia fu visto il general Pepe; e tante genti, tante armi, tanto mistero spaventarono la città.

Un duca di famiglia illustre, spacciatore delle proprie sostanze, poi delle altrui, menato per sentenza di giudice alla prigione, traversando la popolosa strada di Toledo, cavò di tasca le insegne della setta, le sventolò in alto col braccio e dimandò soccorso ai cugini. L’ottenne; perciocchè innumerevoli carbonari, sguainando i pugnali, liberarono quel disonesto con aperto scherno delle leggi e della giustizia.

E misfatti peggiori commettevano tutto di uomini di mala fama e audacissimi, che ora in un loco della città, ora in un altro, più spesso nel campo Marzio, adunavano il popolo armato, trattavano di governo per concioni; e le sentenze più infeste alla quiete pubblica erano le meglio accette. Quegli stessi nelle notturne adunanze, per malvagità o sospetto, lanciavano contro i più alti dello stato accuse e minacce; che non antica fama, non presente virtù, non grado. non decoro, era scudo agli onesti cittadini. La carboneria, egli è vero, non aveva macchia di sangue, e non delitti, usati nei civili sconvolgimenti; ma soprammodo spargeva timori e afflizioni.

XII. Benchè lusinga di quiete esterna e brama di restringere le spese dello stato consigliassero a trasandare i fornimenti di guerra, provvidenza di stato esigeva che si rifacesse l’esercito; tanto più che dello antico restava poco per abbondantissime diserzioni, prodotte dalla usitata contumacia dei soldati, e dalla natura delle coscrizioni nei paesi non liberi; di modo che alcuni battaglioni erano scemati di meta, altri sformati. Ma impedivano la ricomposizione dell’esercito così le ambiziose schiere di Monteforte, dal general Pepe, per proprio vanto, decantate meritevoli di doppio avanzamento, come il maggior numero e le ragioni degli altri uffiziali che non tolleravano la preminenza, a dir loro, de’ disertori. E conviene

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