Signorine povere/Terza parte/V

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V.

La famiglia Valmeroni sembrava ormai divisa in due gruppi, i quali si accostavano soltanto nelle ore dei pasti. Il capo di casa, suo figlio Riccardo e Maria Clementi si stringevano intorno alla inconsolabile, felici se riuscivano a distrarla per un istante almeno. Elisa e Angelica stavano sempre nel loro salotto dove ricevevano quotidianamente le solite visite. Qui si rideva, si ciarlava, si stava allegri. Nell’altro gruppo invece si leggeva, si parlava sottovoce; e se la musica era chiamata talvolta a rompere la monotonia, era musica grave, penetrante, delicatissima. Paolo Venturi capitava un paio di volte la settimana ed era sempre il benvenuto. Egli portava con sè un’alta nota intellettuale e la stessa Antonietta non sempre ricusava di ascoltarlo.

La signora Elisa si era mostrata abbastanza tenera ed affettuosa con la sua Antonietta, nelle prime settimane, allorchè il chirurgo disperava quasi di salvarla; dopo la guarigione, vedendola sempre così triste e quasi fuori del mondo, l’aveva presa in uggia. Non la poteva intendere [p. 366 modifica]nè compatire: le dava ai nervi. Angelica a sua volta aveva altri motivi di ripugnanza per la sorella: l’accusava di averla danneggiata nei suoi più cari interessi.

— Vedi — ella diceva alla madre — i Mainetti non si fanno più vivi. Sono venuti a salutarci l’ultimo giorno di villeggiatura per salvare le apparenze; poi nulla. Un’occasione sfumata, una fortuna perduta! Non bastava che fossi senza dote, che mio padre passasse per un mezzo pazzo: un mattoide!... Ci voleva qualche cosa di più piccante, ci voleva la tragedia intima, lo scandalo. Figurati se i Mainetti vogliono imparentarsi con una famiglia povera, disordinata, e nella quale succedono dei fatti così clamorosi. È finita, io non troverò un cane che mi pigli!

Questo feroce pessimismo, cagionato dall’attesa, cessava alquanto la sera, in mezzo ai giovanotti che la corteggiavano.

Tra costoro, in prima fila, brillava adesso Luciano Monti, l’antico spasimante di Eugenia. Pareva che volesse ricominciare lo stesso giuoco con Angelica. Una sera in cui egli le si mostrò molto assiduo, questa gli disse bruscamente:

— Badi a quello che fa: io non sono una sciocca come Eugenia! Non so cosa farmene di un corteggiatore che non intende di sposare, e non voglio ridurmi nemmeno a rompermi il collo come mia sorella. Se il signor dottore non [p. 367 modifica]si degna di avermi per nuora, lei può stare a casa sua e non venire più qui a darmi la jettatura con le sue assiduità.

Sbalordito, mortificato, Luciano Monti restò quindici giorni senza rimettere piede in casa Valmeroni; ma il sedicesimo vi ritornò, serio, quasi accigliato. Angelica non gli rivolse mai la parola.

Uno di quei giorni Maria s’imbattè in Eugenia, che non si era fatta vedere in casa dei suoi.

Ella disse alla cugina:

— Non vi si vede più. Perchè non venite in casa mia? Neppure la mamma, neppure tu, nè l’Angelica?

— Mi pare che aspettassero una tua visita in questi giorni: quanto a me sono tanto occupata, che non faccio più visite.

— Mi aspettavano? Sanno bene che Augusto non vuole, dopo tutti i dispiaceri che abbiamo dovuto sopportare da parte del babbo e di Riccardo! Anche senza questo però io non ci verrei per lo scandalo di Antonietta. Tla disonorato la famiglia, quella imbecille. E mio marito è molto severo per l’onore... Guai, in commercio, essere compromessi!

Maria lasciò cadere il discorso, così si separarono freddamente.

Un altro giorno capitarono invece i Pagliardi.

Più di una volta già avevano mandato i loro [p. 368 modifica]affettuosi saluti alla nipote col mezzo di Paolo Venturi.

Pareva tuttavia che essi non desiderassero di rivederla così presto. Tanto più ella fu tocca da quella visita. Una profonda commozione era anche in loro, e ciò apparve chiaro dal fatto che l’avvocato Amilcare non ebbe sarcasmi, nè l’Ersilia amarezze. Furono buoni, pietosi; fecero anche comprendere all’Antonietta che sarebbero stati molto contenti di riaverla con loro a Pavia.

Antonietta pianse molto quel giorno sotto la pressione dei tanti cari e dolorosi ricordi che l’assalivano. Ma il dottor Monti assicurò che quelle lagrime erano salutari.

Nelle ore centrali della giornata, l’abitazione dei Valmeroni era spesso triste e silenziosa come una tomba. La signora Elisa usciva con la sua Angelica; Maria era alla scuola; Riccardo, al suo ufficio; e non v’erano più ragazzi per ravvivare l’ambiente col loro chiasso. Giorgetto era entrato in un collegio militare; PErminia andava a un giardino d’infanzia. Restavano soli Leonardo e Antonietta.

Un vincolo nuovo stringeva queste due creature sconsolate: una tenerezza infinita inondava le loro anime. Quella giovinetta che sapeva di avere perduto tutto nella sua vita di donna e quell’uomo maturo, precocemente vecchio, buono e ingenuo come un fanciullo, si comprendevano, [p. 369 modifica]si penetravano, e dal puro affetto paterno e figliale, che già li univa, sorgeva un sentimento più grandioso e complesso.

Anche Leonardo aveva smarrita la gioia di vivere e si sentiva isolato in mezzo ai suoi. La sua Elisa, da lui tanto amata, lo trattava come un vecchio parente e affettava verso di lui quell’aria di freddo compatimento che tanto somiglia al disprezzo. Ed egli non aveva più i suoi quadri, la sua bella galleria, per consolarsi del vuoto che la fine dell’amore lasciava nella sua vita d’uomo sentimentale; nè poteva crearsi una occupazione, perchè tutte le cose, che gli veniva in mente di fare, costavano denari e importunavano la famiglia. Se si metteva intorno al suo organo, guai! L’Elisa gli faceva una scena perchè ingombrava l’anticamera, impediva alle donne di far pulizia, rompeva i timpani al prossimo con quel rumore infernale. Se prendeva il fucile, la sua famosa invenzione, peggio che peggio. Lo stesso Riccardo lo pregava di smettere. Non era assurdo di occuparsi di un vecchio fucile già sorpassato da tante invenzioni alla loro volta cadute in oblio? Fin dalle prime apparizioni del fonografo egli si era messo in mente di fabbricarne uno da sè, e vi era riescito, anzi, il suo fonografo, imperfetto da un lato, aveva certe superiorità. Ma che perciò? La Società Edison imperava; e dopo gli ulteriori perfezionamenti aggiunti dal grande [p. 370 modifica]inventore alla sua prima creazione, il fonografo del povero Leonardo non era che un balocco inutile. La sua spinetta, ch’egli sapeva sonare con tanta dolcezza, non l’attirava più dacchè le tele preziose, in mezzo alle quali gli piaceva di sonare, erano sparite dalla sua casa. Quando Augusto Klein era in viaggio, egli faceva lunghe visite al grande negozio di quadri e oggetti artistici per rasserenarsi nella contemplazione di ciò che egli amava tanto ancora. Quelle erano per lui ore di paradiso, durante le quali dimenticava tutti i suoi fastidi. Ma Klein ritornava improvvisamente, ed egli non si faceva più vedere, neppure di passaggio in via Dante. Che fare? La fotografia aveva pure un gran fascino per il suo spirito d’investigatore ozioso, di ricercatore vagabondo. Ma le macchine, gli acidi, le negative e tutto il resto costavano denari. Non ci sarebbe mancato altro che egli avesse speso del denaro per i suoi minuti piaceri, mentre doveva negare a sua moglie un palco alla Scala, o almeno al Manzoni, o un nuovo abito di velluto! Qualche volta saliva dall’Ermondi e se questi non aveva molto lavoro, poteva fare qualche esperimento, tentare qualche sua fantastica applicazione della fotografia. Se non che l’Ermondi lavorava molto, e Leonardo doveva accontentarsi di star a guardare, o passeggiare per la terrazza.

In tali condizioni la camera di Antonietta, [p. 371 modifica]dov’egli era sempre bene accolto, dove la fanciulla lo colmava delle più delicate attenzioni, era diventata per lui a poco a poco un prezioso rifugio. Leggeva, scriveva qualche breve componimento poetico, non privo di merito, nel quale esalava la sua pena; e comunicava quegli squarci alla sua figliuola, sempre pronta a commuoversi, a sorridergli e ad incoraggiarlo. Nella sua camera, Antonietta aveva anche il pianoforte, che Amilcare Pagliardi le aveva spedito da Pavia. Era uno strumento eccellente, un dono che la sua buona zia Ersilia le aveva fatto alcuni anni addietro; ed ella aveva pianto di tenerezza il giorno in cui l’aveva visto entrare in casa sua a Milano. Dunque i suoi zii si rassegnavano alla sua lontananza? Non volevano pensare a lei, ma volevano obbligarla a ricordarsi di loro, dell’ affetto che le portavano?

Leonardo sonava qualche volta con piacere quel piano dalla voce vellutata, tanto superiore al vecchio strumento che ornava il salotto della famiglia.

Faustino Belli veniva di rado a trovare l’amico, sebbene questi gli facesse sempre le stesse accoglienze. Da qualche tempo il cavaliere aveva molto da fare alla capitale. Una eccellenza di fresca data l’aveva preso per suo segretario particolare. Quando Maria seppe della nuova carica del suo pretendente se ne rallegrò [p. 372 modifica]pensando che non si sarebbe più curato di lei. E diceva all’amica:

— A Roma potrà trovare una qualche ricca signora, una qualche straniera ambiziosa e fors’anche innamorata.

Ma Antonietta scrollava il capo.

— Non credere che egli rinunzi a te con tanta facilità. Trecento mila lire rappresentano una dote abbastanza considerevole per uno che in realtà non possiede nulla; e poi, tu gli piaci molto e non troverà così presto un’altra che sia tanto di suo gusto.

Di fatti, non tardò molto che Faustino tornò all’assalto, prima con una lettera, nella quale si vantava di aver taciuto alcun tempo, rispettando il dolore di Maria e di tutta la famiglia in quel penoso periodo.

Pochi giorni dopo egli arrivò in persona.

Era la fine di marzo; la primavera si annunziava dolcissima, luminosa, senza i soliti venti perturbatori. Un bel mazzo di violette era giunto da Pavia per Antonietta, e la loro fragranza imbalsamava la casa. Erano del giardino di Paolo Venturi, ma le mandavano i Pagliardi. Per nulla al mondo il fiero e delicato giovine non avrebbe mandato dei fiori ad Antonietta. Leonardo era andato a Malgrate per sorvegliare alcuni lavori.

La signora Elisa usciva con Angelica, mentre Maria rientrava appena finita la scuola.

— Come hai fatto presto oggi! — esclamò Antonietta vedendola. [p. 373 modifica]

— Ho corso. Ti sapevo sola.

Si abbracciarono.

Maria prese un lavoro d’ago e sedette vicino all’amica.

Fu picchiato all’uscio: era la Caterina che annunziava la visita del cavalier Belli.

— Dov’è?

— In salotto.

— Cosa si fa?

— Va a riceverlo.

— E tu?... non vuoi venire con me?

Vi era una preghiera in questa domanda.

— No, Maria. Io non posso, tu sai. Ogni volta che rivedo una persona per la prima volta, mi par di morire. Quello lì poi!... Va tu sola. E meglio. Non puoi sottrarti al colloquio che egli chiede da tanto tempo.

Maria si alzò risoluta.

— Hai ragione. Non è dignitoso sfuggire sempre la battaglia. Bisogna affrontare coraggiosamente il nemico.

Faustino Belli l’aspettava in piedi, col cappello in mano. Vedendola entrare s’inchinò profondamente. Ella tremava un poco.

— S’accomodi, cavaliere. — E gli indicò una poltroncina di fianco al Francklin, che la donna accendeva tutti i giorni verso l’ora delle visite, anche se la signora non aspettava nessuno.

Faustino Belli rimase in piedi fino a che la [p. 374 modifica]fanciulla non s’assise nella poltroncina di fronte a lui.

Quando furono seduti egli disse:

— Finalmente, dopo tanto tempo che l’imploro, ho la fortuna di potermi intrattenere un momento con lei da solo a sola. Prima di tutto, dunque, permetta che la ringrazi del favore che mi concede.

— Ella è troppo gentile. Io peraltro credevo che non avesse nulla di pressante a dirmi; o meglio, che tutto fosse stato detto. La sua insistenza mi sembrava per ciò tanto più strana...

— Ella credeva che tutto fosse stato detto?... Ma se non mi è mai riuscito di trovarla sola un momento, dopo quel giorno, ormai tanto lontano, che ebbi la fortuna di accompagnarla a casa! Quel giorno, ella fu buona con me; quel giorno ella fece nascere in me la più dolce speranza...

— Se non ha altro a dirmi, è chiaro che avevo ragione io: tutto è già stato detto fra noi. Posso soltanto ripeterle che io non rammento di averle fatta alcuna promessa, nò quel giorno nè mai. Il suo argomento non ha quindi alcuna consistenza.

Faustino non trovò subito la forza di replicare. Pareva costernato; e i grandi occhi inquieti e pieni di rancore non cessavano di contemplare il viso bianco di Maria, deliziosamente contornato dalla massa dei capelli bruni a riflessi dorati. [p. 375 modifica]Quello sguardo voleva essere un terribile rimprovero.

Impazientita, la fanciulla si alzò. Già che il cavaliere non aveva altro a dirle, gli chiedeva il permesso di ritirarsi. Egli la trattenne con un gesto.

— O Maria, quanto siete crudele! E’ mai possibile che una creatura tanto elevata voglia tormentare così un cuore che l’adora? No, signorina, no, voi non mi avete promesso nulla, nè quel giorno nè mai. Nessuna parola capace di vincolarvi fu da voi pronunciata. Ma — lasciatemelo dire poichè è la verità — i vostri occhi, l’emozione adorabile che era in voi, e si rivelava nel vostro accento, nella voce, negli atteggiamenti, nell’imbarazzo, tutto mi diceva — forse a vostra insaputa — che io potevo sperare.

— Può darsi, signore, che ella abbia male interpretato i segni fuggevoli a cui allude. Comunque fosse, del resto, io sono libera... Ella deve riconoscere che non mi sono impegnata neppure con una parola: dunque basta.

— No, Maria, non basta: non può bastare. Io sento nel vostro contegno con me la malefica influenza di un nemico che ho diritto di combattere.

Maria a tale insinuazione alzò le spalle con disprezzo.

— Io non subisco influenze. Ammettiamo pure che io nutrissi per lei, oltre la stima e [p. 376 modifica]l’ammirazione che nessuno nega ad un uomo del suo merito, anche una simpatia, una di quelle simpatie che noi fanciulle proviamo facilmente per certi uomini distinti, colti, dalle maniere affascinanti: le pare che un sentimento così semplice, così superficiale potesse bastare per un vincolo serio che deve durare tutta la vita?

— Scusi. Ella mi cambia il giuoco. Parliamoci franchi; io non sono un ragazzo. Il sentimento che ella provava per me la primavera scorsa fino a mezza l’estate, non era nè così superficiale nè così semplice. Me ne intendo io di queste cose...

— Oh! lo credo bene!... Un uomo galante come lei deve aver fatto molte esperienze. Pure, io che non ho esperienza, posso dirle che c’è sempre del nuovo nella vita.

Faustino Belli si morse le labbra. Senza lasciargli il tempo di replicare, Maria continuò:

— Nel tempo ch’ella rammenta con tanta compiacenza, io la consideravo prima di tutto un amico di casa che avendomi vista piccina mi aveva trattata sempre con una certa confidenza; poi, un uomo galante abituato a corteggiare le signore, simpatico, oltre a ciò, e piacevolissimo, col quale lo scherzo mi era permesso, e fors’anche un leggero flirt. Non mi sarei però mai creduta ch’ella volesse chiedere la mano di una povera, oscura maestrina.

— E come mai, quando l’ho fatto non ha [p. 377 modifica]preso che io sono anche un uomo di cuore, un galantuomo e che l’amo profondamente?

— A me parve invece che ella commettesse una follìa e che il mio dovere fosse di avvertimela. D’altra parte, appena ella ebbe l’aria di fare sul serio, sentii che dovevo risponderle con la massima serietà. E così feci. Ora, cavaliere, permetta che mi ritiri. Abbiamo chiacchierato abbastanza e Antonietta è sola di là...

Ella si era alzata. E la sua figura alta e flessuosa appariva imponente, severa. Faustino Belli le prese le mani e la obbligò a sedere ancora.

— No, no, Maria, voi non potete lasciarmi così: non sono una zavorra inutile nella vostra vita, da gettarmi a mare senza complimenti. Vostro padre, dal suo letto di morte, mi ha destinato ad essere il vostro sposo.

A queste parole, che il cavaliere aveva pronunciato con molta solennità e prestanza drammatica, Maria sussultò e impallidì. Un lampo di collera folgorò il cavaliere.

— Mio padre, ella dice? Mio padre? E che diritto aveva egli di disporre della mia mano?

— Era sempre vostro padre!...

— Egli aveva rinunciato ad ogni diritto su me abbandonandomi con la mia povera mamma. Ma anche senza questo, il mio cuore e la mia persona non dipendono che da me ed io sola posso disporne. [p. 378 modifica]

Allora il cavaliere prese un’altra strada. Con eloquenza, con tenerezza, egli narrò a quella fanciulla ribelle la morte e gli strazi del padre suo. Fece una pittura vivace del giovine appassionato che per ragioni di famiglia aveva sposato a vent’anni una donna maggiore di lui. Lo scusò quindi dell’infedeltà verso la moglie e di avere abbandonata poi la sua amante e la sua bambina, trovandosi nell’ingranaggio di due famiglie e non avendo allora mezzi sufficienti per provvedere ad entrambe.

Descrisse poi con parole commoventi la morte e i rimorsi di quell’uomo, di quel padre che portava sempre nel cuore il ricordo della donna amata e della figlia che un destino nemico gli impediva di tenere presso di sè.

— Se sapeste, Maria, come vi amava, come baciava il vostro ritratto?

— Il mio ritratto!

— Sì, glielo portai io. Se aveste sentito come mi ringraziava. Oh, Cantelli era tutt’altro che un cattivo uomo. Egli aveva cuore e se ha commesso qualche errore nella sua vita, chi non ne commette? Egli almeno ha riparato ai suoi torti meglio che ha potuto.

— Verso mia madre? Verso di me? In qual modo?

— Verso vostra madre no, non gli fu possibile; verso di voi, sì.

— Disponendo di me a suo piacere. [p. 379 modifica]

— Non parlate così, Maria, mi fate pena. Sentite. Egli non poteva testare in vostro favore: la legge non glielo permetteva. In tale frangente egli ha cercato un altro mezzo per assicurare la vostra indipendenza e la vostra felicità. Io gli avevo detto che vi amavo e che il mio voto supremo era di farvi mia. Ed egli non dubitò un istante che voi non nutriste per me uguale affetto. Pover’uomo, mi voleva tanto bene: mi guardava con occhi tanto indulgenti!

— E lei non l’ha disingannato?

— Come potevo, se io pure mi credevo amato da voi?... Allora, Maria, considerandoci come fidanzati, egli fece testamento lasciando a me trecentomila lire a condizione che io diventi vostro marito, s’intende...

— Trecentomila lire? Dunque, era molto ricco?

— Sì. Negli ultimi dieci anni la fortuna gli aveva sorriso. Ha lasciato quasi due milioni.

— Va bene. Ella sarà ricco.

— Sarò ricco io? Forse il posto che ora occupo mi aprirà la via all’agiatezza, che non ho ancora raggiunta in realtà, dopo tante lotte. Ma non sarò ricco come voi intendete per questa eredità che è vostra e andrà miseramente perduta se vi ostinate a rifiutare la mia mano.

Vi era un substrato d’amarezza nelle parole del cavaliere: amarezza che Maria notò e interpretò nel peggior modo. [p. 380 modifica]

— Me ne duole per lei. Quanto a me, poco importa. Non sono certo queste trecentomila lire che mi faranno mutar consiglio.

— Mi odiate dunque a tal punto?

Maria lo guardò corrucciata.

— No, cavaliere, non c’è odio in me. Non l’amo e basta.

— Non basta! — esclamò Faustino esasperato — È assurdo anzi. Non si rinunzia così all’agiatezza, all’indipendenza. Se non vi sono odioso, vuol dire che amate un altro. Dite la verità almeno!

Con un lampo di sdegno che la rese più bella, la fanciulla ribadì:

— Questo non la riguarda. Le deve bastare di sapere che non amo lei. Del resto, ora che so la possente ragione che indusse il cavalier Belli, l’elegante gentiluomo a chiedere in moglie l’umile maestrina, non l’amerei più, se pure l’avessi amato.

— ... Il denaro!... Voi credete, Maria, voi credete che io vi abbia chiesta per il denaro? Oh! il pregiudizio... il pregiudizio!... Mi stimate capace di sposare una donna che non mi fosse cara per una somma, così?... Ne incontrai più di dieci nella mia vita che mi avrebbero reso quasi milionario, se avessi voluto. Neppure per trecento milioni sposerei una donna che non mi piacesse. Ma neppure sposerei una donna amata per farla vivere in penose ristrettezze. Oh! Maria, [p. 381 modifica]io sono sincero; non guardatemi con quell’aria di disprezzo. Non lo merito. Non per grettezza, nè per viltà, nè per mancanza d’ amore, avrei rinunciato a voi, se vostro padre non mi lasciava queste trecentomila lire, bensì perchè vi amo con adorazione, perchè siete il mio ideale, l’eletta del mio cuore.

Egli parlava con slancio, con passione e il suo accento aveva l’impronta della verità.

Maria scrollava il capo.

— Mi lasci andare. E inutile. Ciò ch’ella dice è troppo strano. Mi lasci andare.

— Non ancora. Non ancora...

E le stringeva le mani, e ostinandosi a darle del voi, affettando una dolce famigliarità, mentre la glaciale riserva della fanciulla gli si imponeva suo malgrado, riprese a dire con orgasmo e malcelata ironia:

— Mi trovate strano? Difatti non ho mai creduto di esser un uomo comune. Sono peraltro un gentiluomo e da gentiluomo mi sono comportato verso di voi. Vi feci la corte, ma senza compromettervi, e allorchè mi parve — fu una illusione pur troppo! — che mi poteste amare mi sono allontanato. E se vostro padre non cedeva ai miei consigli, non sarei più ritornato, per non mostrarvi il mio inutile dolore. E così farò adesso, se voi persistete nel vostro rifiuto...

— Persisterò certamente, signore.

— No, Maria, no!... Per carità non vi [p. 382 modifica]ostinate. Io vi amo, come nessun giovane della vostra età vi saprà amare. Ah! voi scrollate il capo, pensando che non vi amo perchè, povera, non avrei cercato di farvi mia. Ma questa è la prova massima, dal momento che io non ho nulla!... Purtroppo, mia cara, i miei risparmi non arrivano a un centinaio di mila franchi: una miseria. Uniti ai trecentomila di vostro padre formeranno un discreto patrimonio, che io saprò ingrandire. Fra quattro o cinque anni saremo ricchi, ve lo prometto. Avremo fin d’ora un nido che sarà un incanto. Abiteremo a Roma, la più bella città del mondo; voi entrerete con me nella più alta società e brillerete, bellissima fra le più belle. Io vi adorerò sempre, come una dea, non penserò che alla vostra felicità... Credete che un uomo il quale vi sposasse per condannarvi a cuocergli il pranzo e a rammendargli i calzoni potrebbe darvi una felicità simile? Se lo credete, disingannatevi. Per quanto buono e generoso, egli arriverà fatalmente a trattarvi come una schiava, a considerarvi inferiore a lui. È fatale. Per potervi amare altamente, per darvi la felicità di cui siete degna, vi ho voluta ricca. E posso dire „vi ho voluta“, perchè senza il mio intervento, senza la mia insistenza, senza la mia sicurezza che vi avrei sposata, vostro padre, che ha sempre avuto una grande amicizia per me e non poteva sopportare i Valmeroni, non vi avrebbe lasciato un soldo. Tanto è [p. 383 modifica]vero ciò, che se non mi sposate dentro l’anno dalla sua morte, non avrete nulla, come non avrò nulla io. È possibile che questo pensiero non vi scuota, non vi convinca?

Dopo un istante di silenzio, Maria replicò con voce ferma:

— No, signore: non mi commuove e non mi convince.

E, inchinatasi leggermente, si scostò da lui, andando verso l’uscita. Ma Faustino Belli aveva osservato che ella tremava e che il pallore delle sue guance era notevolmente aumentato.

— Maria, Maria, voi fate la mia infelicità e la vostra pure! È un delitto questo, uno di quei delitti che i giovani commettono per esaltazione e poi rimpiangono per tutta la vita.

— Io non rimpiangerò nulla, ne sono certa. L’ideale mio è diverso: le sue sapienti combinazioni mi lasciano fredda.

— Non è vero! Tu sei commossa, tu tremi, angelo mio!... Ascolta il tuo cuore, che batte per me... Abbi pietà di noi, non condannarci alla disperazione... Ascolta l’amor mio.

Egli le si era accostato, allungando le braccia per cingerla alla vita, per serrarla contro il suo petto.

Ella indietreggiò, con un gesto d’orrore.

— Se mi tocca, grido! E guai a lei... guai a lei!

Bianco come lo sparato della sua camicia, Faustino Belli lasciò cadere le braccia. [p. 384 modifica]

— Signorina, si calmi; non ho mai violentata una donna; non sono un mascalzone. Volevo implorare la sua pietà, non già imporle vigliaccamente il mio contatto. Si calmi; ora me ne andrò. Le chiedo un’ultima grazia: rimetta la sua risoluzione fino al giugno. Se ella avrà deciso in mio favore, ci resterà un mese di tempo per maritarci.

Ella fece un lieve cenno, che significava: „Acconsento per finirla“, e uscì dalla sala.

Ritornando presso Antonietta, che l’attendeva con una certa inquietudine, Maria si abbandonò tra le braccia dell’amica e pianse dirottamente. Era sconvolta, convulsa; tutte le sue membra tremavano. Accenti rotti, accompagnati da lunghi gemiti, uscivano dalle sue labbra illividite.

Non osando rivolgerle alcuna interrogazione, Antonietta cercava di calmarla con le carezze, con i baci, con le parole sommesse e tenere, che vanno al cuore di chi soffre. Quello spasimo cessò finalmente e Maria potè parlare, sfogare la sua pena. Furono da principio parole confuse, piene di disgusto: imprecazioni amare contro il destino, contro se stessa. Il pensiero doloroso si delineò a poco a poco. Emergeva in esso il rammarico di aver amato un indegno, un egoista, un commediante deliavita: di avere sprecato per lui la parte più bella dell’amore giovanile, i cari sogni, l’illusione divina, di non poter dare ad un altro uomo... a Riccardo, così [p. 385 modifica]degno di esser felice, che un cuore deluso, lacerato, un cuore divenuto debole e diffidente.

— Lo ami forse ancora quel commediante? — domandò Antonietta angosciata.

— No, no. Lo disprezzo. Tu sai che ero risoluta a persistere nel rifiuto; ma non mi aspettavo di esser così profondamente convinta della sua bassezza... Ora credo anche all’imbroglio delle diecimila lire per il quadro del Ferramola, e devo dire a me stessa: ho amato un ladro, un farabutto: è stato il mio primo amore... È orribile... la vita non ha più incanti, non ha più illusioni per me... Vorrei finirla subito... sparire.

Antonietta la interruppe.

— Tu dici questo? Tu parli di toglierti la vita? E a me ne parli?... Io che non dovrei più vedere il sole, io vivo; e tu stessa hai detto che devo vivere. E tu vorresti morire?... Il dolore che tu provi è grande, è giustificato; ma è un dolore che passerà, perchè è tutto soggettivo, nasce e muore in te sola. Tu non hai fatto il male di nessuno; nessuno è morto per colpa tua. I soli dolori irreparabili, indimenticabili sono quelli che pesano sulla nostra coscienza. Rialza dunque il tuo coraggio, tu sarai felice ancora, tu che sei innocente e pura. La tua illusione è stata nobile e generosa; l’uomo che diverrà il compagno della tua vita non potrà mai rimproverartela... [p. 386 modifica]

Maria ascoltava in silenzio le affettuose parole; non piangeva più, ma profondi sospiri le gonfiavano il petto.

— Ti ho rattristata, Antonietta: ho rievocate le crudeli immagini che ti torturano... perdonami... Di fronte alla tua sventura il mio dolore sparisce, è vero. Ma tu sai che le nostre sofferenze non dipendono tanto dalla grandezza del male in sè, quanto dalla impressione nostra, dallo stato del nostro animo.

— Lo so, cara, c comprendo il tuo stato; ma non voglio che tu ti abbandoni alla disperazione; voglio che tu sii forte come sei virtuosa. Ora, senti: il destino ti offre una terribile distrazione: la nostra famiglia è colpita da una nuova sventura.

Maria ebbe un sobbalzo.

— Che dici?

— Mentre tu eri di là, ho ricevuto una lettera da mio zio Amilcare, con due notizie che faranno versare molte lagrime in questa casa: Augusto Klein è fallito e il giorno stesso del fallimento Eugenia è scappata con uno scultore ungherese.

— Scappata Eugenia, che pareva tanto contenta, tanto orgogliosa?... Fallito Augusto Klein?... Tuo padre, dunque, è rovinato!... Ah!... la miseria... Ed io perdo le trecentomila lire che mio padre mi aveva destinate!... Sentivo bene io che avevo ragione di disperarmi. Non la [p. 387 modifica]devo chiaramente, ma intuivo tutta la grandezza della mia disgrazia!... Un traditore, un ladro! Ah! come vorrei strappargli il cuore a quel miserabile, al genio malefico, che consigliò, o impose forse al povero moribondo il malaugurato testamento. Ora comprendo tutta la sua malizia. Ha voluto arricchirsi ed essere il padrone, per defraudarmi di tutto. Quando anche m’inducessi a sposarlo, non potrei disporre di nulla, non potrei aiutare nessuno; e chi sa, passato il capriccio, che vita di miseria mi farebbe fare. La sua perversità è un abisso tenebroso, nel quale bisogna discendere per discoprirne l’orrenda profondità. Tu dici che solo il rimorso non si dimentica mai: in questo momento io credo all’eternità dell’odio. Vorrei essere perversa come lui per poterlo punire come merita.

Ella camminava per la stanza, parlando forte, con voce alterata, in preda ad una collera di cui nessuno l’avrebbe creduta capace. Disse allora Antonietta:

— La punizione più terribile è quella che tu gli imponi col tuo rifiuto di sposarlo. Dopo tutto quello che ha fatto — e deve essere un pezzo che lavora — non avrà un centesimo.

— Ma neppure io avrò nulla. Sarò punita come lui, io senza colpa!...

— Avrai forse le cinquantamila lire.

— Ci credi?... Io non le aspetto. In ogni modo, [p. 388 modifica]cinquantamila lire, in confronto di trecentomila, sono poche. Non ci avevo mai pensato. Oggi è per me il giorno terribile che mi rivela tutte le realtà fatali della vita; solo da questo momento comprendo il vero valore del denaro. È sciocco chi lo disprezza, come è vile chi lo pone in cima a tutto. Se io avessi le mie trecentomila lire, potrei salvare tuo padre dalla rovina, tutta la famiglia dalla povertà, e fare la felicità di Riccardo ed essere felice con lui...

— Riccardo non chiede che il tuo amore...

— Lo so, ma ci si ama meglio nell’agiatezza. Quel demone tentatore m’ha posto sotto gli occhi il quadro di due amanti ricchi e quello di due poveri sposi. E, va là, il primo è molto più seducente.

— Ebbene, cosa vuoi fare?

— Che posso fare? Consumarmi nell’impotenza. Odiare con tutte le mie forze l’uomo che mi ha derubata e un sistema di cose che favorisce la violenza, l’impostura, l’ingiustizia.

Stanca, spossata, ella si lasciò cadere su una sedia e tacque, guardando il suolo con gli occhi stralunati.