L'isola misteriosa/Parte seconda/Capitolo XVIII

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Jules Verne - L'isola misteriosa (1874-1875)
Traduzione dal francese di Anonimo (1890)
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CAPITOLO XVIII.


Conversazione – Cyrus Smith e Gedeone Spilett – Un’idea dell’ingegnere — Il telegrafo elettrico – I fili — La pila — L’alfabeto — Bella stagione — Prosperità della colonia — Fotografia — Un effetto di neve — Due anni nell’isola Lincoln.

— Pover’uomo! disse Harbert, il quale, slanciandosi verso l’uscio, tornò dopo aver visto Ayrton scivolare per la corda dell’ascensore e sparire in mezzo all’oscurità.

— Tornerà, disse Cyrus Smith.

— Vediamo, signor Cyrus Smith! esclamò Pencroff. Che vuol dir ciò? Se non è Ayrton che ha gettato la bottiglia in mare, chi è?

Certo se vi era osservazione che doveva esser fatta, era questa.

— È lui, rispose Nab solamente, il disgraziato sarà stato mezzo pazzo.

— Sì, disse Harbert, e non avrà avuto coscienza di quanto faceva.

— La cosa non può spiegarsi altrimenti, amici miei, rispose vivamente Cyrus Smith, e comprendo ora come Ayrton abbia potuto indicare esattamente la situazione dell’isola Tabor, postochè gli avvenimenti che avevano preceduto il suo abbandono nell’isola gliela facevano conoscere.

— Pure, fece osservare Pencroff, se non era un bruto al momento in cui scrisse il suo documento, e se sono ormai sette anni che lo ha gettato in mare, come mai la carta non fu alterata dall’umidità!

— Ciò prova che Ayrton non è stato privato di intelligenza se non in un tempo molto più recente di quello che egli crede. [p. 91 modifica]

— Bisogna pure che sia così, rispose Pencroff, senza di che la cosa sarebbe inesplicabile.

— Sicuramente, rispose l’ingegnere, il quale sembrò non voler prolungare quella conversazione.

— Ma Ayrton ha egli detto il vero? osservò il marinajo.

— Sì, rispose il reporter, la storia che ha raccontato è vera in tutto e per tutto. Io mi ricordo benissimo che i giornali hanno riferito il tentativo fatto da lord Glenarvan, ed il risultato che aveva ottenuto.

— Ayrton ha detto il vero, non ne dubitate, Pencroff, aggiunse Cyrus Smith, perchè fu una verità ben crudele per lui. Quando uno si accusa a questo modo, non mentisce.

Il domani, 21 dicembre, i coloni erano saliti sull’altipiano, e non vi trovarono più Ayrton, il quale se ne era andato alla sua casa del ricinto; si giudicò necessario di non importunarlo. Senza dubbio, il tempo doveva fare ciò che essi non avevano potuto.

Harbert, Pencroff e Nab ripresero allora le occupazioni consuete. Appunto in quel giorno i medesimi lavori riunirono Cyrus Smith ed il reporter nell’officina dei Camini.

— Sapete, caro Cyrus, disse Gedeone Spilett, che la spiegazione che avete data jeri non mi soddisfa niente affatto? Come ammettere che quel disgraziato abbia potuto scrivere il documento e gettare la bottiglia in mare, senza serbarne alcuna memoria?

— Non è lui che l’ha gettata, caro Spilett.

— Dunque credete ancora....

— Non credo nulla, non so nulla, aggiunse Cyrus Smith interrompendo il reporter'; mi accontento di mettere questo incidente fra quelli che non ho potuto spiegare fino ad oggi.

— Caro Cyrus, le son cose incredibili, il vostro salvamento, la cassa sulla sabbia, le avventure di [p. 92 modifica]Top, quella bottiglia infine; non troveremo noi dunque lo scioglimento di questo enigma?

— Sì, rispose l’ingegnere, dovessi frugare la terra fin nelle sue viscere.

— Il caso ci darà forse la spiegazione del mistero.

— Il caso! Non credo al caso, come non credo ai misteri; vi è una causa di quanto succede qui di inesplicabile; ma frattanto osserviamo e lavoriamo.

Giunse il mese di gennajo, cominciava il 1867. I lavori d’estate furono spinti alacremente. Nei giorni che seguirono, Harbert e Gedeone Spilett, essendo andati verso il ricinto, poterono accertarsi come Ayrton avesse preso possesso della casa che gli era stata preparata. S’occupava egli del gregge che gli era stato affidato e doveva risparmiare ai coloni la visita ogni due o tre giorni al ricinto. Pure, per non lasciarlo troppo lungamente solo, i coloni gli facevano frequenti visite. Non era neppure indifferente — dati certi sospetti dell’ingegnere e di Gedeone Spilett, — che quella parte dell’isola fosse sotto una certa sorveglianza, e Ayrton, se qualche avvenimento sopravveniva, non tralascerebbe di avvertire gli abitanti del Palazzo di Granito.

Pure poteva accadere che l’accidente fosse improvviso e che richiedesse d’essere subito fatto noto all’ingegnere; e oltre codesti fatti che si riferivano al mistero dell’isola Lincoln, potevano avvenirne altri che richiedessero un pronto intervento dei coloni, come a dire l’apparizione di una nave che passasse al largo e in vista della costa occidentale, un naufrago sulla costa dell’ovest, il possibile arrivo di Pirati, ecc. Laonde Cyrus Smith risolvette di porre il ricinto in comunicazione col Palazzo di Granito.

Fu il 10 gennajo che fece noto il proprio disegno ai compagni.

— Vediamo, come volete fare? domandò Pencroff; pensereste forse ad un telegrafo? [p. 93 modifica]

— Per l’appunto, rispose l’ingegnere.

— Elettrico? domandò Harbert.

— Elettrico. Abbiamo tutti gli elementi necessarî per una pila; il più difficile sarà fare i fili di ferro, ma per mezzo di una filiera credo che riusciremo.

— Ebbene, dopo questo, ripigliò il marinajo, non dispero più di viaggiare un giorno in ferrovia per l’isola.

Si posero all’opera, cominciando dal più difficile, vale a dire dalla preparazione dei fili, perchè se non si fosse riuscito in questo, diveniva inutile fabbricare la pila e gli altri accessorî.

Il ferro dell’isola Lincoln era, si sa, di qualità eccellente, e perciò adattatissimo a lasciarsi stirare. Cyrus Smith cominciò dal fabbricare una filiera, vale a dire una lastra d’acciajo, che fu fatta con buchi conici di diverso calibro, i quali dovevano successivamente ridurre il filo al grado di tenacità richiesto. Questo pezzo d’acciajo, dopo essere stato temprato, fu posto saldamente sopra un telajo cacciato ben addentro nel suolo, a pochi piedi dalla gran cascata, della cui forza motrice doveva l’ingegnere servirsi un’altra volta.

Infatti colà era il mulino di follatura, che non era in esercizio, ma il cui albero, mosso poderosissimamente, poteva servire a stirare i fili avvolgendoli intorno a sè. L’operazione fu delicata e richiese molta cura. Il ferro, prima preparato in striscie lunghe e sottili, le cui estremità erano state assottigliate alla punta, fu introdotto nel gran calibro della filiera, fu stirato all’albero del mulino, rotolato per una lunghezza di venticinque o trenta piedi, poi svolto e presentato successivamente ai calibri di diametro minore; finalmente l’ingegnere ottenne dei fili lunghi quaranta o cinquanta piedi, che era facile riunire e tendere per quella distanza di cinque miglia che separava il ricinto dal Palazzo di Granito. [p. 94 modifica]

Bastarono pochi giorni per finire questa bisogna; ed anzi, appena la macchina fu messa in esercizio, Cyrus Smith lasciò che i compagni lavorassero alla trafila e si occupò a fabbricare le pile.

Si trattava di ottenere una pila a corrente continua. Si sa che gli elementi della pila moderna si compongono in generale di carbone di storta, di zinco e di rame. Il rame mancava assolutamente all’ingegnere, il quale, malgrado le sue ricerche, non ne aveva trovato traccia nell’isola. Il carbone di storta, vale a dire quella grafite dura che si trova nelle storte delle officine di gas, dopo che al carbone fossile fu tolto l’idrogeno, si avrebbe potuto produrlo, ma sarebbe bisognato fare degli apparecchi speciali, il che avrebbe costato tanta fatica. Quanto allo zinco, basta ricordare che la cassa trovata alla punta del Rottame era foderata di tale metallo che non poteva essere adoperato meglio.

Cyrus Smith risolvette dunque di fare una pila semplicissima, che si accostasse a quella che Becquerel faceva nel 1820, e nella quale è adoperato lo zinco. Quanto alle altre sostanze — acido azotico e potassa — erano a disposizione dei coloni.

Ecco come fu composta questa pila, i cui effetti dovevano prodursi dalla reazione dell’acido e della potassa l’uno sull’altro.

Fu fabbricato un certo numero di bicchieri di vetro che vennero riempiti d’acido azotico.

L’ingegnere li turò poi con un tappo, traversato da un tubo chiuso all’estremità e destinato ad immergersi per mezzo di un turacciolo di creta trattenuta da un panno; in questo tubo verso una soluzione di potassa, che aveva prima ottenuto bruciando delle piante; in tal modo l’acido e la potassa poterono reagire l’una sull’altra a traverso l’argilla.

Cyrus Smith prese poi due lame di zinco, una delle quali fu immersa nell’acido, l’altra nella potassa; su[p. 95 modifica]bito questa produsse una corrente che andò dalla lastra della boccetta a quella del tubo essendo le due lastre state congiunte da un filo metallico, la lastra del tubo divenne il polo positivo e la lastra della boccetta il polo negativo. Ogni boccetta produsse altrettante correnti che, riunite, dovevano promuovere tutti i fenomeni della telegrafia elettrica.

Tale fu l’ingegnoso e semplicissimo apparecchio costrutto da Cyrus Smith, apparecchio che doveva permettergli di porre in comunicazione il ricinto col Palazzo di Granito.

Fu il 6 febbrajo che venne incominciato il piantamento dei pali, muniti d’isolatori di vetro destinati a sopportare il filo che doveva seguire la strada del ricinto. Alcuni giorni dopo i fili erano tesi e pronti a produrre, con una velocità di centomila chilometri al secondo, la corrente elettrica che la terra doveva ricondurre al suo punto di partenza.

Erano state costrutte due pile, una pel ricinto, una pel Palazzo di Granito, perchè, se era utile che il ricinto comunicasse possibilmente col Palazzo di Granito, poteva essere utile che il Palazzo comunicasse col ricinto. Quanto al ricevitore ed al manipolatore furono semplicissimi. Alle due stazioni il filo s’avvolgeva sopra una calamita elettrica, vale a dire sopra un ferro dolce avvolto da un filo; appena la comunicazione era stabilita fra i due poli, la corrente traversava il filo, passava nella calamita elettrica, che si calamitava temporariamente e tornava, passando per il suolo, al polo negativo. Se si interrompeva la corrente, la calamita elettrica subito si scalamitava; bastava dunque porre una lastra di ferro dolce alla calamita elettrica, che, attratta quando vi era la corrente, ricadeva quando la corrente era interrotta.

Ottenuto questo movimento della lastra, Cyrus Smith potè molto facilmente porvi un ago disposto sopra un quadrante che portava le lettere dell’alfabeto, [p. 96 modifica]ed a questo modo corrispondere da una stazione all’altra.

Il tutto fu compiuto il 12 febbrajo. Cyrus Smith domandò se ogni cosa andava bene al ricinto, e ricevette alcuni istanti dopo una risposta soddisfacente di Ayrton. Pencroff non stava in sè dalla gioja, ogni mattina ed ogni sera mandava al ricinto un telegramma, che non rimaneva mai senza risposta.

Codesto modo di comunicazione diede due soddisfacenti risultati; prima perchè permetteva di accertare la presenza di Ayrton, e poi perchè non lo lasciava in un completo isolamento.

Ayrton veniva di tanto in tanto al Palazzo di Granito, dove trovava sempre buona accoglienza.

Passò così la bella stagione; la ricchezza dei coloni, specialmente in fatto di legumi e di cereali, s’accresceva ogni giorno, e le piante portate dall’isola Tabor erano venute su benissimo. L’altipiano di Lunga Vista presentava un aspetto molto rassicurante; il quarto raccolto era stato maraviglioso, e, come si può credere, nessuno s’era occupato contare se mancasse alcun grano ai quattrocento miliardi che doveva dare la messe. Pencroff aveva benissimo avuto l’idea di farlo, ma avendogli Cyrus Smith detto che quand’anche potesse riuscire a contarne trecento grani al minuto, ossia novemila all’ora, gli bisognerebbero cinquemila cinquecento anni per compiere la sua operazione, il bravo marinajo credette di dovervi rinunziare.

Il tempo era magnifico, la temperatura caldissima di giorno; ma la sera i venti di mare venivano a tem perare gli ardori dell’atmosfera e procuravano notti fresche agli abitanti del Palazzo di Granito. Ci fu peraltro qualche uragano che, se non fu di lunga durata, percuoteva però con violenza l’isola Lincoln.

Per alcune ore i baleni non cessavano di tingere il cielo di bragia, e il brontolío del tuono ero continuo.

Verso quel tempo la piccola colonia prosperava sin[p. 97 modifica]golarmente; pullulavano gli ospiti nel cortile e si viveva del soverchio, perchè diventava urgente ridurne la cifra ad un numero più moderato; i porci avevano già fatto i piccini, e si comprende che le cure da dare a questi animali assorbissero gran parte del tempo di Nab e di Pencroff.

Gli onaggas, che avevano date due belle bestiole, erano, il più spesso montati da Gedeone Spilett e da Harbert; il qual ultimo si era fatto un eccellente cavaliero sotto la direzione del reporter. Spesso pure venivano aggiogati al carro, sia per trasportare al Palazzo di Granito la legna ed il carbone, ovvero i diversi prodotti minerali che l’ingegnere adoperava.

Verso questo tempo furono fatte molte ricognizioni nelle profondità delle foreste del Far-West.

Gli esploratori potevano avventurarvisi senza aver da temere gli eccessi della temperatura, perchè i raggi solari penetravano a stento attraverso il fitto dei rami che s’intrecciavano sopra il loro capo. Visitarono così tutta la riva mancina della Grazia.

Ma, in tali escursioni, i coloni ebbero cura di essere bene armati, giacchè incontravano spesso certi cinghiali selvatici e ferocissimi, contro cui bisognava lottare sul serio. Fu pure fatta, durante questa stagione, una guerra terribile agli jaguari, a cui Gedeone Spilett portava un odio speciale, secondato in ciò dal suo allievo Harbert.

Armati com’erano, non temevano essi l’incontro d’alcuna di queste belve. L’ardimento di Harbert era straordinario e la freddezza del reporter maravigliosa.

Già una ventina di magnifiche pelli adornavano la gran sala del Palazzo di Granito, e se la cosa continuava, la razza degli jaguari doveva essere presto spenta nell’isola; e a ciò miravano appunto i cacciatori.

L’ingegnere prese parte qualche volta a varie ricognizioni, che furono fatte nelle parti incognite del[p. 98 modifica]l’isola, ed egli esaminava tutto con attenzione minuziosa. Ben altre traccie, oltre quelle degli animali, cercava egli nel più fitto di quegli ampi boschi, ma nulla mai di sospetto apparve agli occhi suoi. Top e Jup che lo accompagnavano, non lasciavano scorgere coi loro atti che vi avesse nulla di straordinario; eppure più d’una volta ancora il cane latrò all’orifizio di quel pozzo che l’ingegnere aveva esplorato senza frutto.

Fu a quel tempo che Gedeone Spilett, ajutato da Harbert, prese molte vedute delle parti più pittoresche dell’isola, per mezzo dell’apparecchio fotografico trovato nella cassa e di cui non si aveva fatto uso finora.

Codesto apparecchio, fornito d’un poderoso oggettivo, era completo: sostanze necessarie alla riproduzione fotografica, collodio per preparare la lastra di vetro, nitrato d’argento per renderla sensibile, iposolfato di soda per fissare la immagine ottenuta, cloruro d’ammonio per bagnare la carta destinata a dar la prova positiva, acetato di soda e cloruro d’oro per impregnar quest’ultima — non mancava nulla. Vi erano perfino le cartoline già preparate col cloruro, e prima di collocarlo nei telaj sulle prove negative, bastava bagnarle per alcuni minuti nel nitrato d’argento stemperato nell’acqua.

Il reporter ed il suo ajutante divennero in breve abili operatori, ed ottennero prove abbastanza belle di paesaggi, come a dire il panorama dell’isola, preso dall’altipiano di Lunga Vista col monte Franklin all’orizzonte, la foce della Grazia così pittorescamente incorniciata nelle sue roccie, la radura ed il ricinto addossato ai primi gioghi della montagna, tutto quel bizzarro contorno del capo Artiglio, della punta del Rottame, ecc.

I fotografi non dimenticarono di fare il ritratto a tutti gli abitanti dell’isola, nessuno eccettuato.

— Par d’essere in più, diceva Pencroff. [p. 99 modifica]

Ed il marinajo era felice di vedere la propria immagine, fedelmente riprodotta, ornare le pareti del Palazzo di Granito, e si fermava volentieri innanzi a quella mostra, come avrebbe fatto in faccia alle più ricche vetrine di Broadway, Ma, convien dirlo, il ritratto meglio riuscito fu, senza contrasto, quello di mastro Jup, il quale aveva posato con una serietà indescrivibile. La sua immagine era parlante.

— Non pare che voglia fare la smorfia? diceva Pencroff.

E perchè mastro Jup non fosse contento, avrebbe dovuto essere ben schizzinoso. Ma era sì contento, e contemplava la propria immagine con un’aria sentimentale che lasciava scorgere una lieve dose di fatuità.

I gran calori dell’estate terminarono col mese di marzo. Il tempo fu talvolta piovoso, ma tuttavia caldo. Codesto mese di marzo, che corrisponde al settembre delle latitudini boreali, non fu così bello come si sarebbe dovuto sperare. Pareva che annunziasse un in verno precoce e rigido.

Anzi un mattino, il 21, si potè credere che fossero cadute le prime nevi; ed Harbert 9, il quale si era messo di buon’ora ad una delle finestre del Palazzo di Granito, esclamò:

— To’! l’isolotto è coperto di neve!

— Della neve in questa stagione? rispose il reporter, che aveva raggiunto il giovinetto.

I compagni furono presto al loro fianco, e tutti insieme poterono accertarsi che, non solamente l’isolotto, ma tutto il greto ai piedi del Palazzo di Granito era coperto d’uno strato bianco, sparso uniformemente sul suolo.

— È proprio neve! disse Pencroff.

— Od almeno le assomiglia molto, rispose Nab.

— Ma il termometro segna 58 gradi! (14 centigradi sopra zero) fece osservare Gedeone Spilett. [p. 100 modifica]

Cyrus Smith guardava il bianco lenzuolo senza dir nulla, poichè egli non sapeva veramente come spiegare tale fenomeno in quella stagione e con una temperatura calda.

— Per mille diavoli, esclamò Pencroff, le nostre piantagioni geleranno!

E già il marinajo si disponeva a discendere, quando fu preceduto dall’agile Jup, il quale si lasciò scivolar fino a terra.

Ma appena la scimmia fu scesa, l’enorme strato di neve si sollevò e si sparpagliò nell’aria a fiocchi così innumerevoli, che la luce del sole ne fu velata per alcuni minuti.

— Uccelli! esclamò Harbert.

Erano infatti sciami d’uccelli marini, dalle penne abbaglianti per bianchezza: si erano posati a centinaja di migliaja sull’isolotto e sulla costa, e sparvero lontanamente, lasciando i coloni sbalorditi come d’un cambiamento a vista che avesse fatto succedere l’estate all’inverno in una scena di teatro. Disgraziatamente il cambiamento era stato così improvviso, che nè il reporter, nè il giovinetto riuscirono ad atterrare uno di quegli uccelli di cui non poterono neppure riconoscere la specie.

Alcuni giorni dopo, era il 26 marzo, vale a dire il secondo anniversario del giorno in cui i naufraghi dell’aria erano stati gettati sull’isola Lincoln.