Zecche e monete degli Abruzzi/Atri

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IV.


ATRI.


Antonio di Matteo, dell’antica e potente famiglia degli Acquaviva, investito nel 1382 da Cario di Durazzo della contea di S. Flaviano, e dopo l’84 di quella di Montorio tolta ai Camponeschi, fattosi nel 90 signore di Teramo, mediante il massacro di Antonello Della Valle da essolui perpetrato con Enrico di Melatino, ebbe in premio dei servigii resi ai durazzeschi, il dì 20 giugno 1393, a titolo di vendita e collo sborso di quindicimila ducati, il feudo ducale di Atri. L’alto dominio di quella terra, capoluogo di cantone nel I Abruzzo ulteriore, riteneva competere alla S. Sede il sommo pontefice Bonifazio IX; ondechè ad Alberico di Barbiano gran contestabile del regno ed a Francesco Dentice maresciallo, incaricati da re Ladislao di effettuare la vendita e la infeudazione del nuovo ducato all’Acquaviva, convenne prima ottenere l’assenso del papa1. Questo fa agevolmente accordato, perciocchè l’anno medesimo Andrea Matteo, figliuolo di Antonio, menò moglie una nipote di Bonifazio. Ma Andrea Matteo, succeduto al padre intorno al 1394, aspirando con altissimi intendimenti a dilatare il suo stato, accolse nel 93 le offerte dei fuorusciti ghibellini di Ascoli, d’insignorirsi della loro città; e dopo energica resistenza dei guelfi, la fece sua, e la ritenne finchè gli abitanti, sollevatisi, ne lo cacciarono intorno la metà del febbraio 1396. Nel quale effimero reggimento di Ascoli, il duca d’Atri improntò monete segnato [p. 60 modifica]del proprio nome2. Reduce in Abruzzo, perdette poco stante Montorio, ritornata ai Camponeschi; e visse caldeggiatore della causa di Ladislao contro Lodovico II di Angiò fino al 1407, nel qual anno fu pugnalato a Teramo dai Melatini. Antonio, figlio e successore di lui, secondo duca di questo nome, seguendo le stesse parti, cadde nel 1411 prigioniero di Lodovico alla battaglia di Roccasecca; ma ridatagli dopo non molto la libertà, condusse giorni pacifici fino al 1415, in cui morì senza prole, lasciando erede il fratello Pierbonifazio. Costui, sette anni addietro, mentre Antonio stava a’ servigii di Ladislao, si aveva, unitamente all’altro fratello Giosia, presa aspra vendetta della morte del padre, avendo a Teramo fatti arrostire e squartare i capi dei Melatini; nulla però sappiamo del suo breve governo di Atri, che nel 18, fornito il viver suo, trasmise nel figlio Andrea Matteo II.

Nei primi anni di questo duca, le due fazioni degli Antonelli e dei Melatini desolarono Teramo, dove sembra ch’egli, tuttavia fanciullo, niuna autorità valesse ad esercitare. Giovanna II, il 1421, donò questa città a Braccio da Montone, dopo la di cui morte ne venne in possesso Giosia Acquaviva, acquistandola dalla madre e tutrice del nipote suo, spalleggiato dai Melatini e consenziente la regina. Andrea Matteo nel 38 era fra’ baroni che tenevano da Renato di Angiò contro Alfonso di Aragona, e l’anno medesimo, addì 5 agosto, stipulava un trattato di alleanza con Francesco Sforza, che nel 39 gli diede la propria figlia Isolea in isposa. Renato dovè soccombere nella lotta; nè Alfonso lasciò di punire i baroni che aveano alzate le bandiere nemiche, spossessando anche Andrea Matteo d’ogni stato, siccome ribelle e fellone, e investendo del feudo nobile di Atri, quasi de novo feudo, lo zio Giosia con diploma del di 22 luglio 1446, juribus jurisdictionibus meroque et mixto imperio ae gladii omnimoda potestate3. [p. 61 modifica]

Re Alfonso, aderendo alte preghiere dei cittadini, che rappresentavano non poter vantare diritto alcuno sopra la loro patria un uomo che se n’era insignorito per opera di partiti e mediante guerre civili, avea dichiarato Teramo devotata al regio demanio. Giosia, non sapendo tollerare cotale sminuimento del suo potere per opera di un principe a cui si era serbato sempre fedele, e con cui avea divisa nel 1455 la prigionia, collegatosi allo Sforza, tentò indarno di ricuperare quella città; e battuto dalle regie truppe, perdette anche il ducato di Atri. Lo riebbe poi nel 59, allorchè Giannantonio Orsini principe di Taranto indusse il re Ferdinando a restituire tutt’i feudi, de’ quali il padre suo aveva spodestato l’Acquaviva. Ma Giosia, sia che ambisse di dilatare ancor più i suoi dominii, sia che si ritenesse svincolato da ogni ufficio di fedeltà verso un re sforzato dall’autorità di un barone ad accordargli una grasia che non aveva implorata, non decorsi pur anco due mesi dalla sua restituzione nei feudi aviti, parteggiava armata mano per Giovanni di Angiò; e calpestato ogni riguardo, moveva a sconvolgere le terre del pontefice limitrofe agli Abruzzi, ed assaliva inutilmente Ascoli, per toglierla a Pio II, alleato degli aragonesi. La fortuna, da principio prospera all’angioino, gli si fece avversa quando i Sanseverini unirono le loro armi a quelle di re Ferdinando. Nulla lasciò Giosia intentato per mantenersi in Abruzzo, ma Teramo fu presa il 18 ottobre del 61, e il popolo ne smantellò la cittadella. Matteo di Capua attaccò allora da tutte le parti le poche forze dell’Acquaviva, cui peraltro bastò l’animo di riparare colla sua famiglia nella rocca di Cellino, e di sostenervi l’assedio, fino a che morì di peste il 22 agosto 1462. Giulio Antonio, che gli fu figliuolo e successore, depose le armi l’anno seguente, e venne da re Ferdinando ricevuto in grazia, e armato cavaliere dell’armellino; e dopo la dipartita di Giovanni d’Angiò, ricomposte le cose del travagliato reame, riebbe eziandio per investitura del 6 gennajo 1464 il ducato di Atri rinunciatogli da Matteo di Capua, infeudatone per le sue benemerenze dal re fino dal 27 gennajo del [p. 62 modifica]sessantadue, ricevendone Matteo in compenso, con altre, la terra di Gesso. Giulio Antonio non mancò mai alla fede giurata all’aragonese, e nell’81 morì combattendo i turchi nel memorabile assedio d’Otranto, sotto le cui mura anche Matteo di Capua trovò eroica e gloriosa morte.

Niun dubbio pertanto che la moneta di Giosia Acquaviva, che do incisa al n. 28, sia stata da lui coniata tra il 59 quando, rimesso da Ferdinando ne’ suoi stati, parteggiò per Giovanni, e il 62 quando Atri, toltagli da Matteo di Capua, fu dal re donata a questo suo valoroso condottiere e vicerè di Abruzzo. È dessa un bolognino d’argento, del peso di acini 15, e porge dall’uno dei lati la epigrafe *iosias*d*aqva* terminata nell’area dalle lettere viva disposte in croce, e preceduta da un leoncino saliente, ad indicare lo stemma degli Acquaviva, leone saliente in campo d’oro; dall’altro lato è la scritta *dvx*adrie* e nell’area una grande A fra quattro stelline, postavi o perchè iniziale del nome di Atri, o piuttosto per imitare que’ bolognini che allora stampavansi in tante zecche del centro e del settentrione d’Italia, dei quali era segno caratteristico quella lettera nel mezzo del campo.

Se nuova riescirà a molti la moneta di Giosia, non potrà dirsi altrettanto di quella, parimente d’argento, ma da due bolognini, di Matteo di Capua, pubblicata fino dal 1767 dal Bellini4, della quale offro al n. 29 l’intaglio ben più diligente che l’erudito ferrarese non diede, avendolo io ricavato dall’esemplare che ne conserva il medagliere del Vaticano, dove ebbi agio di esaminarla, insieme all’altra di Giosia, per la gentile condiscendenza del professore Pietro Tessieri. Pesa acini 27, e dal diritto ci mostra la croce circondata dalla epigrafe :m:d':capva:dvx:adrie preceduta da uno scudetto coll’arme della casa di Capua, in campo d’oro banda nera listata d’argento; dal rovescio un santo vescovo ritto e di faccia, che stringe nella manca una lunga croce e coll’altra benedice, e il suo nome all’intorno [p. 63 modifica]• s*nicolavs. Questa moneta dovette improntare Matteo fra il gennajo 1462 e il gennajo del 64, cioè da quando fu investito del ducato d’Atri, fino a che lo rendette al figliuolo di Giosia, ricevendone in cambio altre terre.

L’aver finora ignorato la esistenza della moneta di Giosia Acquaviva fece ad alcuni eruditi revocare in dubbio anche quella di Matteo di Capua; adesso però non si esiterà più ad ammettere fra le zecche italiane l’atriana, della quale vedemmo i preziosi cimelii. Donde poi essa riconoscesse la origine, è un’altra quistione. Assonando alla sua durata il periodo dal 1459 al 64, l’epoca cioè della prima congiura dei baroni contro di Ferdinando I, noterò come altre zecche vicine, che in quel torno furono aperte, non furono per concessione di principe o di pontefice, ma sì veramente per arbitrio delle università o dei baroni. La origine della zecca d’Atri di Giosia Acquaviva è contemporanea pertanto a quella di Sora, attivata da Piergiampaolo Cantelmi, ambidue ribellanti signori, che nei loro feudi non si riguardavano più vassalli della casa di Aragona, nè della Chiesa; nonchè a quelle di Chieti e di Civitaducale, del pari arrogatesi, com’è da presumere, da que’ comuni. Qual meraviglia se Matteo di Capua, investito del ducato d’Atri con amplissime giurisdizioni, continuò a coniarvi moneta, egli che nel suo vicereame lasciava operare la zecca municipale della sua residenza di Chieti? La rappresentazione poi del san Nicolò, che d’Atri non fu mai patrono, in vece di quella di santa Reparata o dell’Assunta, non dee farci specie; conciossiachè la scelta del santo da effigiare sulle monete dipendesse alle volte da qualche particolare divozione di chi le taceva coniare, come accadde verbigrazia nei bolognini di Guardiagrele, sui quali Napoleone Orsini volle posta la imagine di san Leone, in cui onore aveva murata e dotata una cappella in quella terra.

E giacchè cade il discorso sopra le zecche aperte intorno al 1460 per atto arbitrario dei comuni o dei feudatari, sarà prezzo dell’opera l’accennare la costituzione pontificia di Pio II, concernente appunto l’illegale esercizio della moneta nelle [p. 64 modifica]terre contigue agli Abruzzi, sui quali pure, come su province di regno vassallo alla Chiesa, il pontefice vantava l’alto dominio: Ad audientiam siquidem nostram fide dignorum relatione pervenit, quod nonnulli barones, proceres, nobiles, terrarum et locorum domini, nobis et Romanae Ecclesiae subjecti, seu vicarii terrarum et castrorum eorundem in provinciis nostris Marchiae Anconitanae, Massaetrabariae, Romandiolae, ducatus Spoletani, patrimonii b. Petri in Tuscia, terrarum Arnulforum et specialis commissionis, Maritimae et Campaniae, nec non communia civitatum et universitates terrarum et locorum in tantam prorumperint audaciam quod, absque nostra et Sedis Apostolicae licentia speciali, monetam auream, argenteam vel aeream cudere et cudi facere, illamque etiam falsam clam et palam expendere praesumunt; mosso da cosiffatte considerazioni, il pontefice vieta sì alle università come ai baroni di continuare nell’arbitrario esercizio della moneta, obbligandoli a riportarne previamente l’assenso della S. Sede. Tale costituzione reca la data di Roma il XVII dì alle calende di febbrajo degli anni 14635.






Note

  1. R. Archivio di Napoli. Reg. 1392-1393, fol. 141.
  2. De Minicis, Numismatica ascolana, Fermo 1853, p. 14, tav. I, n. 7.
  3. R. Archivio di Napoli. Repert. Prov. Aprut. cit. et ult.
  4. Bellini, Altera dissertatio, p. 1 e 2.
  5. Garampi, o. c., doc. XXXI. — Zanetti, Nuova raccolta delle monete e zecche d'Italia, Tomo II, Bologna 1779, pag. 344, nota a.