Il vicario di Wakefield/Capitolo ottavo

Capitolo ottavo

../Capitolo settimo ../Capitolo nono IncludiIntestazione 5 maggio 2024 75% Da definire

Oliver Goldsmith - Il vicario di Wakefield (1766)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Berchet (1856)
Capitolo ottavo
Capitolo settimo Capitolo nono
[p. 46 modifica]

CAPITOLO OTTAVO.

Un amore che promette poca felicità,

può, non ostante, produrne di molta.

Il giorno che seguì poi tornò il signor Burchell a farci visita; e quantunque per certe ragioni questo di lui spesseggiare mi dispiacesse, non mi pativa l’animo di negargli il mio focolare. Egli è vero che la compagnia che gli tenevamo veniva ricompensata dai suoi lavori, essendo egli sempre il primo innanzi a tutti nel prato o frammezzo ai covoni, ed alleviandoci tratto tratto il travaglio con alcune panzane. Egli era sì pieno di fantasticherie e insieme di sensibilità, che m’era forza ad un tempo stesso amarlo, deriderlo e averne compassione. L’unica cosa che me lo rendeva alcun poco rincrescevole era una tal quale benevolenza ch’egli manifestava per la mia figliuola, chiamandola per ischerzo la sua piccola amante; e ogni qual volta a ciascuna delle fanciulle egli portava in dono un lacciuolo di nastri, ella ne aveva sempre il più bello. Come la fosse io non so, ma ogni dì pareva egli diventar più amabile e vivace, e la di lui semplicità si trasmutava in una certa aria che ti sentiva del savio.

Si desinò quel giorno in mezzo al campo; e, distesa sul fieno la tovaglia, noi sedemmo, o per dir meglio, ci [p. 47 modifica]sdraiammo a godervi di pochi cibi frugali, e il signor Burchell accrebbe colla sua gioia piacevolezza a quel banchetto. Due merli squittivano a vicenda da opposte siepi, il pettirosso domestico saliva a beccare sulle nostre mani le briciolette, ed ogni cosa all’intorno spirava pace. “Non è volta,” disse Sofia, “ch’io mi sieda in questa guisa, e non mi corra alla mente la storia dei due amanti i quali in braccio l’un dell’altro furono colti da morte improvvisa sotto di una bica d’orzo. La descrizione che ne fa Gay è tanto patetica che ben cento volte io la lessi e ben cento ne fui commossa.” Il mio figliuolo la interruppe dicendo che i passi più belli di quella descrizione erano, a parer suo, molto inferiori a quelli della avventura di Aci e Galatea in Ovidio; e che il poeta romano, conoscendo meglio l’urto delle passioni, vi aveva con somma arte e più fina maneggiati gli affetti. Allora il signor Burchell prese così a favellare: “Ell’è maraviglia il vedere come entrambi que’ poeti che voi nominaste abbiano contribuito del pari ad introdurre, ciascuno tra’ suoi, un pessimo gusto, caricando ogni verso d’epiteti a iosa. Que’ loro difetti facilmente furono imitati da gente di scarso ingegno; e all’età nostra la poesia inglese, come quella dell’ultimo impero di Roma, altro non è che una combinazione d’immagini lussureggianti, accavallate le une sopra le altre senza ordine alcuno; una infilzatura d’epiteti che ti intronano gli orecchi senza destarti un’idea. Ma intanto ch’io sto tagliando altrui le gambe, voi forse vorreste ch’io non risparmiassi le mie; or bene sappiate che non per altra ragione io mi sono indotto a simili ciarle, se non per aver campo di far nota a questa adunanza una Ballata che, per quantí abbia difetti, è sicuramente netta degli accennati.

ballata

        Volgiti a me, cortese
      Uom della selva; i passi miei deh scorgi

[p. 48 modifica]

      Là vêr quella fiammella
      Che di raggio ospital la valle abbella.
      Io smarrito e tremante
      A gran fatica in piè mi reggo; e questa
      Orribile foresta
      Quanto m’innoltro in lei,
      Tanto fassi più immensa ai passi miei.
         Guardati ben: la ria
      Non tentar tenebria
      (L’eremita risponde); è quel barlume
      Un traditor fantasma lusinghiero
      Che intorno vola, o figlio,
      E vuol trarti in periglio.
      Ma qui presso al meschino
      Che ricovro non ha, della mia cella
      Sempre aperta è la soglia;
      E povero qual sono,
      Quanto dar gli poss’io, tutto gli dono.
      Vien dunque; in questa notte
      Meco a divider vien liberamente
      Quel che t’offre il mio tetto:
      D’aride frondi un letto,
      Una cena frugale,
      Tranquilli sonni e benedetta pace.
      Giammai le pecorelle
      Che giù per la vallea pascendo vanno,
      A morte io non condanno:
      Chè ad esser pio con elle
      Quel Dio m’insegna che pietoso è meco.
      Ma un innocente io reco
      Vitto dal fianco dell’erboso monte,
      Frutti e radici, e puro umor dal fonte.
           Vieni, e dimentica
             Le tue sciagure.
             A che mai giovano
             Le umane cure?
             Ahi! quanto è misero
             L’uom che si strugge

[p. 49 modifica]

             In brame inutili
             Per una vita
             Che presto fugge,
             Presto è finita.
           Dolce, come rugiada
      Che dalle stelle cada,
      Era l’incanto del parlar soave;
      E lo straniero intanto
      S’inchinava modesto all’uom solingo,
      Seguitandone i passi. Entro il più cupo
      Della selva giacea
      Il solitario ostello,
      Al povero vicino
      Asilo, e allo sviato pellegrino.
      Facile lo sportello
      Schiuso all’alzar del saliscendi, accolse
      Quella coppia innocente:
      Poi che cura nessuna
      Al signor suo non chiede
      Dell’umil tetto l’umile fortuna.
      Era l’ora in cui cercano riposo
      Dai lavori del dì stanchi i mortali;
      E il gentile eremita
      Di serenar la fronte disioso
      All’ospite pensoso,
      Il picciol fuoco avviva; e sorridendo
      Con amabile festa
      A gustar ne l’invita i frutti e l’erbe
      Che sul desco gli appresta.
      Poi di casi istruito e di novelle
      Siede favoleggiando,
      Coi racconti le lente ore ingannando.
      Pon sue scaltre moine
      Il gatto in opra, e gli festeggia intorno.
      Allegro canta il grillo
      Dal focolare; e crepitar la fiamma
      Fa l’ardente fastello: ma dolcezza
      Nessuna in cor scendea

[p. 50 modifica]

      Allo stranier, cui grave
      Era l’alma d’affanni, e già piangea.
      Quel sorgente dolor vide il romito;
      E d’angoscia simíle
      Sentissi il cor ferito;
      Poi rotti dal sospiro
      Codesti accenti dal suo labbro usciro.
        Oh! che mai, che mai t’affanna’,
           Giovinetto sconsolato?
           D’auree soglie or ti condanna
           Forse in bando avverso fato?
        O ti duol di fè tradita
           D’empj amici ed infedeli;
           O di fiamma non gradita
           Ardi in petto e ti quereli?
             Ahi! che sol labili
               Vane allegrezze
               Dalle ricchezze
               Hanno i mortali.
               Stolti, se pregiano
               Beni sì frali.
             Ahi! l’amicizia
               Nome è soltanto.
               È un vuoto incanto
               Che ci diletta;
               Lusinga debile
               Che al sonno alletta;
             Ombra volubile
               Che dietro all’oro
               Corre, e al sonoro
               Titol beato;
               Ma lascia in lagrime
               Lo sventurato.
             Suon più ingannevole,
               Più ignota cosa,
               Sol d’orgogliosa
               Beltà, mel credi,
               È amor ludibrio;

[p. 51 modifica]

               Nè in terra il vedi:
            O se mai trovasi,
               Se in terra ei giace,
               Solo si piace
               Con la facella
               Scaldare il nidio
               Di tortorella.
            Dunque vergognati
               Del tuo dolore;
               Sopisci in core
               Tutti gli affanni;
               Fuggi di femmina,
               Fuggi gl’inganni.
        Disse; mentre parlava,
      All’ospite sul volto
      Spuntò improvviso traditor rossore,
      Che trafitto il dicea
      Da disperato amore.
      E il romito stupía,
      Tanti in un punto sfolgorar veggendo
      Vezzi non visti in pria.
      Come i color che all’ora mattutina
      L’aer tutto dipingono,
      Così apparian vivaci
      Le novelle bellezze, e al par fugaci.
      Vergognosetto il guardo,
      E il bianco seno ch’or s’innalza or scende,
      Desta al solingo in petto
      Con alterna vicenda una tempesta;
      E per fanciulla di leggiadro aspetto
      L’amabile stranier si manifesta.
        Ah! perdona ad un meschino,
          A uno stanco pellegrino,
          Che profano
          Por qui dentro ardisce il piede
          Ove Dio con te risiede.
          Ma pietà d’una sviata
          Verginella innamorata,

[p. 52 modifica]

          Che lontano
          Dal suo tetto ramingando
          Va riposo alcun cercando.
               Alla mia pace
               Amor m’invola;
               E de’ miei passi
               Compagna è sola
               Disperazion.
        D’assai beni mio padre opulento
      Là del Tine viveva sul lito,
      Di me, sola sua figlia, contento.
        De’ miei tanti tesori invaghito
      Venne ognuno a cercarmi in isposa,
      Ognun corse ad offrirsi marito.
        Mille e mille allor dissero ascosa
      Per me in seno una fiamma nudrire,
      E gran vanto mi diêr di vezzosa.
        Veri amanti, od usati a mentire,
      Gente avara ed ingorda dell’oro,
      Volser tutti al mio letto il desire.
        Mercenario a me intorno quel coro
      L’amor mio gareggiando chiedea;
      Ma sol un n’era degno fra loro.
        Vera fiamma Edevino struggea;
      Ma parlarmi d’amor non ardiva,
      E la cura nel seno premea.
        Rozzi panni ed umíli vestiva;
      Non aveva ricchezze il meschino,
      Ma bell’alma di fede non schiva.
        Il fioretto che sboccia il mattino,
      Le rugiade più caste del cielo
      Son men pure del cor d’Edevino.
        La rugiada ed il fior sullo stelo
      Brillan solo vivaci un istante,
      Quando sgombra la notte il suo velo.
        Come i fiori era bello il sembiante:
      Ma più candida l’alma d’un giglio,
      E dell’alma il candore costante.

[p. 53 modifica]

        Ahi! ch’io stolta con vano consiglio
      Ora blando-ridente e pietoso,
      Or severo volgendogli il ciglio,
        Ogni pace a lui tolsi e riposo;
      E con l’arte più scaltra e crudele
      Tormentai quel suo core amoroso.
        M’era caro saperlo fedele;
      Ma superba godea di sue pene,
      E gioiva in udir sue querele.
        L’infelice, perduta ogni spene,
      Del mio lungo disprezzo affannato
      Ruppe alfine le dure catene:
        E un lontano deserto cercato,
      Ivi morte pregò che venisse:
      E morendo fe mite il suo fato.
        Ma son io la crudel che ’l trafisse;
      E il rimorso che il cor mi flagella,
      Già al mio fallo l’ammenda prescrisse,
        E al deserto medesmo mi appella.
          Là piangente, disperata,
            La sua tomba abbraccerò.
            Là da tutti abbandonata,
            La mia morte affretterò.
              Così Edevino
                 Per me morì;
                 Per lui voglio
                 Morir così.
        Ah! no, non farlo, il solitario esclama,
      Alla vergin dolente;
      E corre, e se la stringe
      Al sen teneramente.
      Ritrosa ella si volge, e lo respinge.
      Oh ciel! chi mai, chi al guardo le si affaccia!
      Edevino, Edevino è che l’abbraccia.
        Volgi a me, mio bel disio,
          Le tue fulgide pupille,
          Angelina, idolo mio.
            Deh! cara, volgiti

[p. 54 modifica]

            Al tuo diletto.
            Lasciati stringere,
            Cara, al mio petto.
          Ecco cessarono
            Le acerbe pene.
            Ecco amor rendemi
            A te, mio bene.
      Io te sola ancora adoro.
        Deh! riposa; e nel mio cor,
        O mia vita, o mio tesoro,
        Trova pace al tuo dolor.
          Vivremo amandoci
            Uniti, o bella.
            Mai da quest’anima
            Sarà ch’io svella
            La dolce immagine
            Del tuo sembiante:
            Nè fia che tolgati,
            Vergin vezzosa,
            Al fido amante
            Veruna cosa.
              E porrà fine,
                Cara, così
                Un sol sospiro
                Ai nostri dì.

Intanto che si stava leggendo questa Ballata, pareva Sofia frammischiare agli applausi una tal quale aria appassionata che ti vinceva. Ma quella tranquillità fu poco stante scomposta da una archibugiata che ci scoppiò alle spalle, dopo la quale eccoti un uomo aprirsi per mezzo la siepe una callaia vêr la sua caccia. Era quegli il cappellano dello scudiero, ed aveva ucciso uno de’ merli che ci rallegravan cotanto. A quel fracasso si spaventarono le mie figliuole; e la Sofia tremante fu da me veduta gittarsi a ricovero nelle braccia del signor Burchell.

Il gentiluomo venne a chiederci scusa del disturbamento, affermando nulla saper egli della nostra vicinanza, [p. 55 modifica]s’assise a lato alla fanciulla minore, e da buon cacciatore le offerì tutta la preda di quella mattina. Ella era in procinto di rifiutarla, quando un’occhiata che le diede di sottecchi sua madre, la mosse ad emendare tosto quel fallo e ad accettare, sebbene con alquanta ritrosía, il donativo. Inorgoglitasi mia moglie, borbottò, secondo il solito, fra denti certe parole d’esultanza per la conquista del cappellano fatta da Sofia, simigliante a quella che dello scudiero aveva già fatta la di lei sorella: ma io aveva ragione di sospettare che la furbetta mirasse a tutt’altro. L’ambasciata del cappellano era per avvertirci d’alcuna musica e di rinfreschi preparati dal signor Thornhill, il quale s’avvisava di intrattenere quella sera con un ballo le fanciulle al chiaror della luna sul pratello in faccia alla nostra casa. Nel dare a noi questa novella, il cappellano manifestò quanto a lui fosse stato a cuore d’esserne il primo messaggero, sperando in ricompensa che madamigella Sofia gli sarebbe stata compagna per quella danza. A lui la fanciulla rispose che di buon grado avrebbe accolto l’invito, se ella non vi scapitasse di suo onore; perchè avendovi un gentiluomo che le era stato compagno in tutti i lavori della giornata, parevale che anche nel sollazzo quegli avesse diritto d’esserlo. In questo dire ella additò il signor Burchell, il quale, ringraziandonela, la cedette pulitamente al cappellano, dicendo esser egli per quella notte invitato cinque miglia lontano ad una scapponata colla quale si celebrava da alcuni suoi amici il ricolto. Appariva a me stravagante quel di lui rifiuto; nè sapeva io, d’altra parte, indovinare come una fanciulla di sì buon senno potesse anteporre ad un uomo discretamente agiato uno accattapane. Ma siccome gli uomini ti sanno dire a un puntino quanto valga una donna, così le femmine spesse volte fanno di noi giudicio esattissimo; e i due sessi paiono spie appuntate l’uno dell’altro, avendo ciascuno separatamente attitudini tutte proprie per ben fare il suo mestiero.