Duplice conversione

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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Duplice conversione
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Duplice conversione.



P
oichè Guglielmo Atkins e sua moglie ci furono fuori di vista, non avevamo altro da far lì, onde venimmo addietro; ma li trovammo di nuovo che stavano innanzi alla mia abitazione, aspettando di essere chiamati. Veduto questo domandai al mio prete se dovessimo dir loro o no d’averli veduti di mezzo alle macchie. Egli si avvisò per il no; tornarne meglio il parlar prima ad Atkins e vedere come si metteva. Chiamato indi lui solo e, senza che ci fossero presenti altri fuori di noi, principiai così le nostre interrogazioni.

Robinson. Guglielmo Atkins, fatemi il piacere di dirmi qual fu la prima vostra educazione. Vostro padre chi era?

Atkins. Un uomo migliore di quello che arriverò mai ad esser io, mio signore. Mio padre era un ecclesiastico.

Robinson. Che educazione vi diede?

Atkins. Egli avrebbe voluto ammaestrarmi debitamente; ma io mi misi sotto i piedi tutto: educazione, istruzioni, ammonizioni, da enorme bestia qual era.

Robinson. Veramente, lo dice anche Salomone, che chi disprezza le ammonizioni è un uomo brutale.

Atkins. Sì, mio buon signore, fui proprio questo brutale. Per l’amor di Dio, non mi parlate di queste cose. Dio! Dio! Lo ammazzai io il mio povero padre.

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Il prete francese. Un parricidio!


Il povero prete divenne pallido pallido, quando Atkins diede in questa esclamazione, perchè io gli andava spiegando parola per parola ogni detto di questo, e parve che prendesse la cosa troppo alla lettera.


Robinson, al prete. No, amico; io la intendo diversamente. Guglielmo Atkins, spiegatevi. Voi non uccideste vostro padre, non lo uccideste con le vostre mani?

Atkins. No, signore, non gli troncai il collo, ma troncai il corso della sua felicità e gli ho accorciata la vita. Ho straziato il suo cuore contraccambiando con la più snaturata ingratitudine i più teneri e affezionati trattamenti che abbia mai saputo usare un padre, che un figlio abbia mai potuto ricevere.

Robinson. Ascoltatemi, Atkins, non vi ho fatta questa domanda per estorcere una tal confessione da voi. Intorno a ciò prego Dio che vi conceda la grazia d’un pentimento verace, e vi perdoni questa e altre colpe; ma il fine della mia interrogazione è stato tutt’altro. Benchè non siate fornito di molta dottrina, si vede nondimeno che non siete ignorante, come alcuni altri, nel conoscere il vero bene, e che in fatto di nozioni religiose ne avete molte al di là di quanto le abbiate poste in pratica. Per ciò vi domandava....

Atkins. Ancorchè, signore, voi non abbiate cercato di strappar dal mio labbro la confessione che vi ho fatta intorno a mio padre, me l’avrebbe estorta la mia coscienza; e ogni qual volta riandiamo col pensiere la nostra vita passata, i delitti commessi contro amorosi genitori sono i primi crudeli pensieri che ne trafiggono; e la ferita che vibrano è più profonda, l’oppressione che lasciano nell’animo è più grave di quanto il siano la puntura, il peso d’ogn’altra colpa.

Robinson. O Atkins, voi toccate una corda troppo dilicata, troppo sensibile al mio cuore, perchè io possa sopportarne il suono.

Atkins. Voi, mio signore, non potete sentir questa corda. Ardisco dire che di tali cose non potete intendervene.

Robinson. Sì, Atkins, che me ne intendo! Ogni spiaggia, ogni colle, posso anzi dire ciascun albero di quest’isola è testimonio delle angosce provate dalla mia anima per la ingratitudine, pe’ mali trattamenti da me usati ad un buono, ad un tenero padre, ad un padre, [p. 531 modifica]Atkins, affatto simile al vostro, se sto alla descrizione che me ne avete data; ed io uccisi mio padre, come voi il vostro; pure, povero me! credo che il mio pentimento sia di gran lunga inferiore al vostro.»


Avrei parlato più a lungo se me ne avesse lasciata la forza il dolore; ma il pentimento di quel pover uomo mi parve tanto più sincero del mio, che, vergognandomene, stava per troncare il discorso e ritirarmi. Oh! come rimasi sorpreso da ciò che egli disse! Allora pensai, anzichè adoperarmi ad ammaestrare e convertir lui, di avere invece trovato in lui inaspettatamente e in guisa prodigiosa un istruttore, un missionario eccellente. Tutti questi miei pensieri spiegai al mio buon ecclesiastico, che, non potendo capire in sè per la gioia e la commozione ond’era compreso, si volse a me:

— «Non ve lo diceva che, quando quest’uomo sarebbe convertito, farebbe il predicatore a tutti noi? Vi giuro io che se viene da vero a penitenza, qui non c’è più bisogno di me; fa cristiani tutti quelli che nol sono nell’isola.»

Allora ricompostomi alquanto, tornai al mio interrogatorio con Atkins.


Robinson. Com’è stata, Atkins, che questo forte e giustissimo sentimento si è destato in voi sol da poco in qua?

Atkins. Signore, voi m’avete messo in un lavoro che mi ha piantata una freccia nell’anima. Ho parlato di Dio e di religione con mia moglie, come voi desideravate, per far d’essa una Cristiana. Or bene, è stata ella in vece che mi ha fatta una tal predica da non iscordarmene più fin che vivo.

Robinson. No, no; non è vostra moglie che vi ha predicato; ma mentre tiravate a mano argomenti religiosi per persuadere lei, la vostra coscienza li ritorcea sopra di voi.

Atkins. Così è, mio signore; e con tal forza, che non le poteva resistere.

Robinson. Di grazia, ditene alcun che dei discorsi seguìti tra voi e vostra moglie. Qualche cosa già me l’immagino; ciò non ostante...

Atkins. Signore, mi sarebbe difficile il darvene un preciso ragguaglio. Certo mi stanno sì fitti nella memoria, che non potrei scordarli; ma non ho lingua per esprimerli. Una cosa che posso dirvi si è questa: comunque quella povera donna abbia parlato, e benchè io [p. 532 modifica]non sia buono di ripeterne i discorsi, ho risoluto di ammendarmi e di riformare la mia vita.

Robinson. Va bene; pur diteci almeno com’è principiata la cosa. Il caso è stato straordinario, questo è certo; e bisogna da vero che sia una gran predicatrice eloquente se ha prodotto tanto effetto su voi.

Atkins. Vi dirò: le ho parlato prima di tutto della natura delle nostre leggi sul matrimonio; poi le ho spiegato i motivi da cui sono necessitati l’uomo e la donna ad assoggettarsi a tali patti che non possano rompere nè l’uno nè l’altro; le ho detto che altrimenti nè l’ordine nè la giustizia si manterrebbero, gli uomini fuggirebbero dalle loro mogli; abbandonerebbero le loro creature, nascerebbero mescolanze disordinate tra uomini e donne; le famiglie non si conserverebbero nè vi sarebbe più una regola per le successioni e le eredità.

Robinson. Voi parlaste come un valente giureconsulto, Atkins. Ma poteste farle capire ciò che riguarda le eredità e le famiglie? Queste cose non si conoscono fra i selvaggi che si sposano insieme comunque siasi, senza badare a parentela, a nodi di sangue di qualsiasi genere, o a famiglia; nemmeno se fratelli e sorelle, anzi com’hanno detto, il padre non si fa scrupolo di sposare la figlia, il figlio la madre.

Atkins. Credo, signore, che v’abbiano male informato, perchè mia moglie m’ha assicurato del contrario, e detto anzi che avrebbero orrore di ciò. Forse ne’ casi di parentele più lontane non ci guardano tanto come facciamo noi; ma ella mi giura che non si toccano gli uni gli altri nei casi delle strette parentele da voi additate.

Robinson. E che cosa ella rispose su la proposta di farla moglie legittima?

Atkins. L’aggradì sommamente, e disse che in questo rispetto le nostre usanze sono molto migliori di quelle del suo paese.

Robinson. Ma le spiegaste bene che cosa sia il matrimonio?

Atkins. Sì, mio signore, e qui si entrò a discorrere di religione; perchè avendole io chiesto se consentiva di essere sposata secondo il nostro rito, ella mi domandò che cosa intendessi dire. Le risposi che il matrimonio era stato istituito da Dio; e qui ebbi con lei il più strano dialogo che siasi mai tenuto al mondo tra moglie e marito.


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Trascrissi questo dialogo su le tracce della ripetizione che me ne fece Guglielmo Atkins.


La moglie. Istituito da Dio! Come! esservi un Dio in vostro paese?

Atkins. Sì, mia cara; Dio è in tutti i paesi.

La moglie. In mio paese non c’è vostro Dio; quello di mio paese è gran vecchio Benamuckee.

Atkins. Figliuola, io sono un cattivissimo maestro per darvi a capire che cosa è Dio; ma è quegli che ha fatto il cielo, la terra e il mare e tutte le cose che si contengono in essi.

La moglie. Terra no fatta da lui. Tutta terra, no sicuro; mio paese non fatto da lui. (A questo sproposito Guglielmo Atkins non potè starsi dal ridere.) Non ridere! Perchè mi guardi in burla? Qui non vedo buon ridere io. (La poveretta non avea torto, perchè su le prime suo marito non parlava tanto sul serio siccome lei.)

Atkins. Hai ragione; d’ora in avanti, mia cara, non riderò.

La moglie. Perchè dici che fatto tutto da tuo Dio?

Atkins. Sì, la mia creatura; il nostro Dio ha fatto l’intero mondo, te, me e le cose; perchè egli è l’unico vero Dio, e non vi è altro Dio fuori di lui, che vive in eterno nei cieli.

La moglie. Perchè non dirmelo tanto prima?

Atkins. Il tuo rimprovero è pur troppo giusto; ma ho sempre fatta vita cattiva, e non solo ho dimenticato di darti contezza delle cose che dovevi sapere, ma sono vissuto senza Dio, come se non vi fosse, e vivessi solo su questa terra.

La moglie. Come! c’è gran Dio in tuo paese, e non conosci lui? Non dici O a lui? Non fai cose buone per lui? Questo non possibile.

Atkins. Non dovrebbe essere; pure l’uomo è sì perverso che vive, come se Dio non fosse nel cielo, e non avesse nessun potere sopra la terra.

La moglie. Ma perchè Dio lascia te fare così? Perchè non obbliga te far buona vita?

Atkins. La colpa è tutta mia.

La moglie. Ma mi dici tuo Dio grande, grandissimo, che può tanto; che può dunque fare morto chi lui vuole. Perchè non far morto te che non servi lui, che non dici O a lui, che non sei buon uomo?

Atkins. Hai ragione; dovrebbe farmi cader morto, e dovrei [p. 534 modifica]aspettarmelo per tutte le mie iniquità; non dici che troppo la verità; ma è un Dio misericordioso, e non ci tratta a misura de’ nostri demeriti.

La moglie. E te non mai ringraziar lui?

Atkins. No, sciagurato ch’io fui! Non ringraziai Dio per la sua misericordia più di quanto lo abbia temuto per la sua possanza.

La moglie. Dunque tuo Dio non Dio; me non credere tutto questo potere in lui; non fa morto te che dai disgusti a lui.


Atkins. Dio! Dio! la mia sgraziata vita è quella che rattiene questa povera donna dal credere in te! oh il grande scellerato ch’io sono! Tremenda verità! La vita orribile dei Cristiani impedisce la conversione degl’infedeli.

La moglie. Voi me credere un gran Dio lassù (e qui la donna accennava il cielo) e te non far niente bene, anzi tutto male. Può saperlo? saper quello fai?

Atkins. Sì, sì; sa e vede ogni cosa, ci ode parlare; vede quello [p. 535 modifica]che facciamo, sa quello che pensiamo anche quando non diciamo nulla.

La moglie. Come! ascolta tue maledizioni, tuoi giuramenti da disperato? ode te quando dai anima a diavolo?

Atkins. Sì, sì; ode tutto questo.

La moglie. Dove sta dunque gran potere detto da te.

Atkins. Egli è misericordioso; ecco quanto ti posso dire intorno a ciò. Questo anzi ci dimostra ch’egli è un vero Dio; egli è Dio, non uomo, mia cara, e per questa sola ragione non siamo inceneriti dal fuoco del cielo.


Qui Guglielmo Atkins ci narrò l’orrore che assalse la sua mente quando si vide alla necessità di spiegare in sì chiari termini alla donna sua che Dio vede, ascolta, conosce i più intimi segreti del cuore, e che ciò non ostante egli, Atkins, aveva ardito commettere tutte le nefandità, di cui era colpevole.


La moglie. Misericordioso! Ma che cosa intendi con tuo misericordioso?

Atkins. Ch’egli è il padre, il creator nostro, che ha compassione di noi e ci risparmia.

La moglie. Ma non fa mai cader morti cattivi! non va mai in collera con cattivi! non buono lui, o suo saper fare non molto.

Atkins. Nè una cosa nè l’altra, mia cara. Egli è infinitamente buono e infinitamente grande, ed ha anche l’abilità di punire; e qualche volta per far manifesto che è giusto, e che chi lo offende non va impunito, dà segni visibili dell’ira sua sterminando i peccatori e dando terribili esempi; molti furono colpiti nell’atto medesimo del peccato.

La moglie. E poi non far morto te! Forse promesso a te non far morto te; un patto fra voi; tu far brutte cose sino che vuoi, lui con te andare no in collera; in collera con altri sì.

Atkins. Niente di questo, i miei peccati son tutti l’effetto d’una presunzione fondata temerariamente su la sua bontà, e sarebbe infinitamente giusto se facesse piombar su me la sua folgore, come ha fatto con altri.

La moglie. Bene; e per non far morto te, per non aver fatto morto te, che cosa dici a lui? Te se non altro ringraziar lui?

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Atkins. Sono un ingrato, un cuor di tigre, questo sì è vero.

La moglie. Perchè dunque non fatto te più buono? Te pur dire essere fatto da lui?

Atkins. Egli ha fatto me come ha fatto tutto il mondo. Son io che mi sono sformato da me medesimo, io che ho abusato della sua bontà, io, io divenuto per opera mia l’abbominevole scellerato che sono.

La moglie. Fa conoscere me a questo Dio, io non farò andare in collera lui; io non farò brutte cose, io.


Qui Guglielmo Atkins ne raccontò che si sentì in guisa straordinaria serrare il cuore all’udire quella povera idiota creatura, che desiderava essere ammaestrata nella conoscenza di Dio, e al pensare che un perverso come lui non era capace di dirle una parola a sesto su questo Dio, quando la sgraziata vita che avea condotta, doveva quasi farle parere cosa ragionevole sino il non crederlo; anzi la donna non si era stata dal dirgli: che non potea persuadersi dell’esistenza di questo Dio; perchè l’uomo malvagio che le stava innanzi non era stato distrutto.


Atkins. Mia cara, tu vuoi dire ch’io lo faccia conoscere a te questo Dio, non te a lui, perchè egli ti conosce, e sa ciascun pensiere che ti passa nella mente e nel cuore.

La moglie. Come! quello che dico adesso a te tuo Dio sa? Sa me desiderare conoscer lui. Come far me per conoscere chi ha fatta me?

Atkins. Povera creatura! egli deve insegnartelo: io non lo posso. Lo pregherò che t’insegni a conoscerlo, e mi perdoni, poichè son troppo indegno d’ammaestrarti.


Il povero convertito ci narrò su questo proposito, come fosse in uno stato di vera agonia allo scorgere nella donna il desiderio di conoscere Dio e d’avere in ciò per maestro il marito. L’agonia fu sì grande che, lasciatosi cader ginocchione alla presenza di lei pregò Dio ad illuminar la mente di sua moglie con la salutare dottrina di Gesù Cristo; lo pregò, perchè gli perdonasse le sue colpe e tollerasse ch’egli divenisse stromento, benchè indegno, ad ammaestrarla ne’ principî della religione. Finita la sua preghiera, tornò a sedere [p. 537 modifica]presso la moglie, e il dialogo continuò. Questa parte di narrazione corrisponde al momento in cui lo vedemmo inginocchiarsi e sollevare le mani al cielo.


La moglie. Per far che inginocchiato? Per che cosa alzate mani in su? Che aver detto? Con chi detto? Che roba essere stata questa?

Atkins. Mia cara, mi sono prostrato in segno della sommessione a chi mi creò. Gli ho detto O, per esprimermi all’usanza di voi altri, e come fate voi altri col vostro idolo Benamuckee; in somma ho pregato il vero, il mio Dio, il Dio di tutti.

La moglie. E perchè detto O a lui?

Atkins. Affinchè voglia aprirti gli occhi e rischiararti l’intelletto; affinchè tu possa conoscerlo e farti degna di essere ascoltata da lui.

La moglie. Anche questo in poter di lui?

Atkins. Sì; in poter di lui; può far tutto, mia cara.

La moglie. E udite ora da tuo Dio cose dette da te a lui?

Atkins. Sì; ci ha comandato di pregarlo, e ne ha promesso di ascoltarci.

La moglie. Comandato di pregar lui? Quando? come? Dunque te avere udito parlar lui?

Atkins. No, noi non possiamo udirlo parlare, ma si e rivelato a noi in più maniere.


Qui il povero Atkins si trovò in un grande imbarazzo, per farle capire che Dio si è rivelato con la sua parola, e in che consistesse questa parola; pur finalmente si spiegò alla meglio.


Atkins. Dio primieramente parlò ad alcuni santi uomini ne’ tempi antichi, anche con parole distinte venute dal cielo; Dio ha infuso in que’ santi uomini il suo spirito; e que’ santi uomini scrissero le sue leggi in un libro.

La moglie. Me non capire. Dove questo libro?

Atkins. Ah! mia povera creatura, pur troppo non lo ho questo libro; spero per altro una volta o l’altra di procurarmelo e di leggerlo in tua compagnia. (Qui l’abbracciò con inenarrabile tenerezza e con altrettanto rammarico, per non avere lì pronta una Bibbia.)

La moglie. Ma in che modo fai a me conoscere avere quegli uomini scritta parola di Dio?

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Atkins. Dalla regola stessa che lo ha fatto a noi conoscere per un Dio.

La moglie. Che regola? non intendo tua ragione.

Atkins. La ragione è che in questa regola, in questi comandamenti di Dio non si contiene cosa la quale non sia buona, retta, santa e non intesa a renderci perfettamente buoni ed altrettanto felici; nè v’è un suo precetto che non ne comandi l’astenerci da tutto quanto è male in sè stesso e nelle sue conseguenze.

La moglie. Me voler avere gran gusto di saper regola, di conoscere regole. Lui, tuo Dio, far far bene tutte cose a me! Lui far sempre buone cose per me! Lui ascoltarmi dire O a lui, come te poco fa! Lui far me buona se me bramare esserlo! lui aver compassione di me! Non farmi morta se cattiva. Te aver fatto persuasa me lui essere gran Dio! Me volere con te dire O a lui!


A questo punto il nostro convertito non pote più rattenersi; saltò in piedi, le diede mano ad alzarsi, la fece inginocchiare con lui, pregò il Signore che scendesse col suo spirito ad ammaestrarla; si raccomandò in oltre alla divina providenza, affinchè quella povera donna arrivasse ad avere, un dì o l’altro, se pur fosse stato possibile, una Bibbia. Fu questo il punto in cui gli avevamo veduti prendersi scambievolmente per mano, ed inginocchiarsi.

Seguirono quindi altri discorsi fra loro troppo prolissi per essere trascritti. Il più concludente per parte della donna fu la promessa che si fece dare da suo marito.

— «Poichè confessi da te stesso tua vita essere stata cattiva, cialtrona vita, dà tua parola, me voler tua parola! te finire di provocar lui, corregger te, non far più andare in collera lui; se no lui far te morto, me restar sola; senza chi me insegni conoscer meglio lui, se no.... questa cosa avermela insegnata te... te morto, diventar te miserabile come miserabili tutti cattivi.»