Alpinisti ciabattoni/L'uggia del cattivo tempo

L'uggia del cattivo tempo

../Dove si va? ../Alla ricerca del latte IncludiIntestazione 27 novembre 2018 100% Da definire

Dove si va? Alla ricerca del latte

[p. 105 modifica]

L’uggia del cattivo tempo.

Era appena giorno quando il signor Segezzi mise i piedi nelle babbucce, ed andò alla finestra per scrutare il tempo.

— Piove, — disse alla moglie, ritornando sotto le coltri.

Madama andò subito in desolazione.

Come? proprio allora che doveva arrivare la Zina, proprio in quel giorno, quel tempo maleducato si metteva a fare le pazzie?

— C’è vento?

— Pare di sì.

— Oh Dio, purchè non accadano disgrazie! Questo lago è traditore; il vaporino potrebbe sommergersi... Per carità, è meglio che non vengano! Come dice la lettera della Zina?... Va a pigliarla. [p. 106 modifica]

Ed il signor Segezzi fece un’altra passeggiata per la stanza, e ritornò a letto col foglio e l’astuccio degli occhiali.

La Zina scriveva così:


Cari genitori,

«Siamo a Intra, all’Hôtel della Posta; arrivammo ieri sera, pranzammo e poi, essendo molto stanchi, andammo subito a letto.

Stiamo tutti bene, tanto io che il mio diletto Errico, ma la Svizzera non ci è piaciuta niente affatto, e nemmeno il lago di Ginevra. Se sapeste quanta pioggia abbiamo preso! ma noi eravamo sempre allegri. Domani andremo a Pallanza, ci fermeremo la notte, e poi domenica mattina in carrozza verremo a Omegna per pigliare il battello e venirvi ad abbracciare a Oira.

Addio cara mamma, addio caro papà, a rivederci. Anche il mio Errico vi manda tanti baci.»

La vostra Zina.


Riponendo la lettera, il signor Segezzi si sentì tremolare sugli occhi una lagrima; madama piangeva fin dal principio. Bisognava dunque levarsi subito, far mettere in assetto la camera degli sposi, [p. 107 modifica] e sperare in Dio che quel tempaccio non facesse spropositi.

Pioggia e vento imperversavano sulla riviera. Il lago, ravvolto nella fumea densità di vapori biancastri, si agitava scomposto flagellando la spiaggia.

Nel mezzo, oltre l’isola, le onde verdastre subbugliavano in gorgogliamenti vorticosi, e giù in fondo nella bruma fredda, sfumavano in una striscia livida piena di minaccie.

I colli di Gozzano e di Ameno, maceravano sotto un fitto velo di piova. Orta pareva sommersa nella nebbia e nel freddo; il Motterone ergeva nel cielo nuvoloso la sua immane schiena di cavallone chiazzata di fiocchi e di batuffoli di nuvolaglia bianca.

Adess sem bei! — sclamò madama Martina guardando il lago dalla finestra.

Non ci mancava altro per completare le delizie di quella scampagnata. Sor Gaudenzio aveva deciso di portarsi nella giornata a Omegna.

Martina tirò fuori lo scialle, ed il marito, che non aveva soprabito, si contentò di abbottonarsi.

Uscire, era pazzia; non si poteva metter muso fuori dell’uscio senza pigliarsi schiaffi rabbiosi di vento e di piova.

Scesero abbasso e presero il caffè in cucina. In [p. 108 modifica] sala chi ci poteva stare? Da una parte i coniugi Segezzi con un muso corrucciato che metteva malinconia, e nel salotto il capitano Errero che passeggiava come un lupo da serraglio, ringhiando contro il tempo; e di qua e di là, balcone spalancato, con quel vento che gelava il fiato.

Gaudenzio dopo il caffè prese un bicchierino di grappa, sperando che gli tenesse luogo del soprabito di cui aveva tanto bisogno.

Martina non ancora sgranchita, col naso livido dal freddo, stretta nel suo scialle, guardava la pioggia che si frangeva contro la finestra, e ad intervalli borbottava:

Questa l’una grana!

Una donna della riviera con un cesto di verdura e di frutta, precipitò in cucina; aveva saccone in testa e parapioggia, ma sgocciolava da tutte le parti, e squassò dalle vesti un’ondata del freddo della piazzetta.

C’era una novità. Una barca che aveva tentato la traversata da Orta, si era capovolta sotto la furia del vento.

I coniugi Segezzi sobbalzarono di terrore e corsero in cucina a smaniare temendo pericoli per la loro Zina. Solo il capitano, uomo di mare, poteva [p. 109 modifica] dire una parola tranquillante, e madama Segezzi supplicò il marito di consultarlo.

— Scusi, capitano, — sclamò il signor Segezzi entrando nella saletta, — è pericoloso viaggiare sul lago con questo tempo?

— Eh no; andando quedito... sì no, la barca fa pirueta.

— Sul battello, signore, sul battello! — gridò madama.

Il capitano rise forte.

— Ah sul battelo!... Sobrecubierta si prende un poco de acqua, ma non c’è pericol... soga!

Non sapendo se quel soga fosse uno scherzo o un complimento, i Segezzi un po’ mortificati e niente tranquilli, lasciarono cadere il discorso, ed andarono a confidare le loro smanie a madama Strepponi che scendeva in quel momento in veste da camera.

Ma la signora Strepponi aveva i suoi nervi, ed aspettava un brodo con l’ovo per calmarli. Nella notte aveva avuto il solito accesso; quel tempaccio, diceva lei, l’ammazzava addirittura, e non aspettava che un buon momento per fuggirsene a casa sua.

Intanto che madama si sfogava così a mezza voce coi Segezzi, suo marito sorbiva tranquillamente il caffè, discorrendo con la bella figlia dell’oste. [p. 110 modifica]

Madama Strepponi roteò gli occhi, e fu lì lì per isvenire nelle braccia del signor Segezzi, ma rimandò lo svenimento a miglior comodo, tanto più che in quel momento le servivano il brodo fumante.

Tuffò rabbiosa il cucchiaio nella scodella, rimestò, e si accinse a sorseggiare la bevanda; ma per tener d’occhio il marito, che era sempre in chiacchiere con la ragazza, ingollò senza pensarci una cucchiaiata di brodo bollente.

Un bruciore d’inferno le serpeggiò nello stomaco; accesa di subita rabbia, buttò via tutto, e col tovagliolo al collo scappò come saetta, fulminando al marito uno sguardo avvelenato, e corse a rinchiudersi nella sua camera sbattendo l’uscio come un colpo di cannonata.

Il signor Strepponi non si voltò nemmeno a guardarla; aggiunse un altro pezzo di zuccaro nel caffè, e continuò il suo discorso come se nulla fosse.

Ma madama, affacciatasi un momento dopo alla porta, lo chiamò con uno stridore di voce imperiosa; aveva la faccia verde e contratta, il tovagliolo al collo, i ricciolini abbaruffati, pareva una furia anguicrinita. Chiamò due altre volte con grido rauco, ma il marito non si mosse; accorse invece la seconda figliola dell’oste, e madama strozzata [p. 111 modifica] dalla collera, rientrò precipitosamente in camera, si buttò sbuffando sul letto, e si procurò uno svenimento.

Il signor Strepponi chiamato in fretta, alzò le spalle, prese l’ombrello, ed andò a passeggiare in mezzo alla pioggia torrenziale.

In quella entravano di corsa in cucina il professor Augustini e Carlino.

Erano molli, fradici, inzaffardati fin nella schiena.

Venivano dalle cave di Alzo, dove si erano recati per assistere allo scoppio di una mina.

Si erano messi in marcia alle cinque; il tempo minacciava, e quando erano già lontano incominciò la pioggia. Per un po’ tirarono innanzi intrepidi, sperando che un vento propizio buffasse via il maltempo; ma il rovescione d’acqua li flagellava maledettamente; dovettero cedere, e ridiscesero a precipizio, fendendo la raffica che li acciecava di vento e di piova.

L’ostessa appiccò il fuoco a due fascine di rami secchi, e padre e figlio ritti contro il camino, ravvolti nel chiarore della fiammata, fumicavano come anime del purgatorio.

Il signor Strepponi, stanco di passeggiare nel guazzo della spiaggia, rientrò, e sedette anch’egli [p. 112 modifica] accanto al fuoco, mettendosi in chiacchiere col professore.

I coniugi Gibella sonnecchiavano appollajati contro la tavola; sor Gaudenzio avrebbe pagato volontieri una vistosa mancia per avere il suo soprabito.

In sala i signori Segezzi facevano colazione con caffè e latte: il capitano Errero sul balcone faceva inalazioni di aria fredda e di fumo di sigaro, per scaracchiare la raucedine catarrosa che aveva sempre nel mattino.

— Che tempaccio, — disse il signor Strepponi — e lei, signor professore, si è messo in viaggio!

— Ah, facezie! — rispose il professore — la pioggia fa del bene alle piante ed agli uomini. È la coda di un temporale: questo vento spazzerà via le nubi nella giornata.

— Dio lo volesse! — gemette madama Segezzi, e spedì subito il marito in cucina per avere la riconferma della buona notizia.

— Sa, professore, — disse il signor Segezzi, — oggi deve arrivare la nostra figliola con lo sposo... Purchè non accadano disgrazie, con questo lago!

— Oh se questo tempo mettesse giudizio! venne a dire l’oste col suo grembialone da cuoco; — aspetto [p. 113 modifica] oggi da Soriso una comitiva di signori che già hanno ordinato il pranzo.

Sor Gaudenzio guardò l’orologio; erano le dieci.

Ehm de fa colezion? — chiese a Martina.

Adess? Sem a pena vegnì giù del lett!

Mi gho un frecc de can! — borbottò Gaudenzio guardando in cagnesco verso il capitano che teneva il balcone spalancato.

Si alzò ed andò fuori ad esplorare il tempo. Il vento soffiava di traverso una pioggia fitta e rabbiosa: il cielo era chiazzato di nuvoloni gravidi di bufera, la spiaggia allagata di guazzi e di fanghiglia: il lago plumbeo, flagellato, squassava cavalloni torbidi.

Una raffata di vento gli soffiò sotto la giubba una stretta gelida, buffandogli via il cappello; il povero droghiere co’ suoi calzoni sottili, schiacciati dal vento contro le gambe magre, si avventò di corsa a raccattare il suo tegamino che scappava rotolando nel brago, e rientrò intirizzito in cucina.

— Piove sempre? — chiese il professore.

Par de sì.

Dove te l’è mess el capel? — sclamò Martina.

L’è andà de per lu in la fanga... — rispose [p. 114 modifica] Gaudenzio un po’ stizzito, e senza aspettar altro disse alla moglie:

Mi vò de sura. — Martina lo seguì.

La camera con le finestre spalancate, le cortine gonfie, veleggiava nel vento come un bastimento in alto mare.

Gaudenzio livido, rattrappito, sbatteva i denti per il freddo; chiuse i vetri, afferrò il copripiedi sul letto, e si ravvolse le spalle e la schiena in paludamento da romano, borbottando:

Mi vo no crepà del frecc!

Martina si rannicchiò anch’ella sul sofà rimpannucciata nel suo scialle, e per un po’ si scambiarono qualche parola, poi Gaudenzio, blandito dal tepore del suo peplo, incominciò ad appisolarsi, e madama si addormentò addirittura.

Abbasso l’oste, messo in tentazione dal professore, preparò la polentina, e Carlino se ne fece una scorpacciata da non più stare nella pelle.

Il signor Strepponi, sedotto da quel giallo fumante, rinunziò per la polenta alla sua abituale costoletta. I coniugi Segezzi invece non misero bocca su niente; sospiravano l’arrivo della loro Zina.

Era mezzodì... ancora un’ora, e finalmente sarebbero fuori di pena. Sorbirono un brodo nicchiando [p. 115 modifica] e sospirando il momento, e mezz’ora prima dell’orario si avviarono alla spiaggia in mezzo ad un rovescione di pioggia che pareva un finimondo.

Finalmente, lontano nella fumèa nebbiosa, ecco un punto nero sull’acqua verdastra, e poco dopo il battello col suo fumaiolo, era in vista.

Filava nero, sbuffante come cetaceo sulle onde scompigliate, e quei poveri Segezzi abbracciati sotto l’ampio parapioggia, sussultavano di sgomento ad ogni squasso dell’onde, ad ogni ondeggiamento della chiglia.

Ah finalmente, ecco uno scialle turchino, ecco un fazzoletto bianco che si agita nella nebbia... è la Zina! è la Zina! e i genitori, fuori le loro pezzuole, e giù sventolate frenetiche, senza più badare all’ombrello strappatogli di mano da una raffica.

All’approdo mamma e figliola, babbo e genero, si legarono, si avvinghiarono in un abbraccio, intercettando il passo ad ognuno.

Pregati di scostarsi alquanto, si ritrassero di un passo, e lì, altro aggrovigliamento di abbracci e di baci; finalmente si accorsero dell’acqua che veniva a catinelle, e tutti a braccetto corsero all’albergo.

In un attimo la sala fu ingombra di valigie e di bauli, e dappertutto un chiasso, un frastuono, e nuovi amplessi, e baci, e lagrime che non finivano più. [p. 116 modifica]

Il capitano Errero colto di sorpresa da quella burrasca di tenerezze, sghisciò via nauseato, e preferì passeggiare nella piova.

Madama Strepponi volle ritirarsi nella sua camera, perchè quella sposina, che era entrata come fosse lei la padrona senza salutare nessuno, le era subito diventata antipatica.

Il signor Strepponi, il professore e Carlino, chiacchieravano accanto al fuoco; i coniugi Gibella dormivano ancora nei loro involucri, e così la sala ed il salotto rimasero a disposizione dei signori Segezzi e degli sposi.

La Zina raccontava a sbalzi le vicende del viaggio alla mamma, e questa ad ogni tratto le tappava la bocca con un bacio; la Zina, a sua volta, ribaciava tutti, e senza badare alla bella figliola dell’oste, che era venuta a sbarazzare la roba, si avviticchiò di un balzo al collo del suo Errico, lo acciuffò con impeto felino nei capelli, e gli scoccò un lungo bacio dentro la bocca, mandandoglielo giù nella gola.

I vecchi guardavano sgocciolando di gioia, e la Zina ritornando all’amplesso della mamma, sclamò:

— Mamma, abbiamo sempre fatto così! Ed [p. 117 modifica] era vero. Dopo le nozze, appena fuori della chiesa, gli sposi avevano incominciato a baciarsi coram populo fino a tumefarsi le labbra.

Da Milano a Ginevra, da Ginevra a Orta, in vettura, in strada ferrata, sui piroscafi, nelle chiese, sui campanili, nei pubblici passeggi, dovunque, non avevano fatto che leccarsi, sdilinquire in abbracciamenti, portando sulla piazza come in pantomima la strabocchevole tenerezza della loro luna di miele.

La Zina era una figurettina sciolta, flessuosa; l’occhio mobile iniettato di striscioline sanguigne, visettino sodo, aperto, incorniciato in una inciuffatura fitta di capelli bruni, lucenti, ma nel tutt’insieme, e fin nell’andatura ancheggiante, aveva l’impronta di un temperamento focoso più accessibile alla prepotenza dei sensi, che non alle compressioni ed alle temperanze della buona educazione.

Volere, per lei, era potere, più nessuno rifiatava dinanzi alle sue esigenze; ed ora che aveva nelle mani il suo Errico smilzo, smorto, mingherlino, ella lo baciava, lo succiava, lo adunghiava con tutto l’impeto irruente della sua incontinenza.

— Noi siamo ricchi — gli aveva susurrato in un momento d’ebbrezza — tu non devi pensare che a rendermi felice, ad amarmi, ad abbracciarmi! Al resto provvede il papà. [p. 118 modifica]

E così il professorino che era partito palliduccio, tornò livido, battuto, sfiaccolato dal suo viaggio nuziale, e qualche volta sentendosi pesto, intorpidito, pensava che le indigestioni sono sempre indigestioni, anche quando gli altri pagano il pranzo.

Inutile resistere all’impeto della Zina; quando le montava la fumana, bisognava lasciarsi buttare le braccia al collo dovunque, anche alla presenza di un pubblico internazionale, sul ponte di un piroscafo, alla luce del sole, in mezzo ad una sciamata di viaggiatrici inglesi o russe. Ed il professore a furia di assoggettarsi, a furia di sentirsi ripetere: paga il babbo, aveva perduto fin quel volgare pudore che qualche volta tiene in saviezza anche i cani della pubblica strada.

Mamma Segezzi non sapeva che piangere di consolazione, abbracciava la figlia, il marito, il genero, e tutti e quattro aggruppati in un mucchio, ricominciavano a scoccar baci, facendo accorrere tutti i gatti della locanda e del vicinato.

L’ostessa apparecchiava la tavola nella sala grande; il babbo Segezzi, preso da una vertigine di gioia, corse al pianoforte, che era lì aperto, e sgraffignò sulla tastiera, vaneggiando forse di poterne cavar fuori qualche cosa, e poscia afferrando [p. 119 modifica] Errico per il bavero, lo strascinò allo sgabello, sclamando:

— Suona, Errico!... suona la mia marcia!

La sua marcia era l’entrata dello Sciah Kaimakà dei Due Orsi... Era pazzo per quella roba. Errico intonò la marcia. A quelle vibrazioni il papà Segezzi preso da subita frenesia, abbrancò la moglie per la vita, piroettò con lei un istante ricalcitrando sulle sedie, e sarebbe forse andato oltre, se la Zina non avesse strozzato la musica gettandosi sullo sposo e morsicchiandolo nei baffetti.

L’ostessa diede in tavola la zuppa. Intanto il tempaccio si era acquetato. I nuvoloni gravidi correvano veloci soffiati dal vento, e lontano dietro la torre di Buccione, il cielo torbido si squarciava in una fenditura azzurra.

Il professore e Carlino a quella promessa di sereno, sghisciarono subito nel pantano della spiaggia, e fecero esperienze col fazzoletto a vela sulla direzione del vento.

Gaudenzio e Martina dormivano della grossa, sognando forse il bel sole di Sanazzaro e la quiete domestica del loro botteguccio.

Sor Gaudenzio si svegliò per il primo tutto pesto, ingranchito; sbadigliò stirandosi in ogni senso, e guardò l’orologio. Erano le tre. [p. 120 modifica]

Cospettone! avevano dormito più di quattro ore: una nottata!

Svegliò la moglie, e spalancò la finestra.

Uno sprazzo di sole traforava con un trapano di raggi i nuvoloni, lumeggiando la riviera di aranciato; i culmini, le torri ed i comignoli si ergevano rosei, fiammeggianti, iridescenti stonature, nel cielo bieco e tempestoso.

I Gibella avevano un difficile problema da risolvere. Far colazione alle tre, era troppo tardi, pranzare era troppo presto.

Scesero abbasso in cucina, ma nessuno aveva tempo di guardarli. L’ostessa preparava il caffè per la famiglia Segezzi, la figlia era affaccendata nel preparare una lunga tavola, e l’oste badava ai suoi fornelli perchè aspettava da un momento all’altro la comitiva da Soriso.

I Gibella sedettero contro una tavola, e stettero a guardare il curioso spettacolo che davano gli sposi nella sala, a uscio aperto, senza un ritegno al mondo della gente che vedeva.

La Zina era seduta in grembo allo sposo, babbo e mamma abbracciati ammiravano la figliuola con gli sguardi natanti fra la letizia e la sbornia.

E poi la Zina sporgeva le labbra a trombetta [p. 121 modifica] verso la mammina, e giù una leccata, e poi il babbo e poi lo sposo, e finalmente tutti e quattro a baciuccarsi in un mucchio solo.

Avevano bevuto bene; la Zina aveva vampe nelle guancie e meteore negli occhi, e si avviticchiava con fremiti di pantera al collo del suo Errico.

Ghe n’è pù de purcarii de fa? — sclamò Martina stomacata.

In quella gli sposi attraversavano la cucina correndo su per la scaletta alle loro camere, ed i vecchi dietro, raggianti di maliziosa compiacenza.

Il cielo si rabbujava, ed il vento ricominciava a soffiare.

— Dunque — disse Gaudenzio — mettemes a tavola.

Martina non fece opposizioni, aveva appetito, e mentre l’ostessa apparecchiava, Gaudenzio andò a chiudere il balcone.

Furono subito serviti, e si misero a masticare di gusto senza dirsi verbo.

Un rullo di carrozze sulla piazzetta fece accorrere l’oste.

— Ah finalmente, ecco la comitiva aspettata! — e tutta la famiglia del trattore corse sull’uscio a sberrettarsi e far riverenze. [p. 122 modifica]

Dalle due carrozze fangose sbucarono prima tre giovinotti ed un signore attempato, poi due signore tardive, e tre belle signorine vestite con civettuolo sans gène campagnuolo.

Tutti si riversarono nella sala riempiendola di confusione, di risate e di chiacchierio.

Uno si attaccò subito al pianoforte, e strimpellò una tarantella fragorosa, intanto che le donne si liberavano degli involucri e dei cappellini.

All’apparire dell’oste, colui che stava al piano strozzò la suonata, e si levò gridando:

— Oste! bell’oste! cambroato, è pronto?

— Prontissimo, signor avvocato. Quando credono si può dare in tavola.

— Allora, madame e madamine... ognuna al posto per il pasto!

Quest’avvocato, un giovinone sulla trentina, alto, voluminoso, panciuto, con una doppia pappagorgia di grascia sotto il mento, pareva il brillante della compagnia. Le sue lepidezze, i suoi frizzi, provocavano scoppi di ilarità fragorosa.

Le donne erano già sedute a mensa. Le signorine sgusciate agili, eleganti dai loro soprabiti, avevano nella faccia una giocondità risanciona che non si smorzava mai. [p. 123 modifica]

— Avvocato? — chiese una brunettina — e se domani piove, che se ne farà del suo fucile?

— Oh bella! ammazzeremo i pesci del circondario.

— E gli orsi — aggiunse un altro.

— Ed il lion feroce che va a divorar l’abate!

E lì a questa sortita, uno sbruffo di sghignazzate; e l’avvocato incoraggito, andò più in su sclamando:

— E se non potrò tirare alle belve, giuro che tirerò il collo a tutte le galline che mi verranno fra i piedi!

Le fanciulle si scompisciavano pel gran ridere, e finanche l’oste, pensando al conto, si mise a sghignazzare sgangheratamente.

— Oste, — urlò l’avvocato; — c’è il risotto?

— Sicuro — coi tartufi.

— Tartufi politici?

— No, signor avvocato, tartufi del Monferrato.

— Bravo oste!

«Il tuo detto mi consola,
Prendi, ciappa, corri, vola.
Messaggiero del destin,
Porta chi ’l luganeghin!»

[p. 124 modifica]

Ah che diavolo di un avvocato! che risata clamorosa a quei versi! le donne imploravano: Basta, basta! contorcendosi, e quando la brunetta potè parlare, disse:

— Avvocato... in che opera sono quei versi?

— Un’opera che sto componendo io, e che si intitolerà: Cani e Gatti; ho già pronta la partitura per cano e pianto... cioè no, per pianto e cano!

Tutti scapparono sotto la tavola per non schiattare... Ah che birbo! che faceto!... roba da morire!

Il pranzo filava allegro, tutti erano in vena di appetito; ogni portata andava via spazzata, e l’avvocatone tirando sempre giù l’ultima porzione, non mancava mai di dire all’ostessa rimettendo il piatto vuoto:

— Questo qui lo metta in disparte per domani — oppure: — Assolutamente questo piatto non si può mangiare! — e giù una risata in coro; l’avvocato ne studiava una più bella, e consegnando la tecchia vuota del risotto, sclamò:

— Ehi, cuoco... mettiamoci un po’ di sale!

Figurarsi che risata!

Fuori ricominciava la pioggerella. Il professore e Carlino rientrarono nella locanda di nuovo bagnati, e misero un’altra fascina sul fuoco. [p. 125 modifica]

Intanto l’ostessa spiegava ai Gibella chi erano quei signori che schiamazzavano in sala.

— Quel signore attempato coi mustacchi bianchi, è il procuratore Begozzi, marito di quella signora senza denti che gli sta vicino. Quella signorina bruna è la loro figlia; le altre due signorine sono le figlie di quella signora grossa, che è una parente del procuratore. Quel giovinotto con la barba nera, è figlio del procuratore, fratello della signorina bruna; quell’altro appresso biondo, e l’avvocato grosso, sono amici del figlio Begozzi. Stasera dormono qui, e domani vanno tutti su ad un’alpe per una partita di caccia, e una merenda.

Il capitano Errero, cacciato dalla pioggia, sbucò in cucina, ma vedendo quel bailamme chiassoso, scappò subito nella sua camera.

Di là in sala cresceva il frastuono delle risate: l’avvocato aveva già fatto parecchi brindisi burleschi, saettando a dritto ed a rovescio le sue lepidezze. Quando l’oste chiese se volevano un’insalata di lenti, l’avvocato chiese:

— Sono lenti da miope o da presbite?

Immaginarsi che colpo a quella sortita! Manca poco che una delle signorine rimanesse strozzata da un boccone, e dovette sbruffar via tutto per non soffocare nelle convulsioni. [p. 126 modifica]

Un cagnolino rustico da pagliajo, puntò gli zampini contro l’uscio della cucina ed entrò. Lo seguiva una vecchierella incurvata dagli anni, grondante acqua dalle vesti, malgrado il rozzo parapioggia che aveva nelle mani.

— Oh Janna! — sclamò l’ostessa. — Siete venuta con questo tempaccio?

— Ho portato i funghi — rispose semplicemente la vecchia porgendo un piccolo cestello.

— Poveretta, potevate aspettar domani!

— Venite qui, Janna — disse il professore che già la conosceva — riscaldatevi un poco.

— Grazie, debbo andare, si fa tardi.

— Un buon brodo ed un bicchierino per la Janna! — comandò il professore.

— Grazie, grazie — ed intanto la vecchia disponeva i bei funghi verniciati di piova sul tavolo; poi guardandosi intorno, e non vedendo il suo cane, chiamò:

— Tonì... Tonì? — e la bestiolina accorse con un rosicchio fra i denti.

— Uh! guarda, papà, come è inzaccherato il povero Tonì! — sclamò Carlino, e gli diede una fetta di pane.

Il professore portò egli stesso il brodo caldo alla vecchia, e la forzò quasi a sorbirlo. [p. 127 modifica]

— Questo vi farà del bene, mamma... Come stanno i piccini?

— Stanno sani; grazie, signor professore.

I Gibella guardavano con interesse quella scena, e sor Gaudenzio chiese alla vecchia se aveva molta strada da fare.

Rispose il professore per lei:

— Oh, benchè vecchia la Janna ha buona gamba, ed in meno di un’ora sarà nel suo casolare.

E giacchè pareva che i Gibella si interessassero di quella poveretta, il professore continuò:

— Questa povera donna ha settantacinque anni; aveva un figliolo unico, stuccatore, che morì all’estero lontano dai suoi, e la buona Janna è rimasta qui con la vedova del figliolo, e due bambini sulle braccia.

— E Tonì — aggiunse la vecchia sorridendo e mostrando il cane.

— Sicuro, anche Tonì. E così questa poveretta e la nuora si strusciano per tirare innanzi; e Tonì, povera bestiolina, fa la guardia ai piccini. Non è così, Janna?

— Sicuro, sicuro — rispose lei — anche Tonì fa quello che può, per non esser di più.

Il cane forse capì che gli facevano gli onori, e [p. 128 modifica] si rizzò con le zampe sulle vesti della padrona scodinzolando.

La Janna ringraziò tutti, riprese il suo cesto, e via nella pioggia e nel vento, coi panni bagnati, le gambe secche e nude, le scarpacce slabbrate che bevevano da tutte le parti; e Tonì dietro.

Ho de dag quaicoss? — chiese Gaudenzio intenerito.

Ma sì, povera vecia — rispose Martina; e Gaudenzio fuori, raggiunse la vecchia, le cacciò una lira in mano, e indietro subito, senza lasciarsi ringraziare.

Annottava, e pioveva sempre.

L’ostessa portò lumi in sala, ed accese la lampada della cucina.

Giacchè quei signori non lasciavano in libertà la tavola grande, bisognava rimediare alla meglio per gli altri che avevano ancora da pranzare.

Nel salotto c’era posto appena per la famiglia Segezzi e gli sposi; per i coniugi Strepponi, ed il professor Augustini e Carlino, fu imbandita la tavola che era in fondo della sala grande, vicino al pianoforte.

Il capitano volle esser servito in camera. I Gibella, che già avevano pranzato, stettero volontieri in cucina. [p. 129 modifica]

Madama Strepponi sulle prime non voleva adattarsi a prender posto in sala, dacchè quei signori ammorbavano l’aria coi sigari; ma finalmente piuttosto che adattarsi in cucina, si rassegnò.

Il professore e Carlino diedero il buon esempio sedendo per i primi, dopo di aver salutato la compagnia della tavola grande.

Madama Strepponi fece la sua entrata in sala inchinandosi con sussiego matronale, e così il signor Strepponi potè finalmente mettere i piedi sotto la tavola, vicino a Carlino che già aveva sbarazzato la sua zuppa.

Nel salotto gli sposi Segezzi già si facevano le moine ed i baci.

Fuori l’aere era nero, ed un ventaccio di tramontana uggiolava nelle gole dei monti.

I commensali della tavola grande erano stracchi di allegria, il procuratore Begozzi, intorpidito dalla digestione laboriosa, rispondeva con una grinza di sorriso alle lepidezze dell’avvocato, ma aveva gli occhi impappinati di sonnolenza.

L’ostessa buttò sul tavolo alcuni giornali arrivati di fresco: c’era il Secolo, il Fischietto, un fascicolo di viaggi, ed un giornaletto di provincia.

Le damigelle ghermirono i fogli illustrati, si [p. 130 modifica] strinsero in un mucchio per guardare le vignette, e l’avvocatone prese un giornaletto sclamando con motteggio:

— Oh vediamo gli affari d’Europa su questa carta da caramella.

Nell’altra tavola i coniugi Strepponi mangiavano taciturni; il professore e Carlino, che già avevano cenato, sfogliazzavano un album di musica.

— Oh ecco qui, — saltò a dire l’avvocato, — ecco qui una notizia che mi slarga il cuore, e che soffierà via il cattivo tempo!

Tutti si misero sull’attenti, ed egli con declamazione comica, lesse forte:

Novara. «Domenica la democrazia Novarese celebra solennemente l’anniversario della battaglia del Volturno, con intervento, ecc. ecc. — Il venerando Benedetto Cairoli, Bajardo italiano, prenderà parte alla festa con una rappresentanza della gloriosa schiera dei mille, e tesserà nel teatro Sociale la commemorazione del memorando avvenimento!...» E stette lì in posa, con le braccia aperte; poi imitando il Ferravilla, sclamò con voce fessa: Oh che bella festa, che bella festa! ci voglio andare coi miei cari genitori!

Tutti proruppero in una risata. [p. 131 modifica]

— Piano piano, signorine! — vociò l’avvocato, — non c’è da ridere, quando abbiamo un Baiardo venerando, che tesserà un memorando!

Le signorine allora risero più forte.

— Ecco una bella occasione, questa del Volturno, per fare una partita di caccia, — disse il figlio Begozzi.

— Come come? — tuonò l’avvocato, — non andrai a vedere il memorando? Oh bisogna anzi andarci a questo Volturno... non foss’altro che per assaggiare le polpettine del cavalier Porazzi!

Queste parole dette con gravità, suscitarono un gazzurro di ilarità sfrenata.

Il professore Augustini dall’altra tavola levò di scatto la faccia, e squadrò la comitiva attraverso ai suoi occhiali.

Ma nessuno ci fece caso.

Papà Begozzi prese la parola, smorzando l’allegria con la sua serietà di padre di famiglia.

— Lasciamo andare; queste feste sono piazzate belle e buone, — disse; — la gente oramai ha ben altro da pensare che al Volturno.

— Fosse per Marsala! — interruppe l’avvocato.

— Ma che Marsala! — sclamò il procuratore, — anche a Marsala se non c’era l’Inghilterra.... basta, lasciamola lì... [p. 132 modifica]

— Protesto, protesto! — gridò l’avvocato comicamente, — io lascio andare il Volturno, ma per il Marsala, santo Dio, ho proprio una debolezza. Marsala è una gloria d’Italia..... come il Gattinara del sessantacinque!...

La comitiva scrosciò tutta quanta in una risata.

Il professore Augustini voltò un foglio di musica con una strappata violenta, e rivolse di nuovo la faccia fiera verso quei signori.

Il grosso avvocato si accorse di quel brusco movimento, si volse, ed incontrò gli occhiali del professore scintillanti nel vuoto; indi con aria di fare una bravata, e misurando forse la sua autorità dal suo pranzo inaffiato di vini generosi, ricominciò la burletta sullo stesso argomento.

Il professore sudava; si sbottonò il solino, e sfogliazzava nervosamente i fogli della musica; ma l’avvocato, come se proprio avesse intenzione di urtare una suscettibilità, andava dritto a dir corna, ed a mettere stupidi sottintesi sulla leggenda garibaldina, volgendo in una sconveniente comicità le cose più serie.

— Lasciamo stare Garibaldi, — interruppe il signor Begozzi che prendeva le cose sul serio; — lui come lui, era un galantuomo! [p. 133 modifica]

— Meno male! — rispose una voce dal fondo; era il professore che non ne poteva più.

— Il signore è di questo parere? — chiese l’avvocato con tono alto, voltandosi a mezzo verso il professore.

— Ho quest’onore! — ribattè secco Augustini; e poi come pentito di essersi lasciato tirare, rituffò la faccia sul fascicolo che aveva dinanzi.

Seguì un breve silenzio. Per un istante si sentì il vento di fuori, e la pioggia che rullava sui tetti.

Ma l’avvocato non poteva certo tollerare l’intrusione di quell’estraneo dalla giacca di tela, e dopo di aver tirato due boccate di zigaro nel silenzio, borbottò in tono di sdegnosa autorità:

— Del resto, le opinioni sono libere... e non è il caso nè di approvare, nè di commentare i nostri discorsi!

Il professore si sentì crispare i nervi, nondimeno non potè disconoscere che quella stoccata aveva un fondo di ragione; si fece forza, e tacque.

Così fosse bastato allo spiritoso avvocato; ma costui abusando della prudenza dell’avversario, e credendo forse di averlo intimorito, volle ancora ribattere un: mi meraviglio! così accentuato che pareva uno schiaffo. [p. 134 modifica]

— Mi meraviglio di lei! — scattò a dire il professore, protendendosi con tutta la vigorosa persona verso il turgido avvocato.

— Mi meraviglio di lei, — ribattè ancora, battendo una mano sulla tavola: — qui siamo in luogo pubblico, e non è lecito tenere un simile linguaggio! Le cose che a lei paiono buffonate, per me sono degne di venerazione. Rispetto per rispetto!

Il tono, il gesto, il saettare degli sguardi del professore erano così virilmente affermativi, che l’avvocato si sentì nella pancia un tuffo di smarrimento, e per un attimo gli parve che la giacca di tela del suo interlocutore, avesse lucori e tintinnii metallici, come maglia di arciere medioevale; e vedendo quella maestosa figura in atto di librarsi su lui, si strinse nelle spalle, borbottando incomprensibili parole.

Il procuratore Begozzi si interpose bonariamente per sedare la cosa, e credette di mettere acqua sul fuoco, dicendo che quanto a rispettare Garibaldi erano tutti d’accordo; e che l’avvocato con le sue parole voleva alludere ai tanti scalzacani che si aggiravano intorno alla grande figura del generale.

Peggio che peggio!

— Ho l’onore di dirle, — tuonò il professore, — che anch’io sono uno di quegli scalzacani, e me ne vanto! [p. 135 modifica]

E si diede uno schiaffo sul petto, che guai se lo dava ad un altro!

— Ma no! Ma no!... — ripigliava il signor Begozzi: — santo Dio, non c’intendiamo! Si voleva dire che in mezzo ai buoni, come dappertutto, si infiltrano anche i guastamestieri.

Saltò su il figlio Begozzi inviperito come un galletto, e ringhiò al professore:

— Infine si parlava fra di noi, e lei non è stato richiesto.

E l’avvocatone riavutosi dal primo sbalordimento, in piedi anche lui gridando:

— Insomma lei faccia il suo affare, noi facciamo il nostro!

— È giusto, — rispose il professore con una calma che bolliva di sotto; — è giusto... desidero anch’io di finirla — riprese fra le mani il suo fascicolo di musica e si rimise a leggere, ma con un tremito di convulso che lo sconquassava.

Quella specie di ritirata imbandalzì viepeggio l’avvocato, che volle lanciare un’ultima ed inutile rodomontata sclamando:

— Meno male che ci siamo intesi! — ma con un tono che voleva dire: se non la finisce, glie la faccio finire! [p. 136 modifica]

Almeno così l’intese il professore Augustini, giacchè di un balzo, come se gli avessero assestato un gran colpo di frusta, saltò in mezzo della sala rovesciando con fracasso la sedia; e puntandosi con tutta la persona sull’avvocato massiccio e sbalordito, gli scaricò a bruciapelo questa pistolettata:

— Signor mio; io sono professore di fisica, ma quando è del caso, dò anche lezioni di buona creanza!

— Mi maraviglio! — urlò l’avvocato disorientato dalle occhiate di basilisco che il professore gli saettava.

— La finisca! — gridò il figlio Begozzi coi pugni chiusi; e tutti in piedi si precipitarono sui contendenti per separarli.

Carlino si era aggrappato alle falde del padre, abbracciandolo per calmarlo.

Tutti sossopra. Sulla porta la famiglia dell’oste, i Segezzi ed i coniugi Gibella, si pigiavano per vedere la scena. Madama Strepponi, che era seduta lì a due passi, non ebbe nemmeno il coraggio di svenire.

L’avvocato stette sulla sua sedia per darsi aria di indifferente, ma per un minuto ebbe timore che il furente professore gli sfracellasse la testa con un pugno. [p. 137 modifica]

Invece il professore parve rimettersi tutto in un tratto, e tirandosi giù il panciotto che si era fatto corto, con voce tremante, affogata, e con una calma esagerata che non tranquillava nessuno, prese la parola così:

— Sentano, signori — disse — sono andato in collera, ed ho fatto male. Ognuno ha le sue predilezioni, e fin lì, niente di male... ciascuno a modo suo, e secondo la sua natura. Ma io trovo strano che persone del loro grado commentino con tanta leggerezza dei fatti che onorano il nostro paese; trovo sconveniente che si offendano le nostre più sacre memorie, in presenza di un adolescente come questo figliolo!

L’avvocato voleva mettere una virgola, ma il professore gli tappò la bocca alzando maggiormente il tono della voce.

— Oh via... lasciamo andare; ella non ha il culto di queste cose... e sia. Ognuno sente come può; ma non è lecito faceziare con tanto cinismo sopra sentimenti che per altri sono articoli di fede.

E qui il professore accendendosi in una concitazione che gli raggiava faville dagli occhi, e sudore da tutti i pori della testa infiammata, montò su alla severità della requisitoria, e sempre scaraventando [p. 138 modifica]la sua parlata sulla faccia dell’avvocato, attaccò la stretta.

— Ma non sa lei che Marsala è una sfolgorante pagina della nostra epopea?... Ma non sa lei che questa povera Italia è santificata col sangue de’ suoi figli? Non sa lei che da Emanuele De-Deo ai Ruffini, ai Manara, ai Mameli, dai Fratelli Bandiera ai De-Cristoforis, ai Bronzetti, ai Cairoli, intercede una santa processione di migliaja e migliaja di martiri? — Ma non sa lei, non sanno loro signorine — urlò volgendosi alle damigelle che si davano aria di gnorri — non sanno, signorine, che si ebbe una falange di madri, di sorelle e di spose, che si videro seppellire nelle galere, o impiccare come manigoldi i loro cari, colpevoli non d’altro che di amare il loro paese? Oh che, siamo forse turchi o selvaggi addirittura per ignorare queste cose? E se non le sanno, da bravo lei, signor avvocato, risparmi un caffè e comperi un volume della nostra Storia Nazionale; c’è tutta una letteratura, spicciola, popolare, dai volumi di Jessie Mario alle cesellature storico-letterarie di Giovanni Faldella... Regali uno di quei volumi a queste belle signorine che leggeranno forse Zola, Daudet, De-Goncourt; ed impareranno che anni addietro in Italia le fucilate non si [p. 139 modifica] tiravano tutte alle pernici... impareranno che vi furono falangi di giovani che si svelsero dalle braccia della mamma piangente, per farsi sfracellare sui campi di battaglia. — Queste sono belle, sono magnanime cose!... altro che facezie e galanterie! Questi, per Dio, sono uomini! e quando non si abbia l’animo di onorarli ed ammirarli, bisogna avere almeno il pudore di rispettarli!

— Bravo Caballeros! — ruggì dalla cucina il capitano Errero, il quale fattosi largo fra la gente che si pigiava sull’uscio, entrò con franchezza di torero nella sala, e strinse tutte due le mani al professore:

Adelante! Adelante! Bravo professor; questo es un discorso degno de la prensa, degno del nostro Castellar. Vero come est vero che la tierra est calentada per el sol!

Nè il procuratore Begozzi, nè gli altri della comitiva rifiatarono; già da un pezzo si erano detto a segni ed occhiate, che quel professore era uno dei soliti scaldapopoli attaccabrighe, e conveniva lasciarla lì. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Di fuori sempre un rovescio di vento e piova che pareva un finimondo. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . [p. 140 modifica]

Alle dieci la locanda era buja, e l’oste stracco, ammazzato dalla fatica e dal fornello, si spogliava per mettersi a letto, e ragionando con la moglie sul caso della sera, tirò questa conclusione:

— Un paio di avventori come questo professore, ed in meno di un anno, andiamo tutti al ricovero.