Wittgenstein e la filosofia trascendentale del linguaggio/Parte prima. La filosofia del Tractatus come filosofia trascendentale

Parte prima. La filosofia del Tractatus come filosofia trascendentale

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Parte prima. La filosofia del Tractatus come filosofia trascendentale
Introduzione Parte seconda. La filosofia dell'ultimo Wittgenstein come filosofia trascendentale

1.1 Premessa metodologica. Parlare del Tractatus

Il Tractatus di Wittgenstein è per molti aspetti un testo filosofico sui generis. Nella Prefazione, l’autore scrive che «il libro tratta i problemi filosofici e mostra – come credo – che la posizione di questi problemi nasce dal fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Si potrebbe riassumere all’incirca l’intero senso del libro nelle parole: ciò che può essere detto può essere detto in modo chiaro; e di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» (TLP Pref.). Il Tractatus assume dunque la forma di una critica del linguaggio (cfr. TLP 4.0031): lo scopo che esso si propone è quello di portare a evidenza come il linguaggio comune nasconde le vere strutture del pensiero e come l’incapacità di riconoscere e comprendere tali strutture al di là del velo della Umgangssprache è la radice di tutte le domande e le risposte filosofiche, che quindi «sono per la maggior parte non false, ma insensate» (TLP 4.003a).

Il lato costruttivo di questa Sprachkritik consiste nel tentativo di isolare, al di là della logica apparente della proposizione, la sua logica reale, e così facendo di comprendere in modo adeguato ciò che ai filosofi invece costantemente sfugge. Un linguaggio che obbedisca sistematicamente, invece di travisarla a ogni piè sospinto, la logica che sola dà senso alle proposizioni sarà un linguaggio in cui tutto ciò che può essere detto può essere detto in modo chiaro e univoco, mentre tutto ciò che non può essere detto risulterà non delegittimato a esprimersi, ma impossibilitato a farlo (se una proposizione sia dotata o priva di senso si vedrà cioè non da un confronto con un criterio normativo ulteriore, ma dalla forma della proposizione stessa).

Lo sforzo di Wittgenstein consiste per gran parte nell’elaborazione di «un linguaggio segnico, dunque, che obbedisce alla grammatica logica – la sintassi logica» (TLP 3.325). Egli, richiamandosi al lavoro di Frege del quale quello di Russell era, per molti versi, una prosecuzione, parla anche di «Begriffsschrift», o «ideografia», con riferimento appunto a un linguaggio che traduce puntualmente le forme del pensiero anziché tradirle.

La concezione fondamentale del funzionamento del linguaggio su cui si basa la costruzione dell’ideografia nel Tractatus è il principio della natura raffigurativa del linguaggio, l’idea cioè che «ci facciamo immagini dei fatti» (TLP 2.1) e che «la proposizione è un’immagine della realtà. La proposizione è un modello della realtà così come ce la rappresentiamo» (TLP 4.01). Le proposizioni sensate sono quelle la cui struttura è tale da permettere loro di raffigurare un fatto possibile; le proposizioni insensate sono quelle nella cui struttura qualcosa viola la forma della raffigurazione, e che dunque non arrivano nemmeno a essere false, come sarebbero se fossero immagini un fatto che non si verifica, bensì non sono immagini affatto, e sono semplicemente mal assemblate, o, per così dire, assemblate con parti difettose.

Sui dettagli della teoria del linguaggio come immagine, sulla differenza tra ciò che il linguaggio dice e ciò che in esso si mostra, e sul rapporto gnoseologico e ontologico tra il raffigurante e il raffigurato, tornerò distesamente più avanti. Ciò su cui voglio soffermarmi qui, a titolo di riflessione preliminare e propriamente di premessa metodologica, è il problema delle conseguenze che la distinzione delineata dal Tractatus tra quello che ha senso e quello che ne è privo ha sulla valutazione del Tractatus stesso. La grande difficoltà di trarre queste conseguenze è, in sintesi, ciò che rende il testo di Wittgenstein un testo filosofico sui generis.

L’ideografia che il Tractatus teorizza deve rendere possibili tutte e sole le raffigurazioni di fatti possibili, ciò che contestualmente rende impossibile formulare domande che non ammettano una risposta con la forma dell’affermazione o della negazione che un fatto sussiste. Una prima classe di argomenti dei quali perciò, secondo il Tractatus, non si può parlare è quella che comprende le proposizioni, o piuttosto pseudo-proposizioni, dell’etica e dell’estetica. Un valore, nel senso etico o estetico, non può trovarsi nel mondo, al cui interno non vi sono che fatti il cui accadere è perfettamente contingente; e se il valore si trova al di fuori del mondo esso non può essere espresso da alcuna proposizione sensata, poiché una proposizione sensata è l’immagine di un fatto all’interno del mondo. Se il valore etico – il senso della totalità, che può anche chiamarsi Dio (cfr. TB 11.6.16) – e quello estetico – lo stupore sublime per l’esservi di ciò che vi è (cfr. TB 20.10.16) – hanno a che fare con il che del mondo, non con il come del mondo (cioè con il sussistere di fatti al suo interno), ciò vuol dire anche che intorno a essi non può essere detto niente di sensato (cfr. TLP 6.44). Il che del mondo si mostra nelle proposizioni che ne descrivono il come, e, benché sia presupposto da esse, non può essere enunciato. Una seconda classe di proposizioni che, per un motivo profondamente interconnesso con questa distinzione tra ciò che si mostra nel linguaggio e ciò che il linguaggio dice, non possono formularsi è composta dalle proposizioni metadiscorsive, che pretendono di parlare della logica e non solo secondo la logica.

In breve, quando Wittgenstein sostiene che le proposizioni della filosofia stanno sopra o sotto le proposizioni della scienza naturale, non accanto a esse (cfr. TLP 4.111b), e quando sostiene che la filosofia non è una teoria che dà luogo a proposizioni vere, ma un’attività che dà luogo al chiarificarsi di proposizioni (cioè al rendersi evidente la loro sensatezza o insensatezza; cfr. TLP 4.112), egli squalifica in quanto proposizioni prive di senso anche le proposizioni del Tractatus. Egli non ritiene che il suo libro sia il primo libro di filosofia a dire cose valide, bensì auspica che esso sia l’ultimo libro di filosofia, quello col quale diventa impossibile per chiunque ignorare che nessun libro di filosofia può dire cose valide. «Le mie proposizioni chiarificano qualcosa perché colui che mi comprende le riconosce, alla fine, insensate, quando egli attraverso esse – su esse – è salito oltre esse. (Egli deve per così dire gettar via la scala dopo esser salito grazie a essa.)» (TLP 6.54).

Si vede facilmente l’enorme problema che ciò pone: se le proposizioni del Tractatus – e non solo quelle in cui fuggevolmente, verso la fine, si presentano i temi del soggetto, della volontà, della bontà e della bellezza, ma anche tutte quelle in cui, a partire dalla prima sezione, si parla di quelle strutture del mondo che si esibiscono nelle strutture del linguaggio e di quelle strutture del linguaggio che mostrano se stesse, ma non possono descriversi – se tutte queste proposizioni sono prive di senso, allora come possono essere comprese? Come possono alla stregua di una scala – non importa che essa poi debba essere gettata – portarci più in alto di dove ci trovavamo all’inizio? E la stessa teoria del linguaggio come immagine è priva di valore per il fatto di non poter essere formulata se non da un testo che la contraddice?

La soluzione a tali questioni non è semplice; sono possibili diverse interpretazioni delle conseguenze della dottrina della sensatezza di Wittgenstein sulla sensatezza della dottrina di Wittgenstein e a seconda di quale si predilige il modo in cui si interpreta il Tractatus nel suo complesso cambia considerevolmente.1 (È per questo che mi è sembrato importante iniziare questo saggio con alcune considerazioni proprio su tale argomento: poiché già solo parlare del Tractatus implica quasi immediatamente una presa di posizione circa la questione se le sue proposizioni abbiano senso, in che senso ce l’abbiano o meno, e comunque in che modo comunichino, ho creduto bene renderla subito esplicita.)

Attraverso tutto il Tractatus, Wittgenstein traccia una distinzione piuttosto netta tra quello che è il «linguaggio comune», che usiamo con la stessa incoscienza con cui respiriamo (cfr. TLP 4.002), e il «linguaggio logicamente adeguato»2 che si esprimerebbe in una ideografia opportunamente costruita (cfr. TLP 3.325). Leggendo il testo risulta possibile partire da questa distinzione per chiarire numerose ambiguità delle formulazioni di Wittgenstein, il che conferma che egli operi con due distinte nozioni del linguaggio anche là dove non vi fa esplicito riferimento.

L’esempio più evidente di questa duplicità, e del modo in cui può essere risolta felicemente, è fornito dal confronto delle proposizioni 6.53 e 6.54. In TLP 6.53 Wittgenstein scrive: «Il metodo corretto della filosofia sarebbe propriamente questo: non dire niente se non ciò che può essere detto, cioè proposizioni della scienza naturale – cioè qualcosa che con la filosofia non ha niente a che fare –, e poi tutte le volte che qualcun altro volesse dire qualcosa di metafisico provargli che a certi segni nelle sue proposizioni egli non ha dato alcun significato. Questo metodo sarebbe per l’altro insoddisfacente – egli non avrebbe il sentimento che noi gli insegniamo la filosofia – ma esso sarebbe l’unico rigorosamente corretto». Una filosofia del genere, ammesso e non concesso che possa chiamarsi filosofia, opera con un linguaggio logicamente adeguato, che utilizza per formulare proposizioni della scienza naturale che mostrano la propria sensatezza (che, propriamente, mostrano il loro senso); e nei termini di questo linguaggio le proposizioni della metafisica non arrivano nemmeno a poter essere enunciate (il tentativo di farlo dà luogo a pseudo-proposizioni la cui mancanza di senso è impossibile da non notare). In TLP 6.54 per contro si legge: «Le mie proposizioni chiarificano qualcosa perché colui che mi comprende le riconosce, alla fine, insensate, quando egli attraverso esse – su esse – è salito oltre esse». Una filosofia del genere, che è filosofia nel senso proprio, opera con un linguaggio che, per così dire, fa acqua da tutte le parti, e solo rendendo evidente che conviene abbandonare la nave ottiene il suo scopo.

Lo stesso tipo di problema si pone e si risolve con il confronto tra TLP 4.114 e TLP 7: è diverso enunciare tutte, e sole, le proposizioni che è possibile enunciare, e poi tacere, o invece asserire che di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Nei due casi il linguaggio logicamente adeguato è rispettivamente applicato e descritto, ossia il dicibile è delimitato rispettivamente per mezzo del dicibile e per mezzo dell’indicibile.

Nel Tractatus insomma viene impiegato un linguaggio diverso da quello che vi viene teorizzato. Wittgenstein, di nuovo, non sembra voler sostenere in alcun passaggio del suo libro che esso costituisca il primo esempio del linguaggio riformato. Si tratta piuttosto, almeno nelle intenzioni dell’autore, dell’ultimo esempio del vecchio corso del linguaggio. Che le proposizioni del Tractatus possano essere comprese pur essendo per la maggior parte insensate non fa più, dunque, scandalo, poiché la loro sensatezza e la loro comprensibilità si appoggiano su due criteri diversi: che esse siano insensate dipende da una caratterizzazione della sensatezza che fa riferimento alla teoria raffigurativa del linguaggio; ma che esse comunichino, che chiarifichino, che veicolino contenuti, tra cui tale teoria del linguaggio come immagine, dipende da un modo di funzionamento, caratteristico del linguaggio quotidiano, che appartiene loro indipendentemente dalla loro sensatezza.

Per approfondire questa lettura quanto serve per renderla ragionevolmente sostenibile occorre fare riferimento alla distinzione che Wittgenstein discute nel Tractatus tra «dire» e «mostrare». Una proposizione, come anticipavo, può raffigurare un fatto, e dunque essere sensata (vera se quel fatto sussiste), essendone un’immagine. Un fatto è un nesso, articolato al suo interno, di elementi, che possono essere oppure non essere a loro volta articolati al proprio interno; un’immagine di un fatto è un fatto a sua volta, la configurazione dei cui elementi costitutivi corrisponde alla configurazione degli elementi costitutivi del fatto di cui è immagine. Ciò non richiede una somiglianza dell’immagine al fatto, ma un isomorfismo tra l’immagine e il fatto: la proposizione «a R b» può raffigurare il fatto che l’oggetto a (per esempio un’automobile) sia nella relazione R (per esempio quella di tamponare) con l’oggetto b (per esempio un’altra auto), non perché il segno complesso «a R b» assomigli al fatto, ma perché l’essere il segno «a» in una certa relazione visibile con il segno «b» dice che se «a R b» è vera allora l’oggetto a sta in una certa relazione con l’oggetto b (cfr. TLP 3.1432). Si tratta appunto di un isomorfismo, di un’analogia nel senso non di un rapporto di corrispondenza, ma di una corrispondenza di rapporti. E ogni proposizione può dire che le cose stanno in un certo modo all’interno di un fatto proprio solo mostrando il modo in cui stanno i segni al proprio interno. La struttura del fatto il cui sussistere la proposizione asserisce non viene asserita dalla proposizione, ma mostrata in essa, poiché è comune al fatto e alla proposizione: questa appunto è la raffigurazione.

Secondo Wittgenstein dunque «la proposizione mostra il suo senso. La proposizione mostra come le cose stanno se è vera. E dice che stanno così» (TLP 4.022). La struttura di quel fatto che è la proposizione è identica alla struttura di quel fatto che essa raffigura in quanto ne è immagine; tale struttura si mostra, ma non può essere a sua volta raffigurata senza uscire dal rapporto raffigurativo, cioè non può essere raffigurata da alcuna proposizione dotata di senso (cfr. 4.12-4.121). Le tautologie, per esempio «p . qp», mostrano che la loro struttura non può essere la struttura di alcun fatto, perché permettono tutti i fatti possibili, il che non significa altro se non che esse mostrano di essere tautologie. Le contraddizioni, per esempio «p ⊃ ~p», mostrano che la loro struttura non può essere la struttura di alcun fatto perché escludono tutti i fatti possibili, il che non significa altro se non che esse mostrano di essere contraddizioni. Le proposizioni mal costruite, per esempio «a R R», mostrano di essere mal costruite e di non raffigurare quindi alcun fatto. Le proposizioni metalogiche, che pretendono di dire ciò che è possibile solo mostrare, non possono affatto essere costruite nell’ideografia: nella proposizione «F (F (x))» sembra che una funzione possa essere il proprio stesso argomento, ma un simbolismo adeguato mostra inequivocabilmente che una funzione che ha come argomento una variabile x è qualcosa di diverso da una funzione che ha come argomento una funzione F (x), e cioè ci obbliga a scrivere «φ (F (x))» anziché «F (F (x))» (un dipinto φ può ritrarre il rapporto raffigurativo tra un dipinto F e il suo soggetto, ma solo raffigurando qualcosa di diverso da ciò che raffigura il dipinto F).

Wittgenstein scrive che «la totalità delle proposizioni vere è l’intera scienza della natura» (TLP 4.11): in altri termini, un linguaggio come quello la cui grammatica l’autore delinea nel libro, un linguaggio comprendente solo proposizioni dotate di senso e tra queste tutte e sole le proposizioni vere, costituirebbe un’immagine completa del mondo. Certo la possibilità da parte di una proposizione vera di raffigurare il fatto di cui è immagine riposerà sempre sulla sua capacità di mostrare la struttura che è comune a essa e al fatto; ma nelle proposizioni di una scienza naturale completa nient’altro avrà bisogno di mostrarsi.

Nel linguaggio del libro, invece, l’efficacia comunicativa delle proposizioni è affidata a un insieme di funzioni del mostrare molto più varia del semplice modo in cui una proposizione dotata di senso mostra quale il suo senso è col mostrare la propria struttura. Nel Tractatus compaiono tautologie, contraddizioni, proposizioni metalogiche e altri tipi di formule che non troverebbero espressione possibile in un linguaggio logicamente adeguato; le tautologie vi mostrano di essere tautologie, le contraddizioni di essere contraddizioni, le proposizioni metalogiche di essere formulabili solo per via dell’equivocità del simbolismo «naturale» e tutte mostrano di non avere senso nel senso in cui ce l’hanno le proposizioni della scienza naturale.

Se insomma il linguaggio in cui il Tractatus si esprime non ha, diversamente dal linguaggio che nel Tractatus viene costruito, alcuna chance quanto all’attingimento dell’episteme, esso ha nondimeno un’efficacia comunicativa, che Wittgenstein nel testo non mette mai in dubbio, su cui evidentemente fa sempre affidamento, e a cui in più luoghi allude anche esplicitamente («Forse comprenderà questo libro solo chi ha già pensato da sé i pensieri che vi sono espressi» e «il suo scopo sarebbe raggiunto se desse piacere a uno che, leggendolo, lo comprendesse», TLP Pref.; «colui che mi comprende» riconosce le proposizioni del libro come insensate, TLP 6.54).

Quindi, in sintesi, vorrei dire che il Tractatus gioca un gioco linguistico più complesso di quello che descrive.3 La comprensione del libro presuppone più di quanto sarebbe sufficiente a un ipotetico positivista ideale per enunciare la totalità della scienza naturale e poi tacere.

Nel discuterne, dunque, nel prosieguo di questo lavoro si terrà conto di come, allo stesso modo in cui ciò che Wittgenstein scrive ha una propria efficacia comunicativa, così ce l’ha ciò che può essere scritto per rendersi chiare le idee, da studiosi di filosofia e di storia della filosofia, su ciò che egli voleva dire, sulle ragioni e le implicazioni delle sue tesi. Nella Prefazione del Tractatus (in un passo, rispetto agli altri, poco citato, ma non irrilevante) l’autore scrive che il valore del libro consiste «in primo luogo nel fatto che vi sono espressi pensieri, e questo valore sarà tanto maggiore quanto meglio i pensieri sono espressi. Quanto più si è colpito nel segno. – Qui sono cosciente di essere rimasto molto al di sotto del possibile. Semplicemente perché la mia forza è insufficiente per portare a termine il compito. – Possano altri venire e farlo meglio». Ciò vuol dire che Wittgenstein avrebbe accolto con favore il tentativo da parte di qualche autore di manuali di rendere chiare, meglio di quanto egli avesse potuto fare da solo, le stesse cose che aveva tentato di rendere chiare nel Tractatus – ma vuol dire anche che questo sarebbe stato il solo tipo di discorso sul Tractatus che egli avrebbe considerato accettabile. È chiaro che lo statuto delle proposizioni di una simile esposizione didattica del Tractatus sarebbe lo stesso statuto che hanno le proposizioni del Tractatus stesso; ma è chiaro anche che allora è possibile un discorso, le cui proposizioni hanno a loro volta lo stesso statuto, il cui compito è quello di chiarire il funzionamento del linguaggio che l’opera di Wittgenstein impiega, e non solamente del linguaggio logicamente adeguato che esso teorizza.

Un tale discorso è, per esempio, quello delle Ricerche filosofiche, in cui non incidentalmente Wittgenstein riflette, tra gli altri, sul gioco linguistico proposto nel Tractatus (cfr. PU 23). E un tale discorso è anche quello che svolgerò in questo saggio (e in particolare nella sua prima parte, dedicata al cosiddetto «primo Wittgenstein») con l’intenzione di chiarire alcune peculiarità della teoria della conoscenza del Tractatus soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra ontologia e logica.

Quando, nelle Ricerche filosofiche, Wittgenstein scrive che «il gioco linguistico del comunicare può essere rigirato in modo che la comunicazione sia destinata non già a dare informazioni sul suo oggetto a colui che la riceve, ma a darne su colui che la fa», e che «si può misurare per mettere alla prova il regolo» (PU X, p. 224), ciò offre importanti indicazioni su un modo in cui è possibile leggere il Tractatus: cioè non solo come il cantiere di un linguaggio idealizzato destinato a delegittimarne ogni altro (il che vorrebbe dire dare importanza solo all’oggetto di cui vi si parla); ma anche come una problematizzazione del funzionamento del linguaggio e dei rapporti tra i suoi diversi funzionamenti, poiché essi sono più di uno (il che vuol dire dare importanza anche allo strumento dell’indagine). Ancora, egli afferma: «Il dire: “Questa combinazione di parole non ha senso”, esclude la combinazione dal dominio del linguaggio, e con ciò delimita la regione del linguaggio. Ma quando si traccia un limite si possono avere diverse e svariate ragioni. Se delimito un’area con una siepe, con una linea, o in qualche altro modo, ciò può avere lo scopo di non far entrare o di non far uscire qualcuno; ma può anche far parte di un giuoco nel quale i giocatori debbano, per esempio, saltar oltre il limite; oppure può indicare dove termina la proprietà di una persona e dove ha inizio quella di un’altra, ecc. Perciò, tracciando un limite, non si dice ancora perché lo si traccia» (PU 499).4 E questo può suggerirci di leggere il Tractatus non solo per decidere cosa sta da un lato del limite del dicibile e cosa dall’altro, ma anche per comprendere che rapporto c’è tra i due lati del limite.5

Il fatto di porsi, in quanto critici o storici, da un punto di vista molto prossimo a quello del Wittgenstein più maturo (se non coincidente con esso) per leggere la sua opera giovanile è autorizzato, credo, dalle considerazioni che ho svolto sopra in dettaglio sul funzionamento del linguaggio del Tractatus in rapporto al funzionamento del linguaggio teorizzato dal Tractatus. Tuttavia la necessità di un’elementare cautela dev’essere resa esplicita prima di procedere oltre: la legittimità del fatto di guardare al Tractatus dal «punto di vista del gioco»6 dipende da uno scarto intrinseco al libro stesso tra il linguaggio di cui si parla e il linguaggio che ne parla, tra un linguaggio che per dire come stanno le cose ha bisogno di mostrare solo la struttura delle proposizioni con cui si esprime e un linguaggio che comunica solo mostrando l’insensatezza, e i diversi tipi di insensatezza, delle proposizioni con cui si esprime; le analisi elaborate da Wittgenstein, a partire diciamo dagli anni Trenta, sul modo in cui il linguaggio comunica anche senza obbedire alla logica dei logici possono senz’altro aiutarci a gettare una luce sfumata sul suo testo giovanile, e in questo senso ad esempio penso che possano rendersi utili le citazioni che ho riportato nel capoverso precedente; ma ciò non deve portarci ad assumere uno sguardo orientato teleologicamente in avanti e a farci quindi guardare al Tractatus come a un mero presentimento o a una semplice preparazione delle Ricerche filosofiche, il che sarebbe tanto assurdo quanto il guardare a Platone solo in vista di Aristotele, a Cartesio solo in vista di Spinoza o a Hume solo in vista di Kant.

1.2 Le condizioni di possibilità del dicibile e la struttura del mondo

Le considerazioni metodologiche su cui ho voluto soffermarmi dovrebbero permettermi ora di discutere gli aspetti che più mi interessano della filosofia di Wittgenstein senza interrompere di continuo il filo del discorso per ammonire il lettore su come le teorie esposte nel Tractatus, e le loro spiegazioni da parte del commentatore, sarebbero in ultima analisi unicamente strumentali alla dimostrazione della propria insensatezza. Il Tractatus è un libro di filosofia, dallo stile esotico se si vuole, ma scritto nel linguaggio dei libri di filosofia, con un proprio oggetto e con un insieme di proprie dottrine a proposito di esso; da interpreti, si è legittimati a prendere sul serio quelle dottrine e a esprimersi criticamente sul linguaggio che Wittgenstein teorizza e sul linguaggio che impiega. Come dicevo, ciò avverrà dall’interno di un linguaggio filosofico che non è il linguaggio che Wittgenstein si sforza di costruire con il Tractatus, bensì il metalinguaggio tramite cui veicola le sue idee nel Tractatus come anche nelle Ricerche filosofiche e che è l’oggetto precipuo dell’indagine di tutte le opere appartenenti alla fase matura della produzione wittgensteiniana.

Gli aspetti che più mi interessano della filosofia di Wittgenstein sono quelli relativi al legame tra linguaggio, conoscenza e mondo.

Come ho anticipato, il compito che Wittgenstein si propone di svolgere nel Tractatus consiste nel rendere chiara la distinzione tra ciò che può in generale essere detto, e che dunque può anche essere detto in modo perspicuo, senza generare controversie, e ciò che invece non può essere detto affatto, poiché, nonostante certe involuzioni del linguaggio quotidiano ci illudano del contrario, il tentativo di farlo dà luogo a proposizioni prive di senso. Ciò di cui si è in cerca all’inizio del percorso è dunque un criterio universale per la sensatezza delle proposizioni; la ricerca di questo criterio equivale al tentativo di mettere a punto un linguaggio purgato dalle inadeguatezze del linguaggio quotidiano, un linguaggio cioè nel quale sia impossibile spacciare un’insensatezza per una proposizione importante e forse vera.

A rendere disponibile tale criterio è la teoria raffigurativa del linguaggio, ossia la teoria del linguaggio come immagine. «La proposizione», scrive Wittgenstein, «è un’immagine della realtà. La proposizione è un modello della realtà così come ce la rappresentiamo» (TLP 4.01).

Che la proposizione sia un’«immagine», un «modello», della realtà vuol dire che essa è composta di elementi disposti l’uno rispetto all’altro in un modo determinato (cfr. TLP 2.14-2.15), il quale, se la proposizione è vera, corrisponde al modo in cui sono disposti l’uno rispetto all’altro gli elementi costitutivi del pezzo di realtà che essa, in quanto immagine, raffigura (cfr. TLP 2.22*). A livello espositivo non può non essere utile ricordare che l’idea che la proposizione funzioni come un’immagine venne a Wittgenstein quando, nel settembre 1914, lesse di un’udienza presso un tribunale di Parigi nel corso della quale, per tentare di dirimere una causa relativa a un incidente d’auto, una delle parti aveva portato in aula un modellino in scala nel quale una delle versioni del fatto era rappresentata da un insieme di figurine in miniatura (cfr. TB 29.9.1914).7 I singoli elementi facenti parte del modello sono associabili ciascuno a un oggetto facente parte dell’evento raffigurato, e le relazioni che vengono stabilite tra le parti del modello riproducono quelle che, secondo chi l’ha realizzato, sussistono tra gli oggetti: per esempio la relazione tra un’automobile e un’altra automobile che essa tampona. Non è detto che l’immagine sia di per sé un’immagine veridica, cioè che il fatto che raffigura sia un fatto reale, e anzi proprio questo può essere messo in discussione davanti a una corte; ma se si stabilisce quali oggetti reali sono coordinati ai «segnaposto» di cui si compone l’immagine, la configurazione di tali «segnaposto» può corrispondere a una configurazione di oggetti reali, e quindi essa può essere un’immagine vera del fatto; se alla configurazione dei «segnaposto» non corrisponde alcun fatto reale, invece, essa ne è un’immagine falsa.

Per la proposizione vale lo stesso: «La proposizione non è un miscuglio di parole. […] La proposizione è articolata» (TLP 3.141), e la sua articolazione consiste nell’essere i suoi elementi costitutivi, le parole, o più precisamente i nomi (cfr. TLP 4.22), collocati gli uni in rapporto agli altri in un dato modo; se si è stabilito per quali oggetti reali stanno gli elementi della proposizione, ed essi sono combinati in un modo che è compatibile con la loro sintassi, allora il modo della loro reciproca collocazione ci basta per determinare quale configurazione devono assumere gli oggetti reali perché la proposizione raffiguri la loro connessione in modo veridico; in tal modo è determinato il suo senso. Se poi gli oggetti assumono quella configurazione, la proposizione è vera, e altrimenti è falsa.

«L’essenza del segno proposizionale», scrive Wittgenstein, «diventa molto chiara se ce lo rappresentiamo come composto, anziché da segni grafici, da oggetti spaziali (come tavoli, sedie, libri). La reciproca posizione spaziale di queste cose esprime allora il senso della proposizione» (TLP 3.1431). Il fatto che un’automobile ne tamponi un’altra può essere raffigurato tanto bene da un modellino tridimensionale, quanto dalla proposizione «Un’automobile tampona un’altra automobile», quanto dalla proposizione «a R b». In tutti e tre i casi sono le relazioni visibili che intercorrono tra gli elementi visibili dell’immagine a mostrarci quali relazioni devono intercorrere, affinché essa sia vera, tra gli oggetti reali per cui stanno gli elementi dell’immagine (cfr. TLP 3.1432, 4.022).8

Pare, tuttavia, che tra il diorama dell’incidente automobilistico realizzato con l’ausilio di pupazzi e automobiline in scala e, per esempio, la proposizione «a R b» ci sia una differenza importante: nel primo, diversamente che nella seconda, le parti costitutive dell’immagine assomigliano agli elementi di cui il fatto si compone. Poco sopra parlavo del requisito, affinché un fatto possa essere immagine di un altro fatto, che gli elementi che ne fanno parte siano realmente associati a qualcosa; ma risulta evidente che per esempio un modellino di automobile rimanda a un’automobile in modo diverso da come a essa rimanda «a». Sfruttando il quadro teorico che ci è messo a disposizione dalla pur sommaria presentazione della teoria raffigurativa del linguaggio che ho già svolto, ciò può essere espresso dicendo che il modellino di automobile è a sua volta un’immagine, raffigurante appunto un’automobile, mentre «a» al contrario non è un’immagine.

Un’immagine, come si è detto, è isomorfa al fatto che raffigura, e quindi non necessariamente simile a esso. (La nozione di «immagine» è anzi, nel discorso di Wittgenstein, del tutto indipendente da quella di «somiglianza», della quale nel Tractatus non vi è alcuna caratterizzazione rigorosa.) Un’immagine è un fatto, cioè un nesso dotato di un’articolazione interna di elementi costitutivi, che possono o meno avere a loro volta un’articolazione al proprio interno. Ciò che è richiesto affinché un fatto sia immagine di un altro fatto è che i due abbiano in comune la struttura secondo la quale sono organizzate le rispettive parti costitutive: in tal modo si può dire che «a R b» raffigura il fatto che un’automobile ne tamponi un’altra, o (ciò che appare più impegnativo, ma in realtà non aggiunge alcunché) che «il disco del grammofono, il pensiero musicale, la notazione musicale, le onde sonore stanno tutti tra di loro in quella relazione interna di raffigurazione che sussiste tra linguaggio e mondo» (TLP 4.014). Nel caso di «a R b», gli elementi dell’immagine sono privi di articolazione al loro interno – o meglio, sono dotati di un’articolazione che permette di differenziarli l’uno dall’altro nel semplice senso che la lettera «a» è diversa dalla lettera «b», ma tale articolazione è del tutto indifferente per qualsivoglia rapporto raffigurativo: né «a» né «b» raffigurano alcunché; che «a» sta per un’automobile e «b» per un’altra automobile si stabilisce per convenzione arbitraria, esattamente come potrebbe essere stabilita la convenzione opposta; ed è tutto.9 Nel caso del modello in scala, al contrario, le due automobiline giocattolo presentano una configurazione non irrilevante delle proprie parti costitutive, la quale appunto le rende a tutti gli effetti immagini di altrettante automobili.

Che Wittgenstein intenda per «immagine» un fatto la configurazione dei cui elementi costitutivi corrisponde alla configurazione degli elementi costitutivi del fatto che essa raffigura vuol dire che dal punto di vista della relazione di raffigurazione (che unisce un fatto raffigurante, cioè l’immagine, e un fatto da essa raffigurato) l’articolazione interna degli elementi costitutivi di quel fatto che è l’immagine e di quel fatto di cui essa è immagine è indifferente.

In altri termini, per poter dire che un modellino raffigura un incidente in cui un’auto tampona un’altra auto è del tutto superfluo che di esso facciano parte due automobiline giocattolo anziché, per esempio, due cubetti di legno. Il fatto che sia superfluo non comporta che sia illegittimo, ma solo per l’appunto che un’immagine è definita come tale per via dell’isomorfismo che si stabilisce tra la connessione delle sue parti e la connessione delle parti del fatto raffigurato; perciò la configurazione interna delle parti di quell’elemento dell’immagine che, nel caso del modellino dell’incidente, sta per una delle due auto potrà essere rilevante per decidere se essa è un’immagine di un’auto oppure no, non per decidere se il fatto di cui essa fa parte è un’immagine di un incidente oppure no.

Questo è ciò che Wittgenstein intende quando dice che una proposizione deve avere la stessa «molteplicità matematica» del fatto che raffigura, che in essa dev’essere differenziato esattamente tanto quanto è differenziato nel fatto (cfr. TLP 4.04): l’articolazione del fatto di un incidente automobilistico è rispecchiata in modo perfettamente adeguato (né troppo dettagliato, né troppo poco) da un modellino di cui fanno parte solamente due cubetti di legno posti reciprocamente in una data relazione, così come è rispecchiata in modo perfettamente adeguato dalla proposizione «a R b». Tali immagini hanno, per così dire, una «risoluzione» sufficiente e non eccessiva. Un’immagine più complessa, per esempio un modellino di cui fanno parte due automobiline giocattolo, non è un’immagine del fatto che un’auto ne tampona un’altra, a meno che noi ci disinteressiamo del modo in cui le automobiline giocattolo sono costituite; se viene presa in considerazione in tutta la sua complessità (molteplicità) essa è un’immagine del fatto che un’auto fatta in un certo modo tampona un’auto fatta in un certo altro modo – e questa immagine ha quindi condizioni di verità diverse (più restrittive) rispetto a quella.

Insomma secondo la nozione di «immagine» di Wittgenstein, che è alla base della sua teoria del linguaggio, il funzionamento dell’immagine in quanto tale è essenzialmente diverso dal funzionamento delle sue parti costitutive in quanto tali: la prima propriamente raffigura un fatto, perché l’essere le seconde in una determinata relazione le une con le altre corrisponde all’essere in una determinata relazione le une con le altre le parti del fatto di cui essa è immagine; le parti dell’immagine in quanto tali, invece, non raffigurano alcunché, bensì stanno semplicemente per le parti del fatto raffigurato, ed è solo la loro connessione con gli altri elementi dell’immagine, essendo articolata, a rappresentare propriamente il fatto.10

La rilevanza di queste puntualizzazioni diventa chiara quando ci si concentra sul tipo di immagine che a Wittgenstein interessa soprattutto, ossia la proposizione. Una proposizione è una connessione, una concatenazione di nomi che stanno uno in relazione all’altro in modo determinato. E, mentre la proposizione raffigura un fatto, i nomi semplicemente stanno per gli oggetti di cui esso ultimamente si compone. Mentre la proposizione è articolata (cfr. TLP 3.251), il nome non può essere scomposto (cfr. TLP 3.26). Mentre la proposizione può essere vera o falsa, cioè raffigurare un fatto che si verifica o non si verifica, e in entrambi i casi ha senso, il nome può solo essere dotato o privo di significato, cioè essere un «segnaposto» di qualcosa che vi è o non vi è. L’assegnazione di un nome a un oggetto è arbitraria, e i nomi, perciò, non raffigurano alcunché; se, però, la configurazione dei nomi corrisponde punto per punto alla configurazione degli oggetti in un fatto possibile, allora tale immagine propriamente raffigura quel fatto. «Se un nome sta per una cosa, un altro per un’altra cosa ed essi sono collegati l’uno all’altro, allora l’insieme – come un’immagine vivente – rappresenta lo stato di cose» (TLP 4.0311).

«Solo i fatti possono esprimere un senso; una classe di nomi non può» (TLP 3.142). «Si può descrivere gli stati di cose, non nominarli. (I nomi assomigliano a punti, le proposizioni a frecce: esse hanno senso.)» (TLP 3.144). E, più in dettaglio: «Alla configurazione dei segni semplici nel segno proposizionale corrisponde la configurazione degli oggetti nello stato di cose. Il nome sta, nella proposizione, per l’oggetto. Gli oggetti possono solo essere nominati. I segni stanno per essi. Posso parlare solo di essi, non posso asserirli. Una proposizione può dire solo come una cosa è, non cosa è» (TLP 3.21-3.23).

Come nel modellino non sono gli oggetti, ma il loro stare in una certa relazione reciproca, a raffigurare il fatto, così nella proposizione non sono i nomi, ma il loro stare in una certa relazione reciproca. L’essenziale differenza del funzionamento dei nomi rispetto al funzionamento delle proposizioni, riassumibile nel dire che i primi stanno per (vertreten) gli oggetti, le seconde rappresentano (vorstellen) i fatti, ha un ruolo fondamentale nella concezione del linguaggio di Wittgenstein: se infatti le parti di cui si compone una proposizione avessero a loro volta il funzionamento che è tipico della proposizione, ossia rappresentassero i loro oggetti, allora per decidere della sensatezza della proposizione bisognerebbe decidere della sensatezza delle sue componenti, e per decidere della sensatezza di queste, il cui funzionamento sarebbe di nuovo omogeneo al funzionamento delle rappresentazioni, bisognerebbe procedere ancora nell’analisi. Il regresso sarebbe inarrestabile: «[…] l’avere senso una proposizione dipenderebbe dall’essere vera un’altra proposizione» (TLP 2.0211), il che ovviamente dipenderebbe in primo luogo dall’avere quest’ultima senso, e questo, quindi, ancora dall’essere vera un’altra proposizione – e così via. «Sarebbe allora impossibile tratteggiare un’immagine del mondo (non importa se vera o falsa)» (TLP 2.0212). In definitiva, «il requisito della possibilità dei segni semplici è il requisito della determinatezza del senso» (TLP 3.23).

Se un nome abbia significato non si valuta valutando se esso raffiguri adeguatamente l’oggetto che gli corrisponde; che un nome abbia significato si stabilisce per convenzione arbitraria, il che è del tutto equivalente al dire che in effetti esso non raffigura né adeguatamente, né inadeguatamente, l’oggetto che gli corrisponde, ma appunto semplicemente sta per esso; non ci dà per quanto lo riguarda alcuna informazione suscettibile di verità o falsità, e questo a sua volta fa tutt’uno col dire che l’oggetto, come tale, può essere nominato, ma non asserito, laddove il fatto può essere asserito (veridicamente se sussiste, falsamente altrimenti) ma non nominato.

Il significato dei nomi deve esserci insegnato; ma data la conoscenza del significato dei nomi che compaiono in una proposizione, il senso di questa ci è noto immediatamente, col semplice guardare la sua struttura, senza che abbiamo bisogno di sapere se essa è vera o falsa, né se alcuna altra proposizione è vera o falsa (cfr. TLP 4.026).

Questo è, secondo Wittgenstein, il funzionamento del linguaggio: se le proposizioni possono comunicarci un senso nuovo (cfr. TLP 4.027), che i nomi da soli non basterebbero a trasmettere, e se tuttavia possiamo comprenderle conoscendo i soli nomi, senza bisogno di sapere se un’altra qualsiasi proposizione è vera o falsa, è perché le proposizioni sono immagini. Il significato dei nomi di cui una proposizione è composta si stabilisce, e il senso della struttura secondo cui sono in relazione gli uni con gli altri si vede. Le proposizioni, in quanto connessioni di nomi, raffigurano fatti, cioè connessioni di oggetti. E: «La totalità delle proposizioni vere è l’intera scienza della natura (o la totalità delle scienze della natura)» (4.11), cioè un’immagine completa del mondo.

Un linguaggio logicamente adeguato, che rispetta la sintassi logica, è un linguaggio nel quale ogni proposizione è propriamente un’immagine. Non serve aggiungere a ciò (voglio dire al termine «immagine») alcuna qualificazione: un’immagine, per la sola ragione di essere una connessione possibile di elementi che stanno per qualcosa, è immagine di una connessione possibile di oggetti, cioè di un fatto possibile; e, per quella sola ragione, è dotata di senso.

Vi sono diversi modi in cui una proposizione può essere priva di senso, ma nessun modo in cui una proposizione priva di senso può essere un’immagine. Una tautologia («a R b . c R da R b») non è un’immagine (un modellino in cui sono raffigurati due incidenti d’auto raffigura il fatto che si verifichino due incidenti d’auto, non il fatto – che non è affatto un fatto – che il verificarsi di due incidenti d’auto presuppone il verificarsi di ciascuno dei due). Una contraddizione («a R b . ~(a R b)») non è un’immagine (un modellino che raffigurasse il verificarsi e il non verificarsi di un incidente d’auto dovrebbe essere un modellino in cui un oggetto è e allo stesso tempo non è in contatto con un altro). Una proposizione in cui a un dato nome non è stato associato alcun oggetto non è un’immagine, e così via. L’affermazione da parte di Wittgenstein che l’essenza del segno proposizionale diventa del tutto chiara quando lo si concepisce come un fatto composto da oggetti tridimensionali anziché da segni grafici o fonetici è un modo di insistere sulla natura non arbitraria della sintassi della proposizione: la semantica dei nomi è arbitraria, ma il modo in cui i nomi possono o non possono combinarsi tra loro non lo è affatto, non più di quanto lo sia il modo in cui oggetti spaziali possono o non possono essere accostati, sovrapposti, incastrati, compenetrati ecc., e il ruolo dell’ideografia consiste esattamente nel rendere impossibile non notare quegli errori di sintassi che il linguaggio quotidiano invece occulta. In tal modo, e questa non è che una ripetizione della tesi nodale della teoria raffigurativa del linguaggio, una volta che il significato dei nomi è stato stabilito, anche nella semantica della proposizione non resta più nulla di arbitrario, e per comprendere il suo senso basta guardare la sua struttura.

La totalità delle proposizioni dotate di senso raffigura la totalità dei fatti possibili, e la totalità delle proposizioni vere raffigura la totalità dei fatti reali, cioè il mondo. Alla luce della teoria del linguaggio come immagine, l’ontologia del Tractatus diventa pienamente intelligibile, e perde quel sapore di arbitrarietà che invece, credo di poter dire, si tende inevitabilmente a percepire quando per la prima volta si dà l’assalto al libro cominciando dalla proposizione 1.11

Le prime, solenni proposizioni del Tractatus delineano un mondo che è «tutto ciò che si verifica» (TLP 1) e precisamente «la totalità dei fatti, non delle cose» (TLP 1.1). Dato l’apparato terminologico e concettuale di cui ci siamo dotati ricostruendo la teoria wittgensteiniana del linguaggio come immagine, «ciò che si verifica» è evidentemente il fatto, che può accadere o non accadere, sussistere o non sussistere, a seconda che un insieme di oggetti assuma o non assuma una data configurazione, e che insomma corrisponde all’immagine; e «le cose» sono evidentemente quegli oggetti, quegli elementi semplici di cui non si può mai dire che sussistono o non sussistono, perché non hanno alcuna configurazione che può essere assunta o non assunta da parti ulteriori, e che insomma corrispondono agli elementi dell’immagine.

La differenza tra fatto e oggetto può, certamente, essere compresa fin dall’inizio come la differenza tra ciò che è complesso e ciò che è semplice, ossia tra ciò che consiste in una configurazione di parti non ulteriormente scomponibili da un lato e, dall’altro, le unità irriducibili la cui connessione dà luogo ai complessi. Ma la necessità di questa differenza all’interno del quadro teorico del Tractatus si comprende solo se la si considera come inscindibilmente connessa con la differenza tra nome e proposizione – cioè se l’ontologia viene trattata non come una scorribanda dogmatica nella sfera dell’inseità, ma come una riflessione critica, fin dall’inizio anche gnoseologica, sulle strutture del mondo che siamo obbligati a postulare se il linguaggio deve funzionare, o, più radicalmente: sulle strutture del mondo che sono presupposte dal funzionamento del linguaggio.

La totalità delle cose, degli oggetti, è la sostanza del mondo: ciò che è stabile, ma anche ciò che è informe, come sarebbe informe un elenco di tutti i nomi delle cose, degli oggetti che sono nel mondo. I fatti invece sono ciò che è mutevole e transitorio, e il verificarsi o meno di un fatto possibile consiste nell’assumere certi oggetti l’una o l’altra delle configurazioni possibili (cfr. TLP 2.021, 2.024, 2.0271). Ed è la totalità dei fatti, in quanto dotati di un’organizzazione al proprio interno e in quanto, quindi, suscettibili di essere raffigurati, che è il mondo stesso, di cui la totalità delle proposizioni vere fornisce un’immagine completa. Indicare la totalità degli oggetti, sciorinando un «miscuglio» di parole, una serie di nomi di cui non ha importanza la connessione reciproca, non fornirebbe alcuna immagine del mondo; una descrizione del mondo capace di verità può essere fornita solo per mezzo di proposizioni, che sono «articolate», e le proposizioni raffigurano fatti.

La tesi in cui si riassume l’ontologia del Tractatus, ossia la tesi secondo cui il mondo è la totalità dei fatti, non è una tesi fisica o metafisica,12 se ciò vuol dire che con essa si pretenderebbe di compilare una classificazione di ciò che vi è nel mondo in sé. Essa è una tesi logica, nel senso che la logica del linguaggio, la quale noi, finché impieghiamo il linguaggio, possiamo solo presupporre, ammette la sensatezza, ed eventualmente la verità, solo delle proposizioni come immagini (dunque non dei nomi, non di quelle pseudo-proposizioni che non sono immagini); e quindi ciò di cui possiamo dire sensatamente, e magari veridicamente, che sussiste è tutto e solo ciò che può essere raffigurato dalle immagini, ossia i fatti. Dire che il mondo è la totalità dei fatti (dunque non delle cose, né, per esempio, dei valori) non significa gettare in campo una tesi enormemente impegnativa, ricca di presupposti, a cui si potrebbero chiedere giustificazioni, e rifiutare di dare quelle giustificazioni nella speranza che a supplire alla loro mancanza basti il tono particolarmente ieratico col quale quella tesi è enunciata. Se il mondo coincide con la totalità dei fatti è perché i fatti sono il solo tipo di unità ontologica del quale la logica ci permette di affermare sensatamente, o sensatamente negare, l’esistenza.

Dare una giustificazione del fatto che nel linguaggio sia possibile dire qualcosa di sensato è impossibile, perché una giustificazione dovrebbe già avere la forma di una proposizione sensata: una giustificazione del genere sarebbe possibile solo se fosse superflua, e questo è sufficiente per rendere del tutto illegittimo chiedere una giustificazione del genere. Della possibilità da parte del linguaggio di enunciare proposizioni sensate si possono tuttalpiù indagare le condizioni di possibilità: e si scopre allora che la divisibilità, senza residui, del mondo in fatti (cfr. TLP 1.2) è appunto una condizione di possibilità del funzionamento del linguaggio; si scopre che non è affatto una proprietà delle cose in sé, bensì qualcosa che dobbiamo presupporre se vogliamo che le proposizioni abbiano senso.

Lo stesso può essere detto ancora in un altro modo dicendo che la tesi ontologica del Tractatus non ambisce a una validità incondizionata, ma condizionale: un linguaggio logicamente adeguato non ha la pretesa di parlare di ciò di cui non si può parlare; ma se si può parlare di qualcosa tout court, se cioè un’immagine, una proposizione la cui sintassi è logicamente corretta e i cui nomi hanno significato, raffigura qualcosa, allora essa deve raffigurare proprio un fatto. L’irriducibilità della logica nel Tractatus non è un’irriducibilità assoluta, ma un’irriducibilità trascendentale.

Credo che sia lecito caratterizzare le impostazioni trascendentali in filosofia come quelle che rifiutano, a monte di ogni altra considerazione, di porre il problema di cosa esiste o accade indipendentemente dal problema di cosa è possibile sapere che esiste o accade. Ciò significa circoscrivere fin dall’inizio il terreno sul quale si è disposti a condurre la propria indagine, perché si riconosce preliminarmente che ogni incondizionato è, per ciò stesso, inaccessibile alla conoscenza: ogni «in sé» è per ciò stesso al di fuori della nostra portata e non può divenire oggetto di alcun sapere, che dovrebbe essere pur sempre un sapere «per noi». È solo se sono soddisfatti certi requisiti che una conoscenza qualsiasi può darsi, e quindi noi siamo obbligati, ogni volta che riteniamo di conoscere qualcosa, a presupporre che a quel qualcosa appartengano esattamente quelle proprietà tolte le quali esso non sarebbe per noi conoscibile affatto. La rinuncia all’incondizionato non è una sconfitta filosofica, bensì l’esigenza fondamentale in vista di ogni possibile successo: poiché la pretesa di attingere all’assoluto non potrà che generare scandalo ogni volta che riflettiamo sul fatto che pensare l’assoluto vuol già dire ricondurlo nell’alveo relativamente umile delle condizioni della pensabilità in generale. Il fatto di prendere in considerazione le cose solo in tanto in quanto sono conoscibili, invece, assicura già la loro rispondenza necessaria a strutture irriducibili, assicura già che esse, nella misura in cui se ne può conoscere qualcosa, soddisfino le condizioni di possibilità della conoscenza überhaupt. Le strutture della conoscenza delle cose sono anche le strutture delle cose in quanto conoscibili.

Questo ovviamente non vuol dire che la conoscenza «determina» la realtà in senso unidirezionale, come negli idealismi dogmatici; questi del resto risultano tanto poco sostenibili quanto i realismi dogmatici secondo cui la conoscenza è unidirezionalmente «determinata» dalla realtà.13 L’equiestensione e l’omogeneità del pensabile e del reale non è una coincidenza estrinseca e fortunata, ma una necessità trascendentale, cioè il corollario della scelta programmatica di intendere la realtà non come il dominio delle cose in sé, ma come l’insieme di ciò che si offre alla nostra interrogazione, e il nostro pensiero non come un organo velleitariamente proteso verso una verità trascendente, ma come il dominio entro cui ogni possibile conoscenza degli oggetti deve prodursi. La questione se la conoscenza sia possibile, diversamente dalla questione di come essa sia possibile, non è presa in considerazione; ma la possibilità della conoscenza non può che essere presupposta, e quindi può essere presupposta.14

Il Tractatus opera dall’inizio alla fine senza mettere in discussione l’ipotesi che vi è un linguaggio e che, come è possibile abusarne dando luogo a vacuità e contraddizioni, così è possibile impiegarlo in stretto ossequio alla sintassi logica, e dunque realizzare per mezzo di esso una descrizione esaustiva del mondo. Il compito del libro, in quanto esercizio di critica del linguaggio, consiste nel mostrare come è possibile fare un uso perfetto del linguaggio, e come gli usi imperfetti sono in effetti semplicemente privi di senso; il suo successo, in altre parole, dipende dal successo con cui vi vengono delineate le condizioni di possibilità di un tale linguaggio logicamente adeguato.

La domanda di Wittgenstein è quasi la stessa che Kant si pone nei Prolegomeni a ogni futura metafisica che potrà presentarsi come scienza: «Come è possibile una scienza della natura?» (cfr. P 279-280, 294; cfr. TB 19.10.14).15 E la sua risposta, come abbiamo visto, verte su proposizioni e immagini, sensi visibili e significati suscettibili di essere stabiliti, Vorstellungen e Vertretungen. Come scrive Alexander Maslow,

La relazione tra il linguaggio e il mondo è, secondo la terminologia di Wittgenstein, interna: non possiamo separare il mondo dalla prospettiva del linguaggio per mezzo del quale lo organizziamo. […] Perciò, secondo questo punto di vista una ricerca sugli aspetti formali del linguaggio è allo stesso tempo una ricerca sugli aspetti formali del nostro mondo […]. Rifiutando di enunciare tesi insensate sul mondo «in sé», in realtà non affermiamo né neghiamo alcunché sulla natura del mondo; semplicemente evidenziamo le restrizioni logiche alle quali ogni discorso deve attenersi per essere un discorso sensato e non una produzione insensata di suoni o di tratti grafici.16

Il senso in cui la filosofia del Tractatus è una filosofia trascendentale può, credo, essere reso più chiaro scendendo in una riflessione circostanziata sui due protagonisti della sua ontologia, di cui abbiamo già fatto le presentazioni: l’oggetto e il fatto.

1.2.1 L’oggetto

Nel Tractatus gli oggetti (o cose, o entità) sono presentati come i semplici (TLP 2.02) il cui collegamento reciproco dà luogo a stati di cose complessi (TLP 2.01), dunque a fatti. Gli oggetti sono la sostanza del mondo, ciò che non varia, poiché a variare sono solo le loro configurazioni: i fatti, che accadono o non accadono, sono il mutevole e il transitorio (TLP 2.0271).

La domanda su quali giustificazioni abbia Wittgenstein per propugnare queste tesi non è destinata a trovare una risposta di grande soddisfazione, se la risposta che si cerca deve avere la forma di un principio intrinsecamente solido, o a sua volta giustificato, da cui la concezione atomistica degli oggetti e quella molecolare dei fatti discenderebbe linearmente. Non vi è alcuna giustificazione sillogistica per l’ontologia del Tractatus.

Tuttavia il ruolo ricoperto dagli oggetti nella gnoseologia di Wittgenstein impedisce di considerarli il frutto arbitrario di un capriccio metafisico, e anzi essi risultano indispensabili per il funzionamento della teoria del linguaggio come immagine: come si è detto, se le proposizioni possono avere un senso determinato ciò deve dipendere dalla loro natura raffigurativa, e in particolare dal fatto che gli elementi di cui un’immagine in ultima analisi si compone non sono a loro volta immagini, ma semplici segnaposto, la cui articolazione interna è irrilevante, che stanno per oggetti la cui articolazione interna ai fini dell’immagine è a sua volta irrilevante. Cosicché, benché in Wittgenstein non vi sia nessuna deduzione dell’esistenza degli oggetti a partire dai principi sovraordinati di una metafisica dogmatica, vi è, si può dire, una deduzione trascendentale17 del valore oggettivo di quelle unità simboliche che sono presupposte dalla capacità del nostro linguaggio di esprimere sensi determinati.

Qui è importante tenere presente che nel lessico di Kant, che è evidentemente la fonte principale di ogni riflessione sulla nozione filosofica di «trascendentale», il termine Deduktion non ha, appunto, il senso di una dimostrazione alla maniera euclidea, ma piuttosto di una legittimazione di tipo giuridico nella quale si cerca di chiarire il quid iuris di un quid facti (cfr. KrV B116 e segg.); e che in particolare la deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto, cioè la legittimazione della pretesa che «le condizioni soggettive del pensiero debbano avere una validità oggettiva», è basata sul riconoscimento del fatto che il polo oggettivo dipende per la sua possibilità dal polo soggettivo, benché ovviamente solo quanto alla conoscenza, e non quanto all’esistenza: «La validità oggettiva delle categorie come concetti a priori riposa sul fatto che soltanto per mezzo di esse è possibile l’esperienza (secondo la forma del pensiero). Le categorie si riferiscono in modo necessario e a priori ad oggetti dell’esperienza, perché solo per loro mezzo diviene in generale possibile pensare un qualunque oggetto dell’esperienza» (KrV B126).

Così, come secondo Kant l’impiego della nozione di «causa» nei giudizi di una scienza della natura è pienamente legittimo, non perché il giudizio «niente avviene senza una causa» possa essere dimostrato,18 ma perché, in assenza della sussunzione sotto il concetto di «causa» delle connessioni successive e costanti che percepiamo, nessuna natura formaliter spectata, nessuna conformità a leggi, sarebbe affatto pensabile (cfr. P 318-320); analogamente secondo Wittgenstein l’adozione del presupposto della semplicità degli oggetti è del tutto lecita, non perché qualche assioma logico permetta di inferirla, ma perché solo grazie alla relazione di Vertretung tra gli elementi non articolati delle immagini e gli oggetti in quanto semplici è possibile la relazione di Vorstellung tra l’immagine e il fatto, e con questa una descrizione scientifica della natura per mezzo del linguaggio.

Una filosofia trascendentale non pretende di prendere le mosse da un’evidenza di carattere assiomatico. L’impossibilità della negazione dei presupposti di una filosofia trascendentale non consiste nell’intrinseca, assoluta impossibilità di negare un’evidenza che sarebbe tale intrinsecamente e assolutamente, ma nell’impossibilità di negare ciò su cui riposa la possibilità del discorso senza rendere il discorso impossibile. Gli oggetti semplici, in quanto «requisito della determinatezza del senso», sono una di queste condizioni di possibilità.

L’efficienza di una simile interpretazione può trovare una conferma importante nel modo in cui essa permette di risolvere la questione vessata che ruota intorno alla completa mancanza, nel Tractatus, di qualsiasi esempio di ciò che Wittgenstein intende per «oggetto». La qualificazione degli oggetti come semplici ha portato gli interpreti a chiedersi come vada intesa questa semplicità, cosa effettivamente, nel mondo del Tractatus, sia un oggetto: le realtà concrete che abitualmente compongono le situazioni quotidiane, ossia «tavoli, sedie, libri»? Ma esse sono palesemente composite. Oppure, chiedendo soccorso alla fisica, gli atomi, o le particelle subatomiche, o le particelle subnucleari? Ma i modi dell’interazione reciproca di questi oggetti quasi inafferrabili, che obbediscono alle leggi probabilistiche della meccanica quantistica, non hanno niente a che fare con ciò che Wittgenstein sembra avere in mente quando parla dell’accadere dei fatti con l’assumere gli oggetti una certa configurazione. Allora forse i punti materiali della meccanica? I sense data dell’empirismo?

Ogni tentativo di rispondere alla domanda su cosa sia un oggetto che tenti di separare l’ontologia del Tractatus dalla sua teoria del linguaggio come immagine è, credo, destinato al fallimento. Viceversa, approcciarsi al problema a partire dalla dottrina della raffigurazione può rivelarsi molto fecondo. Un oggetto è parte costitutiva di uno stato di cose articolato, e un nome che sta per un oggetto è parte costitutiva di una proposizione articolata che raffigura uno stato di cose articolato. Lo stato di cose e la proposizione hanno la medesima molteplicità: tanto è differenziato nello stato di cose quanto nella proposizione. Un oggetto è dunque ciò che è nominato e non raffigurato, è il correlato del nome nella relazione di Vertretung, ed è semplice solo, ed esattamente, nella misura in cui la sua articolazione interna è indifferente ai fini dell’immagine di cui il nome corrispondente è parte costitutiva.19 Se qualcosa sia semplice non può essere stabilito assolutamente, ma solo in base alla funzione che quel qualcosa riveste in rapporto al linguaggio che ne parla: non importa quali scomposizioni siano possibili praticamente, nello spettro di attività che va dallo strappare le pagine di un libro giù giù fino allo scindere i nuclei atomici; importa solo quali analisi siano necessarie, e sufficienti, per far sì che il senso di una proposizione sia determinato essendo i suoi nomi dotati di un significato.

L’oggetto per Wittgenstein non è un limite assoluto alla possibilità delle fissioni successive che possono darsi empiricamente nel laboratorio di un fisico, bensì il limite relativo oltre il quale l’analisi della proposizione non è più necessaria per comprendere il suo senso, e anzi non può essere ulteriormente proseguita senza che quel senso venga modificato. Tentare di fornire un esempio di ciò che nel Tractatus si intende per oggetto semplice tenendosi al di là di ogni contesto proposizionale determinato significa scontrarsi con una serie di aporie,20 mentre spostare il problema nella direzione di una ricerca empirica significa uscire dal terreno di competenza della logica;21 ma in ogni singola proposizione un esempio di oggetto logicamente semplice è fornito dai significati dei nomi che vi compaiono. La richiesta di indicare un oggetto trova risposta nell’indicazione di un nome, con questa sola aggiunta: «Il nome significa l’oggetto. L’oggetto è il suo significato» (TLP 3.203).

Tentare esemplificazioni dove Wittgenstein si astiene dal farne comporta sempre enormi rischi; si può forse dire, tuttavia, che non ha senso, dal punto di vista di chi interpreta il Tractatus, chiedersi se un libro sia un oggetto, dunque qualcosa di semplice, a prescindere dal ruolo funzionale che la parola «libro» riveste nella proposizione, poiché a seconda dei contesti la risposta potrà essere positiva o negativa. Nel fatto raffigurato dalla proposizione «Il libro è sul tavolo», il libro è un oggetto perché «libro» è un nome; nel fatto raffigurato dalla proposizione «Almeno una delle pagine del libro è mancante», il libro non è un oggetto, perché, come è reso evidente già dalla sintassi della proposizione, esso è preso in considerazione in quanto composito, mentre a essere intese come semplici sono le sue pagine. In un linguaggio logicamente adeguato dovrebbe essere impossibile usare lo stesso simbolo nelle due proposizioni come nel linguaggio quotidiano si usa la stessa parola «libro», e l’ideografia dovrebbe rendere evidente che nella prima proposizione il simbolo è semplice, nella seconda complesso.

Un’altra caratteristica degli oggetti teorizzati da Wittgenstein che può sembrare enigmatica, e forse addirittura, come la questione appena discussa della semplicità, a prima vista può apparire inesplicabile se non nei termini di una metafisica dogmatica (salvo poi una spiegazione del genere rivelarsi per quello che è, cioè non una spiegazione, ma una pretesa che andrebbe giustificata e che invece non lo è e non può esserlo),22 è che essi abbiano «proprietà interne» (cfr. p.e. TLP 2.01231).

Le prime proposizioni di TLP 2*, subito dopo la presentazione della nozione di «stato di cose» in rapporto a quella di «fatto» e la definizione dello stato di cose come collegamento di oggetti, sono dedicate a una discussione più approfondita delle possibilità del reciproco collegamento degli oggetti per dar luogo a stati di cose, e dunque a fatti.

Wittgenstein scrive che «è essenziale alla cosa poter essere parte costitutiva di uno stato di cose» (TLP 2.011), e questo non può stupirci dopo che abbiamo detto ciò che abbiamo già detto: gli oggetti compaiono solo all’interno di stati di cose, dunque di fatti, perché i nomi compaiono sensatamente solo all’interno di proposizioni articolate, mentre se vengono presi in considerazione isolatamente o alla rinfusa essi non risultano più significativi del gesto puramente arbitrario con cui si può battezzare qualcosa in questo modo o in quell’altro. «La cosa è autosufficiente, nella misura in cui essa può comparire in tutti gli stati di cose possibili, ma questa forma dell’autosufficienza è una forma della connessione con lo stato di cose, una forma della non-autosufficienza. (È impossibile che le parole si presentino in due modi diversi, da sole e nella frase.)» (TLP 2.0122). La possibilità che la cosa in quanto tale, in quanto x non ulteriormente determinata (cfr. TLP 4.1272), compaia in tutti gli stati di cose possibili, precisamente perché gli stati di cose sono definiti come collegamenti di oggetti, le conferisce una certa misura di libertà, ma non una misura tale da permetterle di comparire al di fuori di uno stato di cose qualsiasi. Ed è interessante il riferimento alle parole con il quale Wittgenstein tenta di spiegarsi, perché, come si comprende meglio più avanti nel suo testo, l’analogia non è puramente estrinseca: fuori dalla frase la parola è un mero segno, e solo al suo interno può divenire simbolo (cfr. TLP 3.3). È essenziale alla cosa poter essere parte costitutiva di uno stato di cose perché è una necessità logica per il nome poter far parte di una proposizione, e, benché il modo in cui l’uno sta per gli oggetti e il modo in cui l’altra rappresenta i fatti siano profondamente diversi, solo nella compresenza delle due cose (Vertretung e Vorstellung) è possibile la relazione di raffigurazione tra linguaggio e mondo. Questo è appunto ciò che si intende quando si dice che la logica è trascendentale: le proprietà che appartengono a priori alle cose sono quelle che dobbiamo presupporre in esse nella misura in cui il fatto stesso di parlarne presuppone che esse posseggano queste proprietà.

Tuttavia Wittgenstein non tarda ad aggiungere elementi nuovi: «Nella logica niente è casuale: se la cosa può comparire nello stato di cose, allora la possibilità dello stato di cose dev’essere già implicata nella cosa» (TLP 2.012). Questo sembra voler dire non solo che, come dicevamo or ora, l’esistenza di una cosa può solo mostrarsi col comparire il suo nome in proposizioni dotate di senso, e che dunque una cosa fa necessariamente parte di stati di cose; vuol dire anche che, oltre alla necessità di essere parte costitutiva di uno stato di cose, nell’oggetto è già implicata anche la possibilità che esso sia parte costitutiva di certi stati di cose e l’impossibilità che sia parte costitutiva di altri. Le proposizioni successive lo rendono più chiaro: «Se conosco l’oggetto, allora conosco anche tutte le possibilità del suo comparire in stati di cose. (Ogni possibilità del genere deve appartenere alla natura dell’oggetto.) Non si può scoprire in seguito una nuova possibilità. Per conoscere un oggetto non devo, certo, conoscere le sue proprietà esterne – ma devo conoscere tutte quelle interne. Se sono dati tutti gli oggetti, allora sono dati con ciò anche tutti i possibili stati di cose» (TLP 2.0123-2.0124).

Le proprietà interne di un oggetto sono quelle note le quali si sa di quali stati di cose esso può essere parte costitutiva e di quali no; le proprietà esterne sono quelle note le quali si sa di quali stati di cose, tra quelli di cui può essere parte costitutiva, l’oggetto entra effettivamente a far parte, cioè in breve quali stati di cose accadono tra quelli in cui esso può comparire. Se sono conosciuti tutti gli oggetti, e cioè tutte le proprietà interne di tutti gli oggetti, allora si conoscono tutte le possibilità e tutte le impossibilità, si è determinato in modo completo l’insieme dei fatti che possono verificarsi, cioè l’insieme delle proposizioni dotate di senso; se si conoscono di tutti gli oggetti anche tutte le proprietà esterne, allora si conoscono anche tutte le effettività e tutte le ineffettività, sono noti tutti i fatti che davvero si verificano, cioè l’insieme delle proposizioni vere.23 Riprendendo la caratterizzazione degli oggetti come sostanza del mondo, Wittgenstein può allora dire: «La sostanza del mondo può determinare solo una forma e nessuna proprietà materiale. Poiché queste vengono presentate solo attraverso le proposizioni – si costituiscono solo attraverso la configurazione degli oggetti» (TLP 2.0231). La sostanza del mondo è una sorta di Natura naturans data la quale sono determinate tutte le possibilità della Natura naturata, tutte le variazioni modali che possono realizzarsi col configurarsi gli oggetti in un modo oppure nell’altro, ma con la quale non è determinato il prodursi o non-prodursi effettivo di alcuna di esse.

Ma come dobbiamo concepire questi vincoli che gli oggetti pongono alle possibilità del verificarsi di certi e certi fatti? È ormai chiaro che sarebbe del tutto sterile orientare la propria ricerca verso quelle proprietà che verrebbero volentieri attribuite agli oggetti da una fisica o metafisica di carattere dogmatico: gli oggetti semplici del Tractatus non sono né atomi democritei, con uncini e protuberanze che permettono loro di unirsi gli uni agli altri solo in certi modi e non in altri, né atomi nel senso della chimica contemporanea, i cui legami con altri atomi sono determinati nel senso della possibilità o dell’impossibilità dalla configurazione elettronica; e ancor meno sembrerebbe plausibile interrogarsi sulle proprietà che possiedono in sé tavoli, sedie, libri. Piuttosto, ancora una volta, i vincoli ontologici del comportamento degli oggetti andrebbero ricondotti ai vincoli logici del comportamento dei simboli.

«La possibilità del suo comparire in stati di cose è la forma dell’oggetto» (TLP 2.0141), ma la forma di un oggetto non è, come invece la forma di un fatto, qualcosa di complesso, che può essere portato a evidenza per mezzo di un’analisi: «Il nome non può essere scomposto per mezzo di alcuna ulteriore definizione: esso è un segno primitivo. Ogni segno definito designa attraverso quel segno da cui viene definito; e le definizioni mostrano la via. Due segni, un segno primitivo e uno definito attraverso segni primitivi, non possono designare nello stesso modo. Non si può dissezionare i nomi attraverso definizioni. (Né alcun segno che da solo e in modo indipendente ha un significato.) Ciò che nei segni non giunge a espressione viene mostrato dal loro uso» (TLP 3.26-3.262). Conoscere un oggetto significa sapere come usare il simbolo che lo nomina; conoscere tutte le sue proprietà interne, la sua forma, significa padroneggiare la sintassi del suo nome e sapere in quali combinazioni può trovarsi con altri nomi e in quali combinazioni non può trovarsi.24 «Una proprietà è interna se è impensabile che il suo oggetto non la possieda» (TLP 4.123), ma ciò significa semplicemente che è impensabile che un nome abbia proprietà diverse da quelle che ha; se le avesse, sarebbe semplicemente un nome diverso, con una diversa sintassi e un diverso significato.

Qui Wittgenstein sembra meno avaro di esempi che altrove. «La macchia nel campo visivo», egli scrive, «non deve certo essere rossa, ma deve avere un colore: ha intorno a sé, in un certo senso, lo spazio dei colori. Il suono deve avere una altezza, l’oggetto del tatto una durezza ecc.» (TLP 2.0131b). E ancora: «Questo colore blu e quello stanno eo ipso nella relazione interna di più chiaro e più scuro. È impensabile che questi due oggetti non stiano in questa relazione» (TLP 4.123b). Parrebbe che qui egli voglia dire che all’oggetto che è il colore blu, per esempio, appartiene come sua proprietà interna quella di avere un grado di luminosità, esattamente come a uno squillo di tromba appartiene quella di avere un grado di altezza. Questo equivarrebbe a identificare nel Tractatus la presenza di quelli che in Kant sono i giudizi sintetici a priori, e che Husserl, modificando in modo non marginale l’impostazione kantiana e parlando di preferenza di legalità sintetiche a priori, presenta ad esempio nella Terza ricerca logica con esempi molto simili a quelli appena citati;25 ma il risultato di un’opzione esegetica del genere sarebbe in stridente contraddizione con l’impianto generale della logica wittgensteiniana. Per Wittgenstein i soli a priori sono quelli, formali, della logica formale, e le sole proposizioni vere a priori sono le tautologie; queste possono non rivelarsi immediatamente come tali, ma l’analisi proposizionale è sempre in grado – con un mero calcolo, cioè con un procedimento meccanico di pura elaborazione sintattica – di portare a evidenza il fatto che una tautologia, per quanto complessa possa esserne la formulazione simbolica, non dice niente di più rispetto alle proposizioni della logica, come «~(p . ~p)» o «p . qp», e cioè non dice niente del tutto. Che una tautologia sia una tautologia, e una contraddizione sia una contraddizione, può ultimamente sempre vedersi dalla forma della proposizione che la esprime. «Nella sintassi logica il significato di un segno non può mai avere un ruolo; esso deve poter essere stabilito senza che in ciò si parli del significato di un segno; esso può presupporre solo la descrizione delle espressioni» (TLP 3.33).26 Se la proposizione «il blu ha una luminosità» fosse una tautologia, una verità a priori, essa potrebbe esserlo solo per via del significato del segno «blu»; in altri termini, la proposizione «l (b)» (come espressione per mezzo di una simbologia funzionale di «il blu ha una luminosità») può essere determinata come vera solo se si sa che «b» significa «blu», cioè facendo appello anche alla semantica e non solo alla sintassi, poiché se «l (b)» significasse «lo squillo di tromba ha una luminosità» essa non sarebbe vera affatto.

I passi in cui Wittgenstein sembra abbracciare la tesi dell’esistenza di a priori sintetici vanno dunque interpretati in modo da escludere che sia davvero così, e bisogna rimarcare che non vi sono altre alternative, per la decidibilità di una proposizione, che le seguenti due, reciprocamente incompatibili: la formalità (che fa tutt’uno con l’apriorità) o la materialità (che fa tutt’uno con l’aposteriorità).27

Quando dunque, in TLP 4.123b, Wittgenstein scrive: «Questo colore blu e quello stanno eo ipso nella relazione interna di più chiaro e più scuro. È impensabile che questi due oggetti non stiano in questa relazione», bisogna fare attenzione alla precisazione che segue immediatamente: «Qui all’uso oscillante delle parole “proprietà” e “relazione” corrisponde l’uso oscillante della parola “oggetto”» (TLP 4.123c). Un colore, a parlare propriamente, non è un oggetto: «Detto incidentalmente: gli oggetti sono privi di colore» (TLP 2.0232); dire di qualcosa che ha un colore, e per esempio che è blu, significa darne una descrizione suscettibile di verità o falsità, cioè equivale a enunciare una proposizione che raffigura un fatto; un oggetto non può avere un colore perché non può essere descritto, e non può essere descritto perché è semplice. La relazione interna tra un colore blu e un altro è la relazione interna tra due fatti (cfr. TLP 4.122), e tale relazione si rispecchia nella relazione interna che sussiste tra le proposizioni che li descrivono (cfr. TLP 4.124a); e in quest’ultima non vi è niente di sintetico, niente di materiale, poiché essa, in un linguaggio logicamente adeguato, sarà riconoscibile nelle pure proprietà sintattiche di tali proposizioni.28

Analogamente quando, in TLP 6.3751, egli scrive: «Che p.e. due colori siano contemporaneamente in un punto del campo visivo è impossibile, cioè logicamente impossibile, perché è escluso dalla struttura logica del colore», non dobbiamo pensare che vi sia una «logica del colore» nel senso di un «a priori materiale» che ci permetterebbe di dire, secondo un esempio di husserliana memoria, che è impossibile che un oggetto sia al contempo uniformemente rosso e uniformemente verde. L’impossibilità che un punto abbia contemporaneamente due colori diversi è semplicemente l’impossibilità, semplicemente logica, che si verifichino due fatti descritti da altrettante proposizioni che, a fronte di un’ispezione meticolosa della loro forma, risultano l’una in contraddizione con l’altra. Qui Wittgenstein non sta attribuendo un carattere di necessità sintetica a una proposizione («un punto del campo visivo non può avere contemporaneamente due colori diversi») la cui analisi completa ha la forma «~(g (a) . h (a))»: non può farlo perché due proposizioni elementari sono sempre compatibili in quanto indipendenti. Egli considera necessaria tale proposizione solo perché ritiene che la sua analisi completa metta capo a una forma «~(f (a) . ~f (a))»; essa è quindi una tautologia solo perché è una proposizione vuota.29

Quando, infine, in TLP 2.0131b Wittgenstein scrive: «La macchia nel campo visivo non deve certo essere rossa, ma deve avere un colore: ha intorno a sé, in un certo senso, lo spazio dei colori. Il suono deve avere una altezza, l’oggetto del tatto una durezza ecc.», egli, come ormai dovrebbe risultare evidente, parla delle connessioni che gli oggetti possono avere tra di loro, con l’obiettivo di rendere chiaro come «ogni cosa è, per così dire, in uno spazio di stati di cose possibili» (TLP 2.013). Colore, altezza, durezza sono proprietà degli stati di cose, non degli oggetti, e risultano dal legame tra gli oggetti che compongono lo stato di cose, non dagli oggetti presi di per sé.

Le proprietà interne dell’oggetto riguardano solo le sue connessioni possibili o impossibili con altri oggetti, e sono le proprietà puramente sintattiche dei nomi, del tutto indipendenti dalla loro semantica, cioè dal loro significato. In questa misura esse sono proprietà puramente formali, nelle quali non entra alcuna materialità.

Una proprietà interna di un oggetto dev’essere rispecchiata da una proprietà che si vede nel suo simbolo. Ma come è possibile questo, come è possibile che i nomi siano portatori di proprietà sintattiche, se la loro articolazione interna dev’essere irrilevante ai fini dell’immagine? In effetti, che l’articolazione interna di un nome sia irrilevante ai fini della proposizione di cui fa parte fa tutt’uno con l’essere la sua relazione con l’oggetto una relazione di Vertretung, e questo liquida la semantica del nome come qualcosa della più pura arbitrarietà; dal punto di vista della sintassi, invece, l’articolazione interna dei nomi, come dicevo sopra, non è affatto irrilevante, perché è appunto ciò che all’interno della proposizione permette di distinguere nomi diversi. Le proprietà interne degli oggetti saranno dunque visibili nei nomi, nell’essere «A» lo stesso segno che «A» e «B» un segno diverso da «b» e da «β».

I vincoli che gli oggetti pongono al campo di possibilità dell’accadere dei fatti sono molto deboli. Del resto (su questo bisogna insistere) non ci sono per Wittgenstein più necessità di quelle formali che è la logica a imporre, e insomma non ci sono necessità sintetiche, materiali. «Se sono dati tutti gli oggetti, allora sono dati con ciò anche tutti i possibili stati di cose»: ma ciò significa solo che è possibile dire a priori che la proposizione «a R b» è ben formata, che la proposizione «α R β» è ben formata, e che la proposizione «a R β» non lo è. Trovare esempi calzanti è, come sempre, enormemente difficile, ma forse si comprende meglio cosa tutto questo comporta facendo riferimento a un linguaggio diverso da quello verbale, che tuttavia, come questo, ha una natura raffigurativa: una melodia udita può essere trascritta su un pentagramma secondo la notazione abituale (cfr. TLP 4.014), e ne potrà risultare un’immagine di quel fatto che è il brano musicale. Che, se il pezzo è in tre quarti, due minime non possano stare nella stessa battuta si vedrà dal simbolismo stesso, dalla sola padronanza della sintassi di quei segni; non dipenderà affatto dalla durata della nota significata da una minima (e tantomeno dal suo significare un si o un la, una nota di violino o di clarinetto), ma soltanto dal fatto che, qualunque essa sia, essa è più della metà della durata di una battuta di tre quarti. La proprietà di una minima di non poter essere insieme a un’altra minima all’interno di una battuta di tre quarti è una sua proprietà interna, ma questa è una proprietà formale, suscettibile di essere interamente risolta nella sintassi, che non dà alcuna informazione sulla verità o falsità di alcuna proposizione, ma solo sul suo avere senso o esserne priva.

Anche in questo caso, insomma, il tentativo di chiarire le caratteristiche degli oggetti – uno degli elementi dell’ontologia del Tractatus – per mezzo di una chiarificazione delle caratteristiche dei loro corrispettivi logici, ossia i nomi, dà risultati soddisfacenti, e comunque, credo di poter dire, molto più soddisfacenti di qualsiasi indagine sul loro conto che si ponga da un punto di vista non critico, non trascendentale, e consideri le tesi della metafisica come riguardanti le cose in sé anziché ciò che delle cose si può dire a priori nella semplice misura in cui è presupposto, come condizione, dalla possibilità di parlarne in generale.

1.2.2 Il fatto

Se gli oggetti sono per Wittgenstein il semplice, l’inanalizzabile, ciò non significa che essi costituiscano quella che potrebbe essere chiamata «l’unità fondamentale dell’ontologia del Tractatus». Sopra ho già riservato questa qualificazione piuttosto ai fatti, dal momento che Wittgenstein è molto chiaro su un punto chiave: «Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose» (TLP 1.1). A quella che può essere detta «l’unità fondamentale dell’ontologia del Tractatus» deve appartenere il carattere dell’articolazione, piuttosto che quello della semplicità, poiché il mondo stesso, nell’ontologia del Tractatus, è articolato. Ovviamente è di importanza capitale che ogni articolazione presupponga la non-articolazione di alcune sue parti, e dunque senz’altro non potrebbero esservi fatti se non vi fossero oggetti più di quanto potrebbero esservi proposizioni (dal senso determinato) se non vi fossero nomi (dal significato determinato). Il punto di partenza indiscusso di Wittgenstein però, e quindi ciò che credo si possa considerare davvero fondamentale, è il senso:30 l’ambiente nel quale non solo una filosofia, ma anche e soprattutto una scienza, deve muoversi è pur sempre il linguaggio in quanto sistema di proposizioni dotate di senso; la critica del linguaggio, che separa ciò che solo apparentemente è dotato di senso da ciò che davvero dice qualcosa, opera fin dall’inizio sulle proposizioni di un linguaggio quotidiano senza mettere in discussione che alcune di esse abbiano senso; e l’articolazione della proposizione, con la direzionalità, simile a quella di una freccia, che essa le permette di assumere, dunque insomma il senso, è ciò che anche dà significato ai nomi, benché essi siano simili a punti. In un certo qual modo, gli oggetti vengono tematizzati (emergono come elementi dell’ontologia e allo stesso tempo come condizioni di possibilità della raffigurazione) in risposta alla domanda su come sia possibile un linguaggio logicamente adeguato, capace di formulare tutte e sole le proposizioni dotate di senso – mentre la domanda se proposizioni dotate di senso siano possibili non viene affatto posta.

L’originarietà del senso implica l’irriducibilità dell’articolazione; questa non è un’irriducibilità che possa essere intesa come un’inanalizzabilità dei fatti o delle proposizioni (poiché l’analisi dei plessi articolati è sempre possibile e necessariamente mette capo a monadi semplici) e va intesa al contrario banalmente come l’impossibilità di cancellare, o anche solo trascurare, l’articolazione dei fatti che si rispecchia nelle proposizioni senza per ciò stesso rinunciare alla possibilità di esprimere sensi in generale. Il mondo è la totalità dei fatti, non delle cose, e il linguaggio è un sistema di proposizioni articolate, non un elenco o un coacervo di nomi.

È dunque chiaro che l’impalcatura essenziale del mondo di cui Wittgenstein parla nel Tractatus, che consiste nell’essere i fatti dotati di una struttura al loro interno, fa tutt’uno con la forma generale di ogni proposizione dotata di senso, cioè la forma della descrizione di una configurazione di oggetti: «La forma generale della proposizione è: le cose stanno così e così» (TLP 4.5c).

Wittgenstein scrive: «Lo stare in relazione l’uno con l’altro in modo determinato degli elementi dell’immagine rappresenta lo stare così in relazione l’una con l’altra delle cose. Questa connessione degli elementi dell’immagine è chiamata la struttura dell’immagine e la possibilità di questa è chiamata la forma della raffigurazione dell’immagine. La forma della raffigurazione è la possibilità che le cose stiano in relazione l’una con l’altra così come gli elementi dell’immagine» (TLP 2.15-2.151). Tra i fatti e le proposizioni c’è una comunanza di struttura, riconducibile semplicemente al fatto che gli uni e le altre hanno una struttura, e tale comunanza ha un carattere originario. Vi è una correlazione originaria, piuttosto che un’opposizione originaria, tra il linguaggio e il mondo, perché, ancora una volta, ciò che deve appartenere necessariamente al mondo in quanto è dicibile è appunto ciò che rende dicibile il mondo. In questa quasi-tautologia si gioca la natura trascendentale della filosofia della conoscenza del Tractatus: essa consiste senz’altro in una teoria della verità come corrispondenza (TLP 2.223: «Per stabilire se l’immagine è vera o falsa dobbiamo paragonarla con la realtà»), ma la possibilità di tale corrispondenza non è una pretesa superficiale che viene messa sul tavolo a posteriori, a valle dell’elaborazione di una metafisica dogmatica; al contrario, la possibilità della corrispondenza tra la proposizione e il fatto è radicata a priori nell’essere il fatto, in quanto unità ontologica, il correlato necessario della sensatezza della proposizione come unità logica, la sua condizione trascendentale di possibilità. La concezione del linguaggio come immagine, secondo la quale la possibilità della verità è la possibilità dell’isomorfismo tra una proposizione raffigurante e un fatto raffigurato, fa sì che l’isomorfismo tra linguaggio e mondo, la «relazione interna di raffigurazione» che sussiste tra essi (cfr. TLP 4.014), sia una necessità trascendentale, che non potrebbe essere tolta senza togliersi da sotto i piedi il terreno che rende possibile un discorso sensato.31 Per dirla ancora in altri termini: «La forma della raffigurazione è la possibilità che le cose stiano in relazione l’una con l’altra così come gli elementi dell’immagine. L’immagine è legata così alla realtà; essa raggiunge la realtà» (TLP 2.151-2.1511). Questo legame non è accidentale, non può essere paragonabile a una rete gettata sul mondo dalla quale dovremmo aspettarci che molto riesca a sfuggire; poiché noi chiamiamo «mondo» tutto e solo ciò che catturiamo con questa rete.

Alcune tesi di Wittgenstein, se isolate dal contesto o interpretate nella direzione opposta a quella che qui suggerisco, ce lo presenterebbero come un veterometafisico, e, la cronologia impedendo di considerare precritica la sua filosofia, ci troveremmo costretti a giudicarla semplicemente acritica: «Indicare l’essenza della proposizione vuol dire indicare l’essenza di ogni descrizione, e quindi l’essenza del mondo» (TLP 5.4711); «Le proposizioni logiche descrivono l’impalcatura del mondo, o meglio la presentano» (TLP 6.124). Ma qui non si sta ipotizzando un parallelismo spinoziano tra pensiero ed estensione, garantito dall’unità sostanziale di ciò la cui essenza implica l’esistenza; né si sta ventilando la possibilità di una corrispondenza estrinseca, garantita solo da Dio, dell’intellectus e della res, alla maniera di Tommaso o, mutatis mutandis, di Cartesio. Il rispecchiamento qui è necessario in quanto condizione di possibilità della conoscenza: esso non richiede, né ci offre, alcuna verità a priori, ma presuppone solo, e ci garantisce, la disponibilità di quelle forme a priori tolte le quali i fatti non sarebbero descrivibili e il discorso non sarebbe dotato di senso. «La logica non è una teoria, ma un’immagine speculare del mondo. La logica è trascendentale» (TLP 6.13). La logica non è un insieme di proposizioni vere, ma l’insieme di quelle strutture comuni alle proposizioni e ai fatti che permettono alle une di essere immagini degli altri: dunque le proposizioni logiche presentano l’impalcatura del mondo. E se indicare l’essenza di ogni descrizione vuol dire indicare l’essenza del mondo, è perché ciò che appartiene a priori al mondo considerato in quanto esso è descrivibile è che esso abbia una forma tale da poter essere raffigurata dalla forma di una proposizione.

Questo non vuol dire trascurare uno degli aspetti che forse stavano più a cuore a Wittgenstein nella sua concezione del linguaggio, ossia l’estrema concretezza che a suo avviso appartiene alla proposizione e al suo rapporto con ciò di cui essa afferma il sussistere. Parlare a questo proposito di un «realismo» di Wittgenstein non sarebbe inappropriato, anche se ciò darebbe al termine un’accezione leggermente diversa da quella che assume in tutte le altre sue occorrenze in questo saggio e rischierebbe, quindi, di creare confusione; tuttavia per Wittgenstein il linguaggio fa senz’altro parte del mondo almeno nel senso che la proposizione, come ogni immagine, è un fatto (cfr. TLP 2.141), ed è la sua articolazione in quanto fatto che le permette di essere, o non essere, in corrispondenza con il fatto articolato che raffigura. C’è, in effetti, un’omogeneità tra i fatti raffiguranti e i fatti raffigurati, un monismo, e parlare con riferimento al rapporto tra gli uni e gli altri di una logica trascendentale non vuol dire sollevare obiezioni contro quelle interpretazioni del Tractatus che tengono a riaffermare l’omogeneità del linguaggio e del mondo, né tantomeno volerle far sembrare implausibili: anche io ritengo che non vi sia spazio, in Wittgenstein, per alcun dualismo, e assumere un punto di vista trascendentale nell’interpretazione del suo libro vuol dire solamente insistere sul fatto che la possibilità dell’isomorfismo è irriducibilmente presupposta da ogni raffigurazione. Il fatto, in quanto è necessariamente articolato, è originariamente dotato di una forma logica, e la forma logica, in quanto possibilità della struttura in generale, è sempre forma di qualche fatto (cfr. TLP 2.17-2.182).

Anche per quanto riguarda i fatti poi, come per gli oggetti, il tentativo di chiarire alcune loro proprietà da un punto di vista trascendentale può rendere più comprensibili certe posizioni del Tractatus, e mostrare come i diversi aspetti della teoria che vi viene sviluppata sono strettamente interconnessi. Uno di tali aspetti è il radicale anti-necessitarismo che il libro difende: «In nessun modo si può concludere dal sussistere di un certo stato di cose al sussistere di uno stato di cose del tutto diverso da esso» (TLP 5.135).

Il mondo del Tractatus è un mondo in cui i fatti sono rigorosamente indipendenti gli uni dagli altri – in cui, in altre parole, «qualcosa può verificarsi o non verificarsi e tutto il resto rimanere uguale» (TLP 1.21). Se un fatto sia possibile o impossibile può sempre dirsi a priori, per mezzo della valutazione della significanza dei nomi che compaiono nella proposizione che lo raffigurerebbe e della correttezza sintattica di quest’ultima; ma se un fatto possibile si verifichi o non si verifichi è perfettamente contingente, e non c’è modo di prevederlo. Che un fatto accada o non accada può solo essere constatato a posteriori. «Tutto ciò che possiamo affatto descrivere potrebbe anche essere altrimenti» (TLP 5.634b-c).

La tesi secondo cui qualcosa come un nesso di causalità semplicemente non vi è (cfr. TLP 5.136) costituisce una riformulazione di questa stessa professione di indeterminismo. La pretesa che un evento possa essere causa di un altro evento, da esso separato, equivale alla pretesa che tra due fatti logicamente indipendenti possa essere stabilita una dipendenza di tipo non strettamente logico; ma una dipendenza di tipo non strettamente logico è proprio ciò di cui Wittgenstein contesta la possibilità, poiché se due fatti sono dipendenti ciò deve potersi vedere nella struttura delle proposizioni che li raffigurano. «Una coercizione per cui qualcosa debba avvenire perché qualcos’altro è avvenuto non vi è. Vi è solo una necessità logica» (TLP 6.37). La sola inferenza che la logica del Tractatus ammette è quella vuota, puramente formale, che può compiersi in accordo con le regole della propria notazione senza che niente venga aggiunto, con le conseguenze, a ciò che è già contenuto nelle premesse (cfr. TLP 5.14): dunque una deduzione in senso stretto, del tipo che consente di passare da «p . q» a «p», e che non richiede che sia formulata che una tautologia: «p . qp». Al contrario, un’inferenza induttiva, di carattere sintetico, tale per cui vi sia nelle conseguenze qualcosa che non vi era nelle premesse, come ad esempio quella che tentasse di concludere da «la pentola d’acqua è sul fuoco» a «l’acqua si scalderà», e che avrebbe la forma «pq», non è affatto legittima, come si vede dall’ispezione della proposizione simbolica (cfr. TLP 5.1362): insomma, «la credenza nel nesso di causa è la superstizione» (TLP 5.1361b). Per Wittgenstein, come a suo tempo per Hume, la ragione non è che la logica, e da un punto di vista logico tutto ciò che non è contraddittorio è possibile; non vi è, a priori, un nesso causale, e anzi «se ragioniamo a priori qualunque cosa può apparire in grado di produrre qualunque cosa»; ogni restrizione al campo del possibile che ambisca ad andare oltre l’esclusione di ciò che è semplicemente contraddittorio non è più una restrizione logica, non è più puramente razionale; per uno spirito logico veramente austero ogni assurdità superstiziosa («che gli alberi parlino, che gli uomini si tramutino improvvisamente in pietre o in sorgenti, che negli specchi appaiano spettri, che il nulla diventi qualcosa»)32 è una possibilità, e solo la pretesa che sia impossibile più di quanto è contraddittorio è davvero superstiziosa.33

Quando Wittgenstein afferma che «la causalità non è una legge, ma la forma di una legge» (TLP 6.32), egli intende dire che non vi sono legalità necessarie se non formali. L’asserzione che un fatto è la causa di un altro non può avere un carattere necessario se non appiattendosi sull’asserzione che un fatto ne implica logicamente, cioè contiene in senso forte, un altro; e questo evidentemente non può essere detto, ma si mostra nella proposizione stessa che descrive il fatto «maggiore». «Se vi fosse una legge di causalità, essa potrebbe avere questo aspetto: “Vi sono leggi naturali”. Ma ciò non può certo essere detto: ciò si mostra» (TLP 6.36). Le «leggi naturali» il cui esservi si mostra nell’uso adeguato del linguaggio sono leggi puramente logiche, non fisiche: analitiche, non sintetiche. Wittgenstein scrive, richiamandosi a un Hertz che suscita fortissime reminiscenze kantiane, che «solo le connessioni conformi a leggi sono pensabili» (TLP 6.361); ma tali leggi non sono, come erano in Kant, unità concettuali di un molteplice sensibile, bensì si riducono in Wittgenstein alle condizioni logiche di possibilità della rappresentazione, ossia dell’immagine in quanto ha la stessa molteplicità del fatto di cui è immagine, e della combinazione verofunzionale, semplicemente sintattica, delle proposizioni elementari. Solo le connessioni conformi a leggi sono pensabili, ma «l’esplorazione della logica significa l’esplorazione di tutte le conformità a leggi. E al di fuori della logica tutto è caso» (TLP 6.3). La logica è l’esplorazione di tutte le conformità a leggi: non vi sono conformità a leggi che non siano di carattere strettamente logico. Non vi è alcuna necessità sintetica a priori.

Per quanto controintuitiva, per quanto filosoficamente apocalittica, la tesi di Wittgenstein secondo la quale il nesso di causa ed effetto non esiste affatto è, all’interno del sistema del Tractatus, del tutto giustificata: non, ancora una volta, come se una sua giustificazione potesse essere prodotta nei termini di una deduzione da un assioma uguale e contrario a quello spinoziano secondo cui «da una data causa determinata segue necessariamente un effetto e, al contrario, se non si dà alcuna causa determinata è impossibile che segua un effetto»,34 ma nel senso che, da un punto di vista trascendentale, l’anti-necessitarismo fisico del Tractatus fa tutt’uno con il suo formalismo logico.

L’impossibilità di una connessione causale tra un fatto che accade e l’accadere di un altro fatto è l’impossibilità di un’inferenza logica (solo logica) che ci faccia concludere da una proposizione elementare a un’altra proposizione elementare, o comunque da una proposizione a un’altra che nella prima non era già implicata. «Che la verità di una proposizione segue dalla verità di altre proposizioni si vede dalla struttura delle proposizioni. Se la verità di una proposizione segue dalla verità di altre, questo si esprime attraverso relazioni in cui le forme di quelle proposizioni stanno l’una con l’altra; in effetti non abbiamo bisogno di essere noi a metterle in quelle relazioni collegandole l’una con l’altra in una proposizione; bensì queste relazioni sono interne, sussistono non appena sussistono quelle proposizioni e per il sussistere di quelle proposizioni. Se concludiamo da pq e ~p a q, qui la relazione delle forme proposizionali di “pq” e “~p” è nascosta dalla modalità di simbolizzazione. Ma se p.e. scriviamo “p | q . | . p | q” invece che “pq” e “p | p” (dove p | q = né pq) anziché “~p”, allora la connessione interna diviene evidente. […] La modalità dell’inferenza va tratta soltanto dalle due proposizioni. Solo esse stesse possono giustificare l’inferenza» (TLP 5.13-5.132). Il passaggio dalla verità di una proposizione alla verità di un’altra è risolvibile tramite l’automatismo del calcolo verofunzionale, e cioè non richiede che l’applicazione delle regole sintattiche. «Ogni deduzione avviene a priori. Da una proposizione elementare non è possibile dedurne un’altra. In nessun modo si può concludere dal sussistere di un certo stato di cose al sussistere di uno stato di cose del tutto diverso da esso. Un nesso di causa che giustifica una tale inferenza non vi è» (TLP 5.133-5.136).35

L’indipendenza degli stati di cose gli uni dagli altri insomma non è una proprietà delle unità ontologiche discusse nel Tractatus se non nella misura in cui è allo stesso tempo una proprietà del linguaggio che deve raffigurare quelle unità. Se la sola connessione tra una proposizione e un’altra è data dall’essere la prima complessa abbastanza da contenere la seconda, e quindi da permettere di dedurla, benché in modo formale, cioè in definitiva banale, allora tra due fatti non ci sarà affatto alcuna connessione se essi sono davvero due fatti, se cioè uno dei due non è una semplice parte dell’altro. Dunque ad esempio i fatti ridotti, per così dire, ai minimi termini, ossia gli stati di cose, sono tutti reciprocamente indipendenti, e questo non è che un modo diverso di dire che la logica del Tractatus è una logica solamente formale, senza niente di sintetico.

Dire che il libro propugna un anti-necessitarismo è corretto se con quel termine si vuole contrapporre la filosofia del giovane Wittgenstein a quelle che, da un punto di vista storico, vengono legittimamente etichettate come necessitariste, tra le quali quella spinoziana, di cui mi sono servito per alcune esemplificazioni, è evidentemente una capofila; tuttavia nel Tractatus non si procede a un’esclusione di tutte le forme di necessità, e il mondo che vi viene schizzato non è totalmente anarchico. Ciò che Wittgenstein sostiene è che la sola necessità è una necessità logica, dove con ciò si intende che la sola inferenza valida è quella deduttiva, analitica. Le relazioni che legano una proposizione «p . q» a una proposizione «p» sono relazioni interne, visibili nel segno proposizionale, e dunque la deduzione dall’una all’altra è legittima e avviene secondo necessità; ma le relazioni che legano una proposizione «p» a una proposizione «q» sono relazioni esterne, che possono sussistere o non sussistere, e che possono solo essere constatate guardando i fatti. Gli avvenimenti futuri potrebbero essere conosciuti a partire da quelli attuali «solo se la causalità fosse una necessità interna, come quella delle inferenze logiche» (TLP 5.1362).

Interne sono le proprietà degli oggetti che ci permettono di sapere in anticipo in quali stati di cose essi possono o non possono comparire, dunque in definitiva quali fatti sono possibili e quali impossibili; e su tutto l’ambito delle proprietà interne può essere esteso il dominio della necessità. Ma le proprietà esterne, proprio in quanto non ricadono nel perimetro sicuro del gioco puramente combinatorio della sintassi, sono escluse da ogni conoscenza a priori e sottratte alla necessità. Wittgenstein scrive che «non vi è alcun ordine a priori delle cose» (TLP 5.634), e questo vuol dire che le configurazioni che gli oggetti assumono, le affezioni della sostanza che effettivamente si danno, rispondono all’assoluta contingenza con cui una proposizione elementare può rivelarsi vera oppure falsa; anche se questo non vuol dire che non vi sia, per così dire, alcun ordine a priori dei fatti, perché un discrimine tra le configurazioni di oggetti che sono possibili e quelle che non lo sono si dà nel momento stesso in cui è data la forma delle cose, e si dà necessariamente.

Tutto questo permette di trarre alcune conclusioni sulla logica del Tractatus come logica trascendentale. Il Tractatus muove dal presupposto non implicito, ma ingiustificato, di un isomorfismo profondo tra linguaggio e mondo, il quale trova nella teoria della raffigurazione un’elaborazione pienamente soddisfacente, almeno ai fini del Tractatus stesso: se il linguaggio descrive il mondo e il mondo è descritto dal linguaggio è perché la proposizione dotata di senso ha una struttura, dovuta alla configurazione in cui si trovano al suo interno segni funzionalmente semplici, la quale può corrispondere alla struttura della configurazione di cose relativamente semplici all’interno di un fatto se ognuno dei segni semplici sta per una cosa semplice. Questo isomorfismo profondo è anche del tutto superficiale: la forma di una proposizione, e in generale di un’immagine, è la possibilità che in essa elementi semplici stiano in relazione gli uni con gli altri secondo una struttura determinata, la quale è semplicemente visibile, alla stregua della struttura del fatto che, se sussiste, è raffigurato veridicamente da quel fatto che è la proposizione, e altrimenti falsamente. «Ciò che ogni immagine, di qualunque forma, deve avere in comune con la realtà per poterla raffigurare – in modo corretto o errato – è la forma logica, cioè la forma della realtà» (TLP 2.18).

La domanda su come una conoscenza scientifica sia in generale possibile, che per Wittgenstein coincide con la domanda su come sia in generale possibile una proposizione dotata di senso, trova risposta nell’indicazione della correlazione originaria tra le forme della realtà e le forme del linguaggio, nel loro avere irriducibilmente qualcosa in comune per il fatto che la forma dell’oggetto del pensiero è la forma del pensiero dell’oggetto. Tra i molti che si sono espressi in favore di questa interpretazione, Hao Tang mi sembra averlo fatto in modo particolarmente incisivo:

La forma generale di una proposizione è le cose stanno così e così (4.5). Ma questo è precisamente quanto dire che la realtà è in un certo modo. Quindi la forma generale della proposizione è precisamente la forma generale della realtà. Perciò Wittgenstein chiama forma logica, che è intrinseca a qualsiasi proposizione in quanto immagine, anche la forma della realtà (2.18); ed egli stabilisce un’equazione anche tra «l’essenza di una proposizione», «l’essenza di ogni descrizione» e «l’essenza del mondo» (5.4711). Il punto fondamentale qui potrebbe essere formulato così: c’è un’identità di forma tra la realtà e il linguaggio. Il linguaggio è ciò che rappresenta la realtà, e la realtà è ciò che è rappresentato dal linguaggio – essi sono correlati reciproci intrinsecamente connessi.36

Il presupposto dell’unità di questi due poli, realtà e linguaggio, è appunto ingiustificato, ma non potrebbe non esserlo più di quanto la domanda se una conoscenza scientifica sia in generale possibile potrebbe trovare una risposta positiva che non presupponga se stessa (mentre una risposta negativa fatalmente si contraddirebbe). (Nel razionalismo critico che anima le filosofie trascendentali, insomma, niente è misterioso; il rapporto tra conoscente e conosciuto non ha niente di magico. Questo non significa che nessuna domanda rimanga senza risposta, ma unicamente che viene dato per scontato solo ciò che è impossibile non dare per scontato, dal momento che non tutte le domande sono legittime, e per esempio non è legittimo mettere in questione la possibilità della conoscenza in generale. Questo punto può apparire, in questo contesto, una semplice ripetizione o una divagazione inutile, ma sarà di importanza centrale nella mia trattazione della problematica trascendentale in Della certezza.)

La forma logica, nel Tractatus, è presentata come la possibilità generalissima che alcune cose assumano le une in rapporto alle altre una struttura tale da permettere al complesso che ne nasce di essere un fatto raffigurabile (il che è quanto basta anche per permettergli di essere un fatto raffigurante): la forma logica, in breve, è la possibilità generalissima del darsi di immagini, e dunque di proposizioni dotate di senso. La logica, perciò, è in quanto tale trascendentale. Se nel libro vi è una deduzione trascendentale, cioè un’argomentazione volta a mostrare la validità oggettiva dei mezzi con i quali esprimiamo i nostri giudizi, essa consiste nell’operazione con cui si mostra che se una proposizione deve avere senso essa deve essere l’immagine di un fatto. Nel Tractatus non può quindi esserci una distinzione, come quella che Kant stabilisce nella Critica della ragion pura, tra una logica formale, o «logica generale pura», che si occupa «soltanto di meri princìpi a priori ed è un canone dell’intelletto e della ragione, solo però rispetto a ciò che nel loro uso vi è di formale, qualunque sia il suo contenuto» (KrV B77); e una «logica trascendentale» che pure «ha a che fare soltanto con le leggi dell’intelletto e della ragione, ma solo in quanto si riferisce a priori ad oggetti» (KrV B81). Come nota sempre Hao Tang, la logica in Wittgenstein è sempre già trascendentale, è sempre già la logica del mondo. Ma la logica che in Wittgenstein è trascendentale è una logica puramente formale.37

È chiaro quale posto occupa nell’economia del Tractatus la chiarificazione del funzionamento dell’ideografia in quanto contrapposta al lassismo del quotidiano e agli sproloqui dei filosofi: si tratta di enucleare la «grammatica logica» (TLP 3.325), le regole in accordo con le quali devono essere costruite le proposizioni affinché la loro sensatezza sia garantita a priori. Ma il breve corso di logica che il Tractatus fornisce ai suoi lettori permette infine di manipolare solo nomi, funzioni e un set di connettivi logici – negazione, congiunzione, disgiunzione, implicazione… – che, come aveva mostrato a suo tempo Sheffer, possono anche essere ridotti a un connettivo solo. Tutta la sfera dell’a priori che Wittgenstein riconosce si riduce a pochi formalismi, a qualche espediente sintattico che può essere esemplificato dall’analisi verofunzionale di una proposizione complessa, e comunque non contiene niente di sintetico.

Così, ad esempio, quella che in Kant è l’istanza paradigmatica di un giudizio sintetico a priori, cioè il principio secondo cui niente avviene senza causa, non trova in Wittgenstein alcun corrispettivo. Kant qualifica la causalità come un concetto puro dell’intelletto (dove «puro» significa che esso non si origina da alcunché di empirico, benché ovviamente poi trovi nell’esperienza la sua applicazione) perché nel suo quadro teorico la percezione può mettere a nostra disposizione una serie lunga a piacere di casi in cui un fatto A è seguito da un fatto B, e può quindi autorizzarci a dire «B poiché A», ma non può mai metterci a disposizione la necessità della connessione tra A e B di cui avremmo bisogno per dire legittimamente «B perché A»; cosicché non sono gli innumerevoli casi in cui ad A segue B che, magari creando in noi qualcosa di così accidentale come un’abitudine, ci permettono di parlare di un nesso causale oggettivamente valido, bensì è la sussunzione di quei casi molteplici sotto un concetto che non nasce dall’esperienza, ma la organizza, e che trae la sua legittimità unicamente dal fatto di essere presupposto dalla possibilità stessa di una scienza della natura. In realtà, poi, in Kant il «filo conduttore» per la scoperta dei concetti puri dell’intelletto (cfr. KrV B91), che lo convince di averli trovati tutti e di averne compilato una tavola sistematica ed esaustiva, è fornito dalla tavola dei giudizi, dal momento che il giudizio è l’unione in una coscienza di una molteplicità di rappresentazioni e un concetto puro «rappresenta, come determinata in sé, l’intuizione riguardo all’una piuttosto che all’altra forma del giudizio, cioè un concetto di quella unità sintetica delle intuizioni che può esser rappresentata soltanto da una data funzione logica dei giudizi» (P 304, e cfr. KrV B93-128). In tal modo l’argomentazione di Kant (come è reso particolarmente evidente dall’andamento «analitico» dei Prolegomeni, cfr. P 263, 274-275) consiste in effetti nel prendere in considerazione la scienza della natura come Faktum e nell’isolare le forme dei giudizi di cui essa non può fare a meno per il proprio funzionamento. Il valore universale e necessario dei giudizi operati grazie ai concetti puri dell’intelletto sarà dunque tutto e solo il valore universale e necessario del sistema della scienza naturale di cui Kant chiede come (non se) sia possibile.

In breve, Kant considera un giudizio come «se A, allora B» (che, in quella che egli chiama «logica trascendentale» contrapponendola alla «logica generale pura», cioè formale, equivale a «A causa B») come parte integrante della grammatica del linguaggio scientifico;38 Wittgenstein, il cui criterio per la scientificità è il criterio della sensatezza espresso dalla dottrina della raffigurazione (e per il quale la sola logica, dunque anche la sola logica trascendentale, è la logica formale), no. Che un filosofo concepisca la logica come trascendentale, che guardi a essa come alla forma che, in quanto comune alla conoscenza e al mondo, permette alla prima di far presa sul secondo e al secondo di essere descritto dalla prima, non dice ancora niente su quale logica egli abbia in mente. E a seconda della logica che viene assunta come trascendentale, la scienza (e anche solo l’insieme di usi linguistici dotati di senso) che risulta possibile varia considerevolmente. Questa conclusione è importante non solo per la caratterizzazione della filosofia trascendentale del Tractatus nei suoi tratti propri e in rapporto a Kant, ma anche, come si vedrà in seguito, come base per identificare alcune rilevanti continuità nello sviluppo storico del pensiero di Wittgenstein.

1.2.3 La concezione della scienza del Tractatus

La scienza che Kant si sforza di chiarire nella sua possibilità è con ottima approssimazione quella elaborata da Newton circa un secolo prima della pubblicazione della Critica della ragion pura; il dominio delle proposizioni scientifiche, cioè dotate di senso, che Wittgenstein circoscrive è invece molto più ristretto.

La concezione del linguaggio come immagine fa sì che nel Tractatus la scienza sia concepita come una restituzione speculare del mondo, una sua rappresentazione equinumerosa (né sovradeterminata, né sottodeterminata). Quante sono le relazioni che possono essere asserite tra oggetti che possono essere nominati, tante sono le proposizioni dotate di senso. Ogni proposizione è articolata come è articolato il fatto che essa raffigura, e proposizioni complesse possono essere formate a partire da quelle semplici come proposizioni semplici possono essere ottenute per analisi da quelle complesse, ma questi procedimenti di composizione e scomposizione non aggiungono mai nulla alla nostra conoscenza, perché si tratta di vuote combinazioni verofunzionali, sempre riducibili alla sola sintassi. Il sussistere o non-sussistere degli stati di cose si constata, e non c’è matassa di stati di cose tanto intricata che non possa essere sbrogliata leibnizianamente, prendendo carta e penna e dicendosi: calculemus. In tal modo per la conoscenza esaustiva del mondo è sufficiente la conoscenza di tutte le proposizioni elementari, dell’elenco amorfo, non gerarchizzato (cfr. TLP 5.556), di quelle proposizioni che, ridotte ai minimi termini, risultano reciprocamente incommensurabili, e sono ciascuna indipendente dalle altre: «L’enunciazione di tutte le proposizioni elementari vere descrive il mondo completamente» (TLP 4.26).

Nella dottrina wittgensteiniana della raffigurazione, dove affinché un fatto sia immagine di un altro è necessaria e sufficiente la corrispondenza della configurazione delle parti costitutive dell’uno e dell’altro, non c’è a ben guardare niente che impedisca al commentatore di dire che se un fatto è immagine di un altro, allora anche questo è immagine di quello. La simmetria della relazione di isomorfismo comporta la simmetria della relazione di raffigurazione. Se lo spartito è immagine della melodia, anche la melodia è immagine dello spartito: «Che vi sia una regola generale mediante la quale il musicista può trarre la sinfonia dalla partitura, e che ve ne sia una mediante la quale si può trarre dal solco del disco per il grammofono la sinfonia e poi, secondo la prima regola, di nuovo dedurre la partitura – in questo appunto consiste la somiglianza interna di queste forme apparentemente così diverse» (TLP 4.0141).39

La scienza che viene teorizzata nel Tractatus, dunque, non si compone di giudizi nel senso kantiano dell’unione in una coscienza di una molteplicità di rappresentazioni: le proposizioni sono immagini, modelli dei fatti. Gli stessi concetti, che sono per Wittgenstein il correlato delle funzioni (cfr. TLP 4.126c), possono comparire in un linguaggio logicamente adeguato solo come semplificazioni sintattiche di proposizioni che asseriscono o negano il sussistere di fatti (per esempio l’espressione «f (x)» potrebbe essere usata per scrivere in modo compatto «x R b . x R c»). Gli stessi nomi, lungi dal comportarsi come nomi comuni di cui l’estensione e l’intensione possono essere difficili da conciliare, stanno nell’immagine in un rapporto uno-a-uno con gli oggetti per cui stanno, e stanno per oggetti precisamente nella misura in cui l’eccesso di articolazione del nome in rapporto alla semplicità dell’oggetto non ha alcun ruolo raffigurativo, e l’eccesso di articolazione dell’oggetto in rapporto alla semplicità del nome non viene raffigurato. In fondo la scienza che viene teorizzata nel Tractatus non è affatto nemmeno una teoria, poiché non permette che la pluralità dei fatti trovi un ordine più alto nella sintesi offerta da un principio unificatore: quando ben avessimo a disposizione la totalità delle proposizioni elementari vere avremmo a disposizione una replica del mondo che contiene esattamente la stessa quantità di dettagli del mondo stesso – avremmo non una conoscenza del mondo, una sua semplificazione, una sua interpretazione, ma un secondo mondo, non uguale al primo, né per forza simile a esso, ma nel quale, a valle della raffigurazione, sarebbe differenziato esattamente tanto quanto era differenziato a monte di essa, e per il quale il problema della conoscenza, se si era già posto, dovrebbe porsi di nuovo per gli stessi motivi della volta precedente.

Arrivati a questo punto, potrebbe persino essere lecito chiedersi se quello che Wittgenstein ha elaborato nel tentativo di sviluppare un linguaggio perfetto è ancora un linguaggio, e cioè cosa resta del lògos quando si toglie la dialettica inesauribile di uno e molteplice, identità e differenza. In questa domanda retorica, credo, consiste l’obiezione più seria che può essere mossa contro la filosofia del Tractatus.

1.3 I limiti del dicibile e i limiti del mondo

Un discorso sulle condizioni di possibilità della conoscenza può difficilmente essere separato da un discorso sui limiti di essa – dove c’è un’analitica trascendentale, si potrebbe dire, non manca quasi mai una dialettica trascendentale.40

Un’impostazione filosofica di carattere trascendentale, in effetti, fa leva fin dal suo inizio sul limite per assicurarsi un dominio ragionevolmente saldo su ciò che cade al di qua di esso: diversamente dagli approcci fondazionalisti, per cui, sotto qualche forma, il punto di partenza dell’argomentazione va rintracciato in una verità incondizionata, l’approccio trascendentale cerca piuttosto le condizioni date le quali può darsi la verità. Come già dicevo, rinunciare all’incondizionatezza della verità permette di appoggiarsi a un terreno di verità condizionato, e le forme di questa condizionatezza sono le condizioni di possibilità della verità su quel terreno.

In Kant, per esempio, il terreno di verità condizionato è quello dell’esperienza, cioè della sensibilità strutturata secondo le forme dello spazio e del tempo per dar luogo alla percezione e della percezione strutturata secondo le forme dell’intelletto per dar luogo a giudizi di validità oggettiva. Ciò significa che niente può essere conosciuto che non abbia un riscontro sensibile, e che quindi gli usi dei concetti al di là di un riempimento fenomenico possibile sono vuoti, e dialettici. L’esclusione dell’accessibilità epistemica di ciò che trascende i limiti e le condizioni di possibilità della conoscenza in generale fa tutt’uno con la riaffermazione dell’accessibilità di ciò che invece è immanente: allo scetticismo che nasce inevitabilmente dalla frustrazione di chi tenta di conoscere le cose in sé si contropropone lo scioglimento del fondamentale equivoco filosofico a cui quello scetticismo è dovuto, e ne nasce un’alternativa molto semplice: o rivolgersi alle cose in quanto sono date a noi, cioè in quanto fenomeni, e allora conoscere, o rivolgersi alle cose al di là della misura in cui sono attingibili per la nostra sensibilità, ma allora non conoscere affatto (cfr. KrV BXX).

In Wittgenstein il terreno di verità condizionato è quello del linguaggio conforme alla sintassi logica, cioè delle proposizioni che raffigurano fatti. Niente è conoscibile che non possa essere espresso da una proposizione; nessuna domanda è sensata che non possa trovare risposta nell’affermazione che un fatto accade o non accade. Per dotarsi di un terreno di verità solide bisogna rinunciare a tentare di spingersi al di là del limite della conoscenza possibile, dove le condizioni di possibilità della conoscenza non sono più soddisfatte. Tutto ciò che non è un fatto possibile dev’essere taciuto dal linguaggio. «Ciò che può essere detto può essere detto in modo chiaro; e di ciò di cui non si può parlare si deve tacere» (TLP Pref.).

L’interpretazione trascendentale della filosofia wittgensteiniana, che finora ho svolto mostrando come ciò che appartiene essenzialmente al mondo è anche ciò che appartiene essenzialmente al linguaggio, può quindi essere proseguita con un discorso analogo ma di segno opposto, mostrando cioè come ciò che è escluso dal linguaggio è anche escluso dal mondo.

Wittgenstein scrive: «La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti» (TLP 5.61). La forma della proposizione e la forma del fatto sono una e la stessa, ossia la forma logica, e l’essenza di ogni descrizione possibile di un evento è l’essenza di ogni evento suscettibile di essere descritto. L’impalcatura del mondo è allo stesso tempo la grammatica del linguaggio dotato di senso; i vincoli a priori che determinano cosa può e cosa non può accadere lo fanno determinando cosa ha senso dire e cosa no. Il mondo e il linguaggio sono originariamente correlati, e il mondo non può estendersi oltre la logica (non può sussistere un fatto che non può essere descritto) come la logica non può estendersi oltre il mondo (non può darsi una proposizione dotata di senso che descrive un fatto impossibile). Questo punto è illustrato icasticamente da A.W. Moore:

Il linguaggio è la totalità delle proposizioni; il mondo è la totalità dei fatti; e i limiti di queste totalità coincidono, cioè ogni possibile proposizione esprime un fatto possibile e ogni possibile fatto è espresso da una possibile proposizione. Ma esse coincidono non perché i limiti di una delle due sono limitazioni poste in qualche modo dall’altra, e nemmeno perché i limiti di entrambe sono limitazioni poste in qualche modo dal soggetto, ma precisamente perché essi sono i limiti di due totalità formali che devono essere concepite l’una nei termini dell’altra.41

Gli usi del linguaggio che, sotto il microscopio dell’analisi wittgensteiniana, si rivelano privi di senso, e che la critica del Tractatus dunque è volta a escludere, sono molteplici; la loro trattazione inoltre non è concentrata in una sezione determinata del libro, cosicché in effetti svolgere una fenomenologia del nonsenso per come è caratterizzato dalla teoria raffigurativa del linguaggio equivale a ripercorrere, con un occhio di riguardo per questa problematica, praticamente tutto il Tractatus.

Se le proposizioni elementari raffigurano stati di cose, e gli stati di cose sono tanto contingenti quanto le proposizioni elementari sono indipendenti le une dalle altre, ciò vuol dire che non è possibile stabilire un orientamento assiologico, secondo il meglio e il peggio, dei fatti. I fatti sono tutti sullo stesso piano, come le proposizioni (cfr. TLP 6.4), e la necessità che dovrebbe appartenere ai valori per permettere loro di essere effettivamente tali, per consentire di trattarli come boe nel mare in tempesta di ciò che accidentalmente accade, non può essere trovata nel mondo. «Nel mondo tutto è come è e tutto avviene come avviene; non vi è in esso alcun valore – e se vi fosse, non avrebbe alcun valore. […] Ciò che [rende l’accadere] non-casuale non può trovarsi nel mondo, poiché altrimenti sarebbe di nuovo casuale. Deve trovarsi al di fuori del mondo. Perciò non può nemmeno esservi alcuna proposizione dell’etica» (TLP 6.41-6.42). Un’etica puramente fattualistica, composta di proposizioni tali da descrivere comportamenti, premi e punizioni non esprimerebbe niente che abbia a che fare col bene o col male (cfr. TLP 6.422). Del resto un imperativo categorico, così come la volontà buona, o il senso della vita, non sono fatti, cioè non possono essere descritti da proposizioni dotate di senso, e quindi non possono trovare espressione in un linguaggio logicamente adeguato. Dunque «l’etica non può essere enunciata» (TLP 6.421).

La dialettica trascendentale di Wittgenstein, se può essere chiamata così, ripercorre piuttosto da vicino le tappe di quella di Kant. Il problema dell’immortalità dell’anima è un problema per risolvere il quale bisognerebbe porsi da una prospettiva che toglie le condizioni di possibilità di una risposta qualsiasi: «Con la morte, il mondo non si modifica, ma finisce» (TLP 6.431). Dal punto di vista della morte è impossibile indicare l’accadere o il non accadere di qualcosa nel mondo, poiché la morte è il venir meno, in blocco, del mondo. Il problema del mondo come totalità, e per esempio del suo senso in quanto totalità, è a sua volta un problema mal posto, destinato a non trovare soluzione, poiché le sole soluzioni possibili in generale devono avere la forma di descrizioni di fatti, e i fatti accadono nel mondo. Come il mondo è, cioè quali fatti al suo interno accadono o non accadono, può essere descritto, ma che il mondo è non è un fatto e non può essere raffigurato da alcuna proposizione dotata di senso. «Il sentimento del mondo come tutto limitato è il sentimento mistico» (TLP 6.45b), cioè appunto in primo luogo un sentimento (non una descrizione) e in secondo luogo mistico (non articolabile razionalmente, ma solo fruibile in silenzio). Infine, «Dio non si manifesta nel mondo» (TLP 6.432); a ciò il Tractatus non aggiunge altro, ma, benché il punto sia ormai sufficientemente chiaro, i Quaderni ci permettono di chiudere il cerchio: «Il senso della vita, cioè il senso del mondo, possiamo chiamarlo Dio» (TB 11.6.16) e «credere in un Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita. Credere in un Dio vuol dire vedere che i fatti del mondo non son poi tutto» (TB 8.7.16).

Un discorso del tutto simile a quello che vale per l’etica può essere svolto per l’estetica. L’esclusione di quest’ultima dall’ambito del dicibile avviene nel Tractatus in modo molto rapido, con un inciso che si limita a stabilire un’equazione tra estetica ed etica e quindi l’impossibilità della prima come corollario dell’impossibilità della seconda: «È chiaro che l’etica non può essere enunciata. L’etica è trascendentale. (Etica ed estetica sono uno.)» (TLP 6.421). Che Wittgenstein concepisca l’estetica come equivalente all’etica vuol dire che i valori che dovrebbero essere in gioco per dare senso a proposizioni che vertono sul bello sono dello stesso tipo dei valori che darebbero senso alle proposizioni sul buono; ma valori del genere non sono fatti, e quindi le proposizioni che tentano di alludere a essi sono solo pseudo-proposizioni. I Quaderni aggiungono, in questo caso, qualche dettaglio rilevante. «Il miracolo per l’arte», scrive Wittgenstein, «è che il mondo v’è; che v’è ciò che v’è» (TB 20.10.16). E aggiunge: «L’essenza del modo di vedere artistico è vedere il mondo con occhio felice? […] Infatti c’è pur qualcosa nella concezione che il bello sia il fine dell’arte. E il bello è appunto ciò che rende felice» (TB 20-21.10.16). Il buono e il bello sono riconducibili al fattore comune della felicità, poiché, come la cosa bella deve rendere felice, l’azione buona deve rendere felice (cfr. TLP 6.422). Ma la felicità non ha a che fare con l’accadere, nel mondo, qualcosa o qualcos’altro; essa risponde a un «ridursi o crescere come intero del mondo», e cioè «il mondo di colui che è felice è un mondo diverso rispetto a quello di colui che è infelice» (TLP 6.43b-c). L’etica e l’estetica hanno ugualmente a che fare con il che del mondo, non con il suo come – e tutta la loro ineffabilità consiste in questo. «Non come è il mondo è il mistico, ma che esso è» (TLP 6.44).

«L’etica», scrive ancora Wittgenstein, nei Quaderni, «non tratta del mondo. L’etica deve essere una condizione del mondo, come la logica. Etica ed estetica sono tutt’uno» (TB 24.7.16). Il che del mondo, che non può essere descritto da proposizioni dotate di senso, è tuttavia presupposto da ogni descrizione del come del mondo. In questo senso l’etica è trascendentale, in questo senso l’estetica è trascendentale, e in questo senso è trascendentale anche la logica: tutte e tre, quando tentano di assumere una formulazione linguistica, tentano di dire qualcosa sul che del mondo; ma ciò che esse vogliono dire, e che è presupposto dalle proposizioni che hanno a che fare con il come del mondo, si mostra in queste proposizioni, e non può essere detto.

E in questo senso l’etica, l’estetica e la logica sono trascendenti. Si è creduto di poter accusare Wittgenstein di disconoscere, o persino di non conoscere, la differenza tra il termine «trascendentale» e il termine «trascendente».42 In realtà, benché il Tractatus non faccia un uso di questi termini abbastanza sistematico da fugare ogni dubbio, non sembra difficile fornire un’interpretazione tale da ricondurre all’ordine tale uso: benché non valga il contrario, tutto ciò che è trascendentale – cioè tutto ciò che ha a che fare con le condizioni di possibilità della sensatezza delle proposizioni, e dunque ad esempio con la presenza di oggetti, di fatti e di una totalità dei fatti, cioè con l’esservi ciò che vi è – è anche trascendente – cioè non può essere detto, dal momento che l’esistenza di un mondo, che si divide in fatti, cioè collegamenti di oggetti, è presupposta da tutte le proposizioni sensate e si mostra in esse.

Occorre però fare un passo indietro e soffermarsi più attentamente sull’indicibilità della logica. L’idea espressa dal Tractatus che la logica non possa essere oggetto di proposizioni dotate di senso è il risultato di un insieme di riflessioni iniziate con l’inizio stesso dell’interesse di Wittgenstein per la filosofia, all’epoca della sua lettura dei libri di Russell e di Frege sui fondamenti della matematica e, in particolare, in seguito al suo incontro con il paradosso di Russell.43

Russell era impegnato nel tentativo di produrre una fondazione della matematica sulla logica – tentativo che caratterizza quella teoria della matematica, detta «logicismo», secondo la quale è possibile costruire tutte le proposizioni della matematica a partire da alcune proposizioni logiche, in modo che quelle possano essere interamente ricondotte a queste – quando si imbatté in una grave aporia: egli scoprì che, in accordo con le regole della logica con cui operava, è possibile costruire un insieme, cioè l’insieme di tutti gli insiemi che non appartengono a se stessi, del quale poi risulta necessario dire, stanti le proprietà a esso attribuite per definizione, che appartiene a se stesso se e solo se non appartiene a se stesso. È possibile, in altre parole, costruire una proposizione che risulta contraddittoria sia nell’ipotesi della sua verità, sia in quella della sua falsità.

Riconoscendo l’origine dell’antinomia in un problema di autoreferenzialità, Russell (in collaborazione con Alfred North Whitehead) si dedicò a delineare una logica capace di impedire a una proposizione di riferirsi a se stessa e, dunque, capace di servire allo scopo del logicismo (quello di fondare la matematica) senza dar luogo a contraddizioni. Ne risultò la «teoria dei tipi», che stabilisce una gerarchia tra «tipi» di entità logiche e vieta quei riferimenti tra entità dello stesso tipo che nella logica tradizionale davano vita al paradosso di Russell. In accordo con tale teoria un insieme di oggetti è un’entità di un dato tipo; un insieme di insiemi è un’entità di un tipo gerarchicamente superiore; cosicché non ha senso dire che un insieme appartiene a se stesso, perché la relazione di appartenenza tra un elemento e un insieme può applicarsi solo fra entità di tipo diverso.

Questa soluzione tuttavia non parve soddisfacente a Wittgenstein. Egli ne condivideva l’essenziale – il rifiuto di un linguaggio autoreferenziale, di un linguaggio che è al contempo il proprio metalinguaggio – ma disapprovava il rinvio a un’infinita stratificazione di logiche subordinate l’una all’altra, ciascuna con le sue regole, per esempio ciascuna con il suo principio di non contraddizione (cfr. TLP 6.123), e ciascuna con i suoi simboli, dipendenti per la loro sintassi dalla loro posizione a una certa altezza della scala, e cioè dalla loro semantica (cfr. TLP 3.33-3.331). Fu riflettendo sulle insufficienze della logica di Russell che Wittgenstein si convinse della necessità di rendere superflua ogni teoria dei tipi per mezzo di un simbolismo adeguato – della necessità cioè di rinunciare a dire che un oggetto non può entrare in certe relazioni con un certo altro e di lasciare piuttosto che l’omogeneità o eterogeneità, compatibilità o incompatibilità degli oggetti si mostri appunto all’interno e per mezzo di quel simbolismo.

Che «A» e «B» sono simboli dello stesso tipo, secondo Wittgenstein, si vede come si vede che «A» e «x» non lo sono. Che «A» e «A» indicano lo stesso oggetto si vede come si vede che «A» e «B» indicano oggetti diversi. Che una proposizione non può enunciare qualcosa su se stessa, dal momento che il segno proposizionale non può essere contenuto in sé stesso («questa è l’intera “theory of types”», TLP 3.332), può non vedersi se si scrive «F (F (x))», dove sembra proprio che il segno proposizionale possa essere contenuto in se stesso; ma si vede immediatamente se si usa un simbolismo che traduce in modo adeguato la differenza logica che vi è tra una funzione che ha come argomento una variabile x e una funzione che ha come argomento una funzione F (x), e cioè se si scrive «φ (F (x))» anziché «F (F (x))» (cfr. TLP 3.333).

Affinché, in generale, una proposizione possa dire qualcosa, è necessario che qualcos’altro si mostri in essa. È ben possibile dire che l’oggetto a è nella relazione R con l’oggetto b, e asserire il sussistere di questo fatto con la proposizione simbolica «a R b»; ma qui «non “il segno complesso ‘a R b’ dice che a sta nella relazione R con b”, bensì chea” sta in una certa relazione con “b” dice che a R b» (TLP 3.1432). Insomma il modo in cui gli elementi costitutivi della proposizione (o, in generale, dell’immagine) stanno in relazione tra loro mostra il senso della proposizione, mostra quale fatto accade se essa è vera; e la proposizione dice che le cose stanno così (cfr. TLP 4.022b). Ciò che una proposizione deve avere in comune con un fatto per poterlo raffigurare, ossia la propria struttura, può solo mostrarsi nella proposizione, e non può mai essere asserito. E la forma logica, ossia la possibilità di una struttura articolata comune ai fatti e alle immagini che li raffigurano, può solo essere esibita da una proposizione, e mai descritta. «La proposizione può presentare l’intera realtà, ma non può presentare ciò che essa deve avere in comune con la realtà per poterla presentare – la forma logica. Per poter presentare la forma logica dovremmo poterci porre con la proposizione al di fuori della logica, cioè al di fuori del mondo. […] Ciò che si esprime nel linguaggio non può essere espresso da noi mediante il linguaggio. La proposizione mostra la forma logica della realtà. La esibisce» (TLP 4.12-4.121).

Un linguaggio logicamente adeguato, una scienza della natura completa, non conterrebbe alcuna proposizione della logica, non conterrebbe tautologie più di quanto conterrebbe contraddizioni. Ciò che le tautologie tentano di esprimere si mostra nelle proposizioni che raffigurano fatti, e non può essere detto, perché non è un fatto a sua volta. In questo senso la logica è trascendente, non può essere espressa. La struttura logica che deve essere comune a una proposizione e a un fatto affinché essi stiano in un rapporto di raffigurazione si vede nell’una come nell’altro, e non può che essere esibita. E allora è chiaro anche, con ciò, in che senso la logica è trascendentale: essa è l’atmosfera nella quale la raffigurazione respira, è l’insieme delle regole di cui le proposizioni dotate di senso costituiscono l’applicazione, è ciò che è implicito in ciò che è esplicito. A sua volta, questo rende tanto più chiaro il motivo per cui, per Wittgenstein, la sfera del trascendentale è anche trascendente. Quanto alla logica: la regola si rivela, si mostra nell’applicazione in cui è implicita, cioè nella proposizione, ma non può essere resa esplicita, perché ciò richiederebbe di uscire dalla proposizione, richiederebbe che si smetta di descrivere fatti. Quanto all’etica e all’estetica: ciò che è in generale condizione di possibilità per la descrizione di ciò che accade nel mondo, cioè l’esservi del mondo stesso, non è a sua volta un fatto, e non può essere descritto. Il trascendentale è trascendente perché per Wittgenstein, come per Kant, può essere chiamata «trascendentale» ogni considerazione «che si occupi, in generale, non tanto di oggetti quanto del nostro modi di conoscere gli oggetti nella misura in cui questo deve essere possibile a priori» (KrV B25), e perché per Wittgenstein tuttavia, diversamente che per Kant, questo livello metadiscorsivo, che tenta di portare a espressione l’a priori anziché solo esibirlo nell’a posteriori, è al di fuori delle condizioni di possibilità e al di là dei limiti di un uso sensato del linguaggio.

Il soggetto

Una caratteristica che accomuna le filosofie trascendentali consiste nell’importanza che in esse riveste l’elaborazione della tematica della soggettività in rapporto a quella dell’oggettività. Non si tratta evidentemente di un caso. Se ho potuto caratterizzare gli approcci trascendentali in filosofia come quelli che pongono programmaticamente in connessione il problema di come le cose stanno e il problema di conoscere come le cose stanno, non può stupire che la nostra grammatica ci porti subito a formulare la questione come quella di un rapporto tra conoscente e conosciuto.44

Tutta la strategia argomentativa di Kant (riassunta dall’espressione «rivoluzione copernicana») consiste nel mostrare come la natura oggettiva dell’esperienza sia radicata nella sua natura soggettiva, cioè come la pretesa di dire qualcosa di oggettivo sia una pretesa impossibile da soddisfare se si vuole parlare delle cose in sé, e come diventi invece del tutto ragionevole quando ci si limiti a formulare giudizi che trovano nelle strutture a priori della sensibilità e dell’intelletto, che sono strutture soggettive, la propria condizione di possibilità (cfr. KrV BXVI-XVII). Ma è interessante che il «correlativismo trascendentale soggetto-oggetto»45 sia uno dei capisaldi anche della fenomenologia husserliana, nella quale certamente la limitazione metodologica fondamentale del campo della propria indagine al terreno condizionato dell’esperienza e alle strutture essenziali di questa condizionatezza ha una funzione più costitutiva che critica, benché poi le due cose siano altrettante facce della stessa medaglia, ma che in ogni caso è una filosofia genuinamente trascendentale.46

Anche nel Tractatus il tema della soggettività ricopre un ruolo di grande importanza, e la lettura dei passi dedicati a esso fornisce un’occasione per mettere alla prova l’interpretazione del libro da un punto di vista trascendentale.

«L’Io entra nella filosofia», scrive Wittgenstein, «in questo: che “il mondo è il mio mondo”» (TLP 5.641). E: «Che il mondo è il mio mondo si mostra nel significare i limiti del linguaggio (del solo linguaggio che io comprendo) i limiti del mio mondo» (TLP 5.62). Se il linguaggio potesse riferirsi a un mondo che non è il mio mondo, allora io non lo comprenderei. E l’intrascendibilità dell’Io, tale per cui il mondo è sempre il mio mondo, dipende dall’intrascendibilità del linguaggio. «I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. La logica riempie il mondo; i limiti del mondo sono anche i suoi limiti» (TLP 5.6-5.61).

In queste proposizioni di Wittgenstein, attraverso una rete di rimandi incrociati, si stabilisce una coappartenenza fra il linguaggio e il soggetto e un’equiestensione tra essi e il mondo a cui sono coordinati. Il linguaggio è il mio linguaggio, perché se non fosse mio non lo comprenderei; il mio linguaggio è equiesteso al mio mondo, perché se uno dei due si spingesse al di là dell’altro vi sarebbero fatti non descrivibili o proposizioni dotate di senso che non descrivono niente; e dunque il mondo è il mio mondo, il mondo è la vita, io sono il mio mondo.

Certo questo significa che «la vita fisiologica naturalmente non è “la vita”. E nemmeno quella psicologica. La vita è il mondo» (TB 24.7.16). «L’Io filosofico non è l’uomo, non il corpo umano o l’anima umana di cui tratta la psicologia, bensì il soggetto metafisico, il limite – non una parte – del mondo» (TLP 5.641c). Una trattazione di ciò che è l’uomo in quanto fatto, da un punto di vista biologico per le sue funzioni organiche, antropologico per i suoi comportamenti, psicologico per i suoi sentimenti e gli altri suoi stati mentali, e così via, è possibile, e anzi è la sola indagine dell’uomo che può farsi sensatamente, per mezzo degli strumenti della scienza, cioè per mezzo di proposizioni che raffigurano fatti. Tutto questo, scrive Wittgenstein, potrebbe essere contenuto in un libro intitolato Il mondo come io l’ho trovato (cfr. TLP 5.631). Ciò che in questo libro sarebbe irriducibilmente assente, ciò di cui in esso non si riuscirebbe a parlare, sarebbe la voce narrante stessa, il soggetto, ossia il linguaggio nel quale il libro si esprime. Il soggetto così inteso, che Wittgenstein chiama «Io filosofico», «soggetto metafisico», «il soggetto che pensa, che si fa rappresentazioni» (ibid.), ma che potrebbe essere detto anche «soggetto trascendentale», o «soggetto puro», ebbene questo soggetto non è una parte del mondo, ma un limite del mondo. Nei Quaderni si legge: «Il soggetto non è parte, ma presupposto dell’esistenza del mondo» (TB 2.8.16, corsivo mio).47

Si potrebbe dire che questo soggetto è condizione dell’esistenza del mondo, e in tal modo si vedrebbe come, ancora una volta, il limite oltre il quale non si può spingersi senza rendere impossibile dire qualcosa di sensato è anche la condizione soddisfatta la quale, al di qua di quel limite, la possibilità di dire qualcosa di sensato è garantita. Questo soggetto disincarnato, che coincide con il suo proprio linguaggio, è il correlato del mondo, ciò i cui limiti e le cui forme essenziali sono anche i limiti e le forme essenziali del mondo, perché il mondo non è appunto niente se non ciò che si dà al soggetto, se non ciò che si può descrivere con il linguaggio. Nelle mani di Wittgenstein, la tesi schopenhaueriana «io sono il mio mondo» (cfr. TLP 5.63)48 vuol dire: niente è nel mondo che non lo sia per me, cioè che non possa trovare espressione in una proposizione sensata; e tutto quello che è per me, cui posso dare la forma di una descrizione linguistica adeguata, è parte del mondo.

Il solipsismo, dunque, che Wittgenstein attribuisce a se stesso (cfr. TLP 5.62) per via della tesi che «il mondo è il mio mondo» è un solipsismo trascendentale.49 (Non mi soffermerò su un’altra spiegazione di come, quindi, esso è anche trascendente, e di come non si può enunciare quello che il solipsismo intende perché si tratta di qualcosa che si mostra nel linguaggio.) Esso non consiste in una lamentazione dell’incomunicabilità, perché l’identificazione tra soggetto e mondo è dovuta al fatto che i limiti del mondo sono i limiti del solo linguaggio che io comprendo, non di un linguaggio che solo io comprendo;50 esso non consiste neanche in una negazione della realtà delle altre menti, perché gli altri mi sono dati esattamente come io sono dato a me stesso, cioè in modo perfettamente soddisfacente quanto alla sfera della fattualità, e assolutamente insoddisfacente quanto alla sfera della soggettività pura.51 Il solipsismo di Wittgenstein non esclude né la socialità, né l’empatia, e qui il testo a guardare bene non si carica affatto di accenti esistenziali più di tanto sentiti: la fattualità non interessa mai molto a Wittgenstein, e ciò che trascende la fattualità e che gli interessa profondamente, cioè che «il mondo di colui che è felice è un mondo diverso rispetto a quello di colui che è infelice», è detto solo parecchio più avanti. Il solipsismo del Tractatus è quindi un solipsismo trascendentale nel senso che costituisce semplicemente un passaggio metodologico nell’argomentazione che va dall’affermazione che non si può parlare sensatamente se non di ciò di cui si può parlare sensatamente all’affermazione che le strutture che appartengono essenzialmente al linguaggio con cui parliamo delle cose (al côté soggettivo) sono anche le strutture che appartengono essenzialmente alle cose di cui parliamo col linguaggio (al côté oggettivo). Esso non ha alcuna conseguenza filosofica di portata catastrofica, anzi: insistendo sulla correlazione originaria di linguaggio e mondo, il discorso sul solipsismo ci rende chiara la necessità del loro isomorfismo (dunque la possibilità di descrizioni veridiche dei fatti).

I caratteri della soggettività trascendentale wittgensteiniana possono essere chiariti con riferimento alla simmetria, per così dire, della correlazione di cui stiamo parlando, nella quale non c’è una prevalenza dell’Io sul mondo né del mondo sull’Io, ma piuttosto una dipendenza reciproca: «Il solipsismo, portato avanti rigorosamente, coincide con il puro realismo» (TLP 5.64). Nel volume Il mondo come io l’ho trovato non si parla che del mondo; se il programma del titolo va rispettato, il libro deve contenere una narrazione del tutto realistica, più simile a un saggio che a un testo di qualsiasi altro genere letterario. «L’Io del solipsismo si raggrinzisce in un punto privo di estensione, e rimane la realtà a esso coordinata» (ibid.). Il soggetto puro, che parla, e del quale non si può parlare perché altrimenti lo si trasformerebbe in qualcosa di contingente che può accadere o non accadere nel mondo, non può essere, per ciò stesso, qualcosa di fattuale che funge in qualche modo da portatore del linguaggio che descrive la realtà; il soggetto puro, in quanto limite, non parte, del mondo, dunque presupposto della descrizione e condizione della sua possibilità, è il linguaggio stesso. Questo soggetto «puro» è chiamato «Io» solo per un equivoco, nel senso che si tratta di qualcosa di tanto diverso dal soggetto «empirico» quanto il campo visivo da ciò che può darsi nel campo visivo (cfr. TLP 5.633*).52

Questo Io che coincide con il proprio linguaggio è coordinato alla realtà nel senso che i nomi stanno per le cose e le configurazioni degli uni corrispondono alle configurazioni delle altre, cioè nel senso della raffigurazione (cfr. TLP 2.15-2.1515), ma non è parte della realtà, e quindi non può essere a sua volta raffigurato; esso scompare nel senso che viene taciuto, benché non taccia, e cioè nel senso che ne Il mondo come io l’ho trovato non se ne parla, benché lo si usi per parlare del mondo. Resta che le proposizioni sono fatti e che la capacità che hanno di raffigurare altri fatti dipende dall’avere questi e quelli una struttura in comune, ma tale struttura non può essere a sua volta raffigurata: si parla con il linguaggio, nel linguaggio, ma non del linguaggio.

Così, in ultima analisi, alla domanda se la filosofia del Tractatus sia un idealismo o un realismo bisogna rispondere come si risponde a tutte le domande simili che riguardano una filosofia trascendentale, e cioè: è entrambe le cose, perché l’idealismo trascendentale coincide con il realismo trascendentale.53 Nella filosofia critica la correlazione di soggetto e oggetto toglie ogni spazio alla loro separazione dogmatica. Ciò che vi è di idealistico nel Tractatus è l’idea che il reale sia razionale, dal momento che consideriamo reale tutto e solo ciò su cui fa presa la nostra razionalità, tutto e solo ciò che soddisfa le condizioni soggettive del pensiero, tutto e solo, insomma, ciò che può essere raffigurato per mezzo di un linguaggio che obbedisce alla sintassi logica; e ciò che vi è di realistico è l’idea che la sfera del reale abbia un’oggettività non riducibile a una soggettività idiosincratica, proprio perché le forme della razionalità hanno, fin dove si estendono, valore universale e necessario, e un linguaggio che obbedisce alla sintassi logica non è affatto un linguaggio che solo io comprendo.54

Il soggetto trascendentale, che Wittgenstein chiama «metafisico» per il motivo che abbiamo visto, cioè perché la sfera del trascendentale è esuberante rispetto all’ambito di ciò di cui si può parlare sensatamente, ossia sconfina nel campo della metafisica, è nel Tractatus quello che l’«io penso» è nella Critica della ragion pura, almeno per l’essenziale: si tratta di ciò che «deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; in caso diverso, si darebbe in me la rappresentazione di qualcosa che non potrebbe essere pensata; il che equivale a dire che la rappresentazione o sarebbe impossibile o, per me almeno, sarebbe nulla» (KrV B131-132). I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. Tuttavia, come ho già sottolineato, la concezione della scienza di Wittgenstein è molto diversa, e nettamente più angusta, di quella di Kant, e questo si riflette nella posizione e nel ruolo del soggetto. Diversamente dall’appercezione trascendentale kantiana, il soggetto per Wittgenstein non è un principio unificatore, nel senso molto specifico, ma molto importante, che il linguaggio raffigurativo teorizzato nel Tractatus non ha, come dicevamo, un carattere sintetico. Il soggetto trascendentale, ossia il linguaggio, è uno specchio del mondo. Il giudizio non è l’esito della sussunzione di un molteplice nell’unità di un concetto, ma un modello equinumeroso della realtà. Il linguaggio e il mondo sono originariamente correlati, ma se il polo oggettivo ha una data complessità, il polo soggettivo ha esattamente la stessa complessità – da un lato i fatti, dall’altro le proposizioni, in un perfetto parallelismo.55

L’Io come fatto è completamente omogeneo a tutti gli altri fatti, e si perde tra essi quanto al modo della sua esistenza, che è quello dei fatti, e quanto al modo della sua descrizione, che è quello delle proposizioni dotate di senso, cioè delle sole descrizioni in generale possibili. L’Io come linguaggio può solo apparentemente fornire un principio di unità, fungendo non da enunciatore fattuale, ma da portatore logico, delle proposizioni; tuttavia a guardar meglio si vede che esso si appiattisce sulla molteplicità delle proposizioni, e scompare come scompare lo Urteilsstrich di Frege (cfr. TLP 4.442): non vi è alcun bisogno, e nemmeno alcuna possibilità, di un assertore delle proposizioni. Restano solo le proposizioni che parlano e i fatti di cui esse parlano; dei secondi si può parlare, delle prime no. Il solo principio di unità trascendentale, in Wittgenstein, è la forma logica che accomuna linguaggio e mondo: vi è una forma generale della proposizione, ma poi le proposizioni raffigurano una realtà pluralistica, non gerarchizzata, e in ultima analisi frammentaria.

1.4 Conclusione della prima parte

Con questo si può ritenere che le linee principali di un’interpretazione della filosofia del Tractatus come filosofia trascendentale siano state tracciate, e si può allora tentare un bilancio provvisorio di questo approccio esegetico tra i molti possibili. (Un bilancio complessivo dovrà attendere il passaggio attraverso le opere successive al Tractatus, per valutare anche fino a che punto la visione di Wittgenstein come filosofo trascendentale consente di rendere conto delle continuità e delle discontinuità nello sviluppo del suo pensiero.)

Il primo sostanziale vantaggio della lettura trascendentale del Tractatus consiste nel modo in cui essa permette di conferire una coerenza e un’intelligibilità all’insieme di caratteristiche che Wittgenstein predica del mondo a partire da TLP 1. Riconoscere e riaffermare «la necessità in cui ci troviamo di attribuire a priori alle cose tutte le proprietà che costituiscono le condizioni sotto le quali soltanto possiamo pensarle» (KrV B405) permette di considerare l’ontologia come il correlato della logica e quindi di rendere conto delle strutture della prima come ciò che è presupposto dal funzionamento della seconda: la semplicità degli oggetti, che fa tutt’uno con l’irrilevanza da un punto di vista semantico dell’articolazione interna dei nomi nella proposizione, è il requisito della determinatezza del senso; il possesso da parte degli oggetti di proprietà interne, che fa tutt’uno con la non-irrilevanza dell’articolazione interna dei nomi dal punto di vista della possibilità di distinguerli gli uni dagli altri, è la condizione di possibilità della sintassi; la natura articolata dei fatti, che fa tutt’uno con la natura articolata delle proposizioni, è ciò che permette a una proposizione di essere immagine di un fatto, e dunque di avere senso; la contingenza dei fatti, che fa tutt’uno con l’indipendenza reciproca delle proposizioni elementari, è implicata dall’identificazione della logica con la logica formale.

Il secondo merito importante dell’interpretazione trascendentale del Tractatus consiste nel fatto che essa toglie ogni apparenza di arbitrarietà e ogni sapore di magia alla pretesa da parte di Wittgenstein che possa darsi un rispecchiamento, una adaequatio, tra realtà e linguaggio. Ciò non significa che tale possibilità sia dimostrata sulla base di principi dogmatici, ma il dubbio in merito a essa è comunque delegittimato: in quanto intaccherebbe la possibilità stessa di un discorso dotato di senso in generale, e con ciò comprometterebbe anche la propria stessa capacità di giungere a espressione. La possibilità di proposizioni sensate (e quindi della verità della descrizione scientifica) è data per scontata perché non può non esserlo, ma può essere chiarificata evidenziando che, nella misura in cui il mondo può essere descritto, le strutture che gli appartengono necessariamente sono le strutture che appartengono necessariamente a ogni sua descrizione possibile, ossia le strutture del linguaggio.

Infine, aver identificato nel Tractatus una logica che opera come una logica trascendentale, ma che si riduce al principio di isomorfismo tra lo stato di cose e la proposizione elementare e a poche regole sintattiche per la combinazione verofunzionale, con la conseguenza, tra le altre cose, di escludere ogni metariferimento per evitare il paradosso di Russell, aver identificato nel Tractatus una simile logica dicevo rende conto in modo unitario della filosofia del limite di Wittgenstein (ossia del modo in cui egli tira le linee che nelle sue intenzioni separano l’uso adeguato del linguaggio dal suo uso inadeguato) e dei limiti della filosofia di Wittgenstein (ossia di quelle che potrebbero essere viste come le sue insufficienze, per via delle quali, anche condividendo una fondamentale esigenza di chiarezza e lo scopo di rendere possibile un’alternativa netta tra ciò che può essere detto senza ambiguità e ciò che non può essere detto affatto, potremmo non riuscire a sottoscrivere le conclusioni del nostro viennese krausiano e loosiano, le quali sembrano obbligarci a buttare via, insieme all’acqua sporca, anche il bambino). L’esclusione di ogni previsione di accadimenti futuri sulla base di un nesso causale, l’esclusione di discorsi di carattere etico o estetico capaci di attingere a una qualche oggettività, l’esclusione della riflessione sulla logica, sono l’immediata conseguenza della delimitazione a cui il mondo è soggetto da parte del linguaggio e il linguaggio da parte del mondo: non vi sono più fatti di quelli descritti da proposizioni sensate, né più proposizioni sensate di quelle che descrivono fatti. Se poi questi limiti ci sembrano troppo angusti, e se dunque la soluzione di Wittgenstein è un problema più di quanto è una soluzione, ebbene a questo punto si può dire che abbiamo isolato la radice di questo problema, e può darsi che il quadro possa essere considerevolmente migliorato con l’introduzione di una logica pur sempre trascendentale, ma più versatile, meno rarefatta e insomma meno formale.

Note

  1. Ha senso richiamare almeno la principale delle contrapposizioni che storicamente si sono prodotte intorno a questo specifico problema interpretativo, ossia quella tra i fautori della cosiddetta «lettura standard» del Tractatus e coloro che ne propongono invece una lettura «austera»: i primi insistono sull’efficacia comunicativa delle proposizioni che Wittgenstein, pur considerandole prive di senso, pur sempre enuncia, e dunque sulla rilevanza della tematica mistica e dell’ineffabile a cui egli allude; i secondi (cioè principalmente Cora Diamond e James Conant) affermano che vi sono, secondo Wittgenstein, solo proposizioni che hanno senso e proposizioni che ne sono prive, e che se egli enuncia proposizioni prive di senso non è per alludere ad alcunché (un nonsenso non allude a niente e non vi sono nonsensi importanti) ma solo per ricreare quell’illusione che poi la sua analisi fa collassare quando mostra inequivocabilmente appunto questo: che una proposizione priva di senso non dice niente. Per una presentazione più dettagliata della questione cfr. M. Bastianelli, Oltre i limiti del linguaggio. Il kantismo nel “Tractatus” di Wittgenstein, Mimesis, Milano 2008, pp. 217-221 e G. Kahane, E. Kanterian, O. Kuusela, “Introduction”, in G. Kahane, E. Kanterian, O. Kuusela (a cura di), Wittgenstein and His Interpreters, Wiley-Blackwell, Malden (MA) 2013, pp. 4-8.
  2. L’espressione è impiegata da Giovanni Piana, in modo a mio avviso efficace, per indicare quello che in termini strettamente wittgensteiniani è il linguaggio che obbedisce alla sintassi logica. Cfr. G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, Il Saggiatore, Milano 1973, Premessa p. VII.
  3. In proposito Pierre Hadot scrive: «Ce problème de la compréhension des “ non-sens ”, qui met en jeu toute l’exégèse du Tractatus, me parait trop complexe pour que je puisse en traiter ici sans une longue étude. Je dirais seulement que, si Wittgenstein ne doute pas que nous puissions comprendre (6.54) les propositions que le Tractatus énonce au sujet de la logique, et de l’éthique, pourtant dénuées de sens puisqu’elles ne correspondent pas à des rapports entre des objets déterminés contenus dans le monde, c’est qu’il entrevoit déjà ce qu’il exposera dans ses Recherches philosophiques, à savoir que le langage n’a pas pour unique fonction de désigner des objets ou de traduire des pensées, et que l’acte de comprendre une phrase est beaucoup plus proche que l’on ne croit de ce que l’on appelle habituellement comprendre un thème musical [cfr. PU 527]. Les propositions éthiques du Tractatus, comme Wittgenstein le dit lui-même, montrent un indicible». Cfr. P. Hadot, Wittgenstein et les limites du langage, J. Vrin, Parigi 2004, pp. 19-20.
  4. Ho modificato la traduzione di Piovesan per rendere «Grenze» con «limite» anziché con «confine» («umgrenzen» era già reso con «delimitare»), ossia per rendere l’espressione coerente con la traduzione del Tractatus e con la tradizione degli sudi kantiani, dove «Grenze» è «limite» e «Schranke» è «confine» (cfr. P 352).
  5. Se si parla dei «due lati del limite», ciò non è evidentemente senza rischi. Wittgenstein è molto chiaro sul fatto che ciò che non può essere detto sensatamente non può neanche essere pensato (cfr. TLP Pref., ma anche 4 e 5.61), e forse da ciò nasce una rilevante obiezione all’interpretazione del Tractatus come operante con un linguaggio diverso da quello che teorizza, cioè la seguente: potranno anche esservi due linguaggi, che funzionano in modo in parte diverso, ma dev’esservi un solo pensiero, e pensabile è solo ciò che si esprime in uno di quei due linguaggi. A questa obiezione credo che si possa rispondere così: in realtà la nozione di «pensiero» del Tractatus è interamente modellata sulla nozione di linguaggio sensato che ivi si delinea (sulla base della teoria della raffigurazione ecc.), e dunque, se nel testo o intorno a esso vi è uno scarto tra due nozioni di linguaggio, allora vi è anche tra due nozioni di pensiero. Ad esempio A.W. Moore, nel saggio “Wittgenstein and Transcendental Idealism”, in G. Kahane, E. Kanterian, O. Kuusela (a cura di), Wittgenstein and His Interpreters, cit., p. 185, osserva che Wittgenstein, come Kant, riconosce anche modalità di interazione razionale con le cose diverse da ciò che per il primo è la proposizione dotata di senso e per il secondo il pensiero dotato di contenuto; e questo è quello che anch’io sostengo; ma egli ne conclude che Wittgenstein riconosce anche modalità di interazione razionale con le cose diverse dal pensiero, mentre io direi che, quantunque implicitamente, riconosce anche una nozione di pensiero diversa da quella che si esprime in TLP 4 con riferimento alla nozione austera di «senso». Del resto nella Prefazione Wittgenstein afferma chiaramente che nel Tractatus sono espressi pensieri.
  6. Anche questa espressione è di G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, cit., cap. VI, § 1 p. 123.
  7. Cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein. The Duty of Genius, Penguin, 1991, pp. 117-118.
  8. Piana nota intelligentemente come, al di là di un primo senso in cui si dice che qualcosa è «intuitivo» quando viene presentato senza passare per un’articolazione rigorosa dei suoi presupposti, e di un secondo in cui per «intuitivo» si intende qualcosa che sarebbe possibile conoscere in modo immediato, senza dimostrazione, in terzo luogo «il termine “intuitivo” può essere usato secondo la sua origine etimologica, e nella sua accezione più ristretta, come sinonimo di “visivo” – e in un’accezione più ampia in rapporto agli atti della percezione». Cfr. G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, cit., cap. III, § 3 pp. 60-61. Posta tale cautela, cioè intendendo il termine «intuizione» nel terzo senso, si può parlare in riferimento a Wittgenstein di «intuizionismo linguistico» e sostenere che «la teoria della proposizione come immagine dice sostanzialmente: il senso lo debbo vedere dal simbolo»; cfr. ivi, cap. III, § 7, p. 77. Ovviamente la visione non ha comunque niente di speciale rispetto ad altri modi della sensibilità, poiché per un cieco che impiega simboli in braille la cosa funziona in modo identico.
  9. È chiaro che ad esempio la lettera «s» può essere usata per raffigurare un serpente, o la «H» per raffigurare una delle porte di un campo da rugby. Ma questo conferma, anziché confutare, ciò che si diceva sul funzionamento dell’immagine: è sempre la configurazione delle sue parti che corrisponde alla configurazione delle parti del fatto raffigurato, e quelle parti semplicemente stanno per queste, ma non raffigurano alcunché.
  10. Queste precisazioni sono sviluppate in modo molto accurato in P. Frascolla, Il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2006, pp. 44-52.
  11. La tesi secondo cui quelle che (al di là dell’avversione di Wittgenstein per un certo tipo di lessico filosofico) potrebbero essere chiamate la gnoseologia e l’ontologia del Tractatus sono legate a doppio filo, e risultano comprensibili solo se lette e discusse insieme (a prescindere da quale venga letta o discussa prima), ha una certa diffusione tra gli interpreti. Tra le prime voci a essersi espresse in questo senso si possono ricordare quella di E. Stenius, Wittgenstein’s “Tractatus”: A Critical Exposition of Its Main Lines of Thought, Oxford 1960, cap. X e quella di A. Maslow, A Study in Wittgenstein’s “Tractatus”, University of California Press, Berkeley and Los Angeles 1961, pp. 1-7, 15-16. P. Hadot, Wittgenstein et les limites du langage, p. 30 sostiene che «la proposition peut avoir une structure semblable au “ fait atomique ” (c’est-à-dire une liaison entre des objets, cf. 2.01) parce que le “ fait atomique ” est lui-même conçu sur le modèle de la proposition». G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, cit., cap. I, § 1 p. 3, scrive: «[…] l’“atomismo” che stiamo sostenendo trae il suo senso dal rinvio al terreno logico-linguistico[;] a partire da questo terreno debbono essere determinati, per così dire, i caratteri dell’ontologia». Lo segue P. Spinicci nelle pagine dedicate al Tractatus del libro Lezioni sulle “Ricerche filosofiche” di Ludwig Wittgenstein, Cuem, Milano 2002, spec. p. 108. In modo simile, e con maggior dovizia di dettagli, si esprimono anche A. Chrudzimski, “Contentless Syntax, Ineffable Semantics and Transcendental Ontology: Reflexions on Wittgenstein’s Tractatus”, in Kriterion: Journal of Philosophy, n. 17, 2003, pp. 1-6 e soprattutto Hao Tang, “Transcendental Idealism in Wittgenstein’s Tractatus”, in Philosophical Quarterly, vol. 61, n. 244, 2011, pp. 598-607. Anche P. Frascolla, nella sua guida alla lettura del Tractatus, prende le mosse dalla teoria raffigurativa del linguaggio e quando, in seguito, passa alla dottrina dell’atomismo logico osserva: «È acquisizione largamente acquisita che la metafisica atomistica del Tractatus, a dispetto del posto che la sua esposizione occupa nel testo, dipenda, per le sue premesse, dai principi della teoria raffigurativa, pur non essendo certamente da essi strictu sensu dedotta»; cfr. P. Frascolla, Il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, cit., p. 88.
  12. Maslow è fin troppo radicale, rispetto ai termini del suo proprio discorso, nell’affermare che «the discussion of the formal characteristics of the world, ouf our world, is nonmetaphysical»; cfr. A. Maslow, A Study in Wittgenstein’s “Tractatus”, cit., p. 3. Bisogna come minimo tenere presente che, anche qualora Wittgenstein fosse d’accordo nell’identificare quello che Hadot chiama «un parallelisme total entre le monde ainsi présenté et le langage» (cfr. P. Hadot, Wittgenstein et les limites du langage, cit., p. 38), tutto questo ordine di considerazioni ricadrebbe secondo lui nel campo di ciò che non può essere detto, e insomma di una metafisica.
  13. Schopenhauer ha ragione nel dire che una semplice inversione dell’approccio empirista, in cui al centro venisse messo il soggetto anziché l’oggetto, conserverebbe problemi uguali e contrari a quelli dell’empirismo stesso, e forse è vero anche che l’espressione «rivoluzione copernicana» sembra indicare esattamente una simile inversione; ma credo che, al di là di certe ambiguità che Kant conserva, la proposta da parte di Schopenhauer di non partire «né dall’oggetto né dal soggetto, ma dalla rappresentazione come primo fatto di coscienza» sia genuinamente kantiana. Per la citazione cfr. A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di G. Riconda, Torino 1993, p. 71.
  14. Cfr. p.e. N. Garver, “Wittgenstein and the Critical Tradition”, cit., p. 231: «The question [“How is knowledge (judgment) possible at all?”] presupposes that knowledge and judgment are possible; that is to say, that some judgments are true, and that some true judgments are known to be true».
  15. La domanda che Wittgenstein si pone in questo passo, l’unico nei suoi scritti anteriori al Tractatus in cui Kant è esplicitamente nominato, è in realtà un’altra delle questioni dei Prolegomeni, ossia «Come è possibile una matematica pura?» (P 279-281). Nei Prolegomeni Kant risponde a entrambe, quella sulla matematica pura e quella sulla scienza pura della natura, all’interno del medesimo quadro teorico – solamente non facendo riferimento che alle forme pure dell’intuizione sensibile per quanto riguarda la matematica, e invece a queste e ai concetti puri dell’intelletto per quanto riguarda la scienza della natura. Qui mi è sembrato decisamente più opportuno accostare il Tractatus a una ricerca trascendentale sulla possibilità di una scienza della natura, anziché di una matematica, perché secondo il Tractatus una matematica non è affatto possibile, cioè ha uno statuto di inesprimibilità simile a quello della logica – dunque essenzialmente diverso dallo statuto della scienza della natura, la quale si muove nel campo dell’esprimibile (e lo esaurisce).
    Infra, al paragrafo 2.3.4, fornirò una caratterizzazione più precisa della differenza che Kant traccia fra «scienza della natura» e «scienza pura della natura». Per ora l’approssimazione con cui ho appiattito la seconda sulla prima non dovrebbe essere problematica, poiché da un punto di vita kantiano dare risposta alla questione di come sia possibile una scienza della natura richiede comunque che si risponda alla questione di come sia possibile una scienza pura della natura.
  16. A. Maslow, A Study in Wittgenstein’s “Tractatus”, cit., pp. 1-2 (tr. it. mia). Ancora, Maslow sembra trascurare il fatto che un discorso sulle condizioni di possibilità della presa del linguaggio sul mondo ricade in effetti già nell’ambito di ciò che Wittgenstein qualificherebbe come nonsenso. La proposta che ho avanzato nel capitolo precedente su come guardare all’auto-esclusione che le proposizioni del Tractatus sembrano comportare dovrebbe però permettere di vedere come, se da una parte il linguaggio che Wittgenstein teorizza nel libro non permetterebbe di formulare alcuna proposizione sul proprio legame col mondo, d’altro canto il linguaggio nel quale il libro è scritto svolge questo tipo di considerazioni, che possono essere rese, credo, solo più chiare e organiche tramite un collegamento con la tematica filosofica del trascendentale.
  17. Anche se con riferimento a considerazioni più generali di quelle che qui sto svolgendo a proposito degli oggetti, Stenius scrive ad esempio: «It is essential to Wittgenstein’s outlook that logical analysis of language as he conceives of it is a kind of “transcendental deduction” in Kant’s sense»; E. Stenius, Wittgenstein’s “Tractatus”, cit., cap. X. Hao Tang nota correttamente che sarebbe del tutto sbagliato cercare nel Tractatus una deduzione trascendentale nel senso kantiano stretto che ha a che fare con le categorie, perché per Wittgenstein il solo a priori è la logica formale, che quindi «is already transcendental», e non vi è, come vi è invece in Kant, una logica trascendentale che si aggiunge a quella formale nel momento in cui si tratta di occuparsi non solo delle leggi del pensiero astratto ma anche dell’applicazione dei concetti agli oggetti; cfr. Hao Tang, “Transcendental Idealism in Wittgenstein’s Tractatus”, cit., p. 601. Tuttavia credo non sia abusivo parlare di deduzione trascendentale anche in un senso più ampio, con riferimento a un discorso volto a mostrare l’interdipendenza tra le strutture del conosciuto e quelle del conoscente, e credo che in questo senso si possa dire che nel Tractatus è presente una deduzione trascendentale.
  18. Non è inopportuno, anche da un punto di vista strettamente storico, ricordare la confutazione che Hume aveva proposto nel Trattato sulla natura umana delle presunte dimostrazioni del principio di causalità fornite da pensatori come Hobbes, Clarke e Wollaston, Locke: cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, tr. it. di A. Carlini, E. Lecaldano ed E. Mistretta, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 91-95.
  19. Nei limiti della natura rapsodica che è propria dei Quaderni, i quali del resto, come tali, contengono riflessioni in fase di gestazione, qualche chiarificazione su questi punti può essere fornita da TB 22.6.15.
  20. In difficoltà simili si dibatte per esempio, senza giungere a conclusioni soddisfacenti, Maslow. Egli in effetti mostra l’inefficacia dei tentativi di chiarire la nozione wittgensteiniana di «oggetto» «through the discussion of the acual consitution of the world», per poi passare a un’analisi delle unità fondamentali dell’ontologia del Tractatus «from the point of view of the discussion of the formal requirements of any significant language and thus of any possible knowledge of the world, as contrasted with the previous discussion of them as the actual consituents of the world»; e giunge alla conclusione, che condivido in pieno, che «if our language is to be significant in the world, there must be simple elements or objects which we could name, and atomic facts which we could describe»; cfr. A. Maslow, A Study in Wittgenstein’s “Tractatus”, cit., pp. 9-15. Più avanti (ivi, p. 38) egli sostiene però che, poiché un criterio per valutare cosa sia un’oggetto semplice non può trovarsi nel mondo, in ultima analisi dobbiamo stabilirlo noi arbitrariamente. Su quest’ultimo punto credo che Maslow abbia torto, e che sbagli perché non cerca la soluzione al problema della semplicità degli oggetti nella teoria del linguaggio come immagine; facendolo, si giunge invece a dire ciò che mi interessa sostenere qui, cioè che la semplicità degli oggetti è la semplicità dei nomi, e che dunque la questione della semplicità ontologica va relativizzata allo studio della funzione logica dei simboli, dalla quale sola si vede se essi sono semplici, perché stanno per qualcosa, o complessi, perché raffigurano qualcosa.
  21. Norman Malcolm, nelle sue memorie su Wittgenstein, racconta questo episodio: «Domandai a Wittgenstein se, mentre scriveva il Tractatus, si fosse mai deciso a scegliere qualcosa come esempio di un “oggetto semplice”; egli rispose che allora riteneva di essere un logico, e che non spettava a lui, come logico, di stabilire se questa o quest’altra cosa fosse stata un oggetto semplice o un oggetto complesso, trattandosi di una questione puramente empirica»; N. Malcolm, Ludwig Wittgenstein, Bompiani, Milano 1964, p. 118.
  22. L’argomentazione kantiana con cui viene esposta la seconda delle antinomie della ragione, quella che ha a che fare appunto con la sussistenza o meno in natura di parti ultime, non ulteriormente divisibili, non può qui non essere rilevante. Cfr. KrV B462-471 e B551-555.
  23. Un’approfondita discussione di questa tematica è fornita da J. Benoist, “Grammaires pures logiques”, in J. Benoist e S. Laugier (a cura di), Husserl et Wittgenstein. De la description de l’expérience à la phénoménologie linguistique, Olms, Hildesheim 2004, pp. 23-24.
  24. Cfr. G. Piana, Interpretazione del “Tractatus” di Wittgenstein, cit., cap. I, § 2 p. 6: «La forma della cosa è l’ambito delle sue sintassi possibili». Cfr. anche M. Ouelbani, “Le sens comme respect des règles logiques et/ou grammaticales”, in A. Moreno e A. Soulez (a cura di), Grammatical ou transcendantal ?, serie Cahiers de philosophie du langage, n. 8, L’Harmattan, Paris 2012, pp. 131-132.
  25. Cfr. E. Husserl, Terza ricerca, in Id., Ricerche logiche, a cura di G. Piana, Il Saggiatore, Milano 1968, §§ 11-12, vol. II pp. 41-46. L’esempio avente a che fare con la necessità che un colore sia il colore di una superficie ricorre ad esempio ivi, vol. II p. 43.
  26. Questa tesi è di fondamentale importanza anche perché è la chiave di volta della critica wittgensteiniana alla teoria dei tipi di Russell.
  27. Bisogna notare tuttavia che in una fase storica anteriore al Tractatus Wittgenstein adduce come esempio di nonsenso la proposizione «l’orologio è seduto sul tavolo» (TB 22.6.15), dove evidentemente è il significato dei segni, non la struttura sintattica della proposizione, a determinare la violazione di una regola. In modo uguale e contrario uno dei primi temi in relazione ai quali Wittgenstein si convinse dell’inadeguatezza della filosofia del Tractatus nella fase successiva alla pubblicazione di quest’opera fu quello dello statuto di proposizioni come «nello stesso punto vi è contemporaneamente il rosso e il blu», non più considerate come semplici congiunzioni, alla stregua di qualsiasi altra «p . q», poiché il significato dei segni «esclude» nella tavola di verità il caso in cui sia p sia q sono vere; ciò è testimoniato dall’articolo di Wittgenstein “Some Remarks on Logical Form”, in Proceedings of the Aristotelian Society, vol. suppl. 9, 1929, pp. 162-171, e dagli appunti di Friedrich Waismann raccolti in Ludwig Wittgenstein und der Wiener Kreis, a cura di B.F. McGuinness, Blackwell, Oxford 1967; cfr. anche M. Ouelbani, “Le sens comme respect des règles logiques et/ou grammaticales”, cit., pp. 134-137, dove si nota anche, condivisibilmente, che la trattazione di Wittgenstein di questo argomento in questo periodo costituisce un importante momento di incubazione della nozione di «grammatica» presente nei suoi testi più tardi. (È certamente troppo comodo che io usi i Quaderni per corroborare la mia interpretazione del Tractatus quando tra i due testi sembra esservi una certa consonanza e questo per confutare quelli quando, invece, la consonanza sembra mancare. Tuttavia il rapporto tra i Quaderni e il Tractatus, che pur meriterebbe di essere oggetto di considerazioni storico-filosofiche approfondite, esula dagli scopi di questo testo. Per quanto riguarda il modo in cui la riflessione di Wittgenstein si modificò nel corso degli anni 1920 e 1930, invece, cercherò più avanti di approfondire alcuni aspetti del passaggio dalla nozione di «logica» che caratterizza il Tractatus a quella di «grammatica» tipica ad esempio delle Ricerche filosofiche.)
  28. J. Benoist, “Grammaires pures logiques”, cit., pp. 5-22, argomenta in modo molto convincente che qualcosa come – per dirla con le parole di Husserl – una «grammatica logica pura» è presente anche nel Tractatus logico-philosophicus: si tratta di un insieme di vincoli di carattere sintattico per la sensatezza delle proposizioni, dal punto di vista dei quali è irrilevante il significato dei termini in gioco. Trovo tuttavia che da questo non possa essere fatto discendere, come vuole invece Benoist, che per Wittgenstein una proposizione come «questo numero primo è verde» sia un esempio di Unsinn, laddove per Husserl è solo un esempio di Wiedersinn: proprio perché nella valutazione della sensatezza o meno di tale proposizione, non bastando la sintassi, deve intervenire la semantica.
  29. P. Frascolla, Il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, cit., p. 134, commentando proprio TLP 6.3751, scrive: «Una congiunzione come “a è rosso ed a è blu”, in cui a designi un punto del campo visivo, è una contraddizione […], e questa sua proprietà dovrà essere ricondotta alla struttura formale delle proposizioni elementari raggiungibili attraverso l’analisi delle proposizioni, solo apparentemente elementari, “a è rosso” e “a è blu”».
  30. Alla tematica della «preminenza del senso sul significato» nel Tractatus dedica alcune riflessioni interessanti M. Bastianelli, Oltre i limiti del linguaggio, cit., p. 81 e passim; sull’«autonomia del senso» si sofferma anche A. Moreno, “La description grammaticale et sa fonction transcendantale”, in A. Moreno e A. Soulez (a cura di), Grammatical ou transcendantal ?, cit., pp. 43-60.
  31. «C’est dans la superposition parfaite entre la forme de l’expression symbolique et la forme des contenus exprimés qu’est fondée l’autonomie du sens propositionnel»; A. Moreno, “La description grammaticale et sa fonction transcendantale”, cit., p. 52.
  32. Esempi adatti a questo contesto si sarebbero potuti trovare ovunque, ma mi è sembrato che il modo migliore per accentuare la radicalità della posizione di Wittgenstein fosse di trarli da uno dei più intransigenti critici della superstizione nella modernità, cioè Spinoza; cfr. B. Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, tr. it. e cura di M. Lavazza, Edizioni del Foglio Spinoziano, 2016, § 58.
  33. «If we reason a priori, anything may appear able to produce anything. The falling of a pebble may, for aught we know, extinguish the sun; or the wish of a man control the planets in their orbits. […] That impious maxim of the ancient philosophy, Ex nihilo, nihil fit, by which the creation of matter was excluded, ceases to be a maxim, according to this philosophy. Not only the will of the supreme Being may create matter; but, for aught we know a priori, the will of any other being might create it, or any other cause, that the most whimsical imagination can assign»; D. Hume, An Enquiry Concerning Human Understanding, in Id., An Enquiry concerning Human Understanding, and an Enquiry on the Principles of Morals, a cura di L.-A. Selby-Bigge, Clarendon Press, Oxford 1894, Sect. XII, Part III, § 132, p. 164.
  34. B. Spinoza, Etica, tr. it. di E. Giancotti, Pgreco, Milano 2010, parte I, assioma III, p. 88.
  35. Si può notare qui incidentalmente che la stessa teoria della probabilità che Wittgenstein delinea in TLP 5.15* non è in fondo che un corollario del principio secondo cui l’unica necessità è la necessità logica e tutti gli eventi non necessari, cioè tutti gli stati di cose, hanno la medesima probabilità di realizzarsi. Una proposizione elementare p dà a un’altra proposizione elementare q la probabilità ½, cioè il verificarsi del fatto descritto da p non rende il verificarsi del fatto descritto da q né più né meno probabile di quanto farebbe il non-verificarsi del fatto descritto da p. Se una proposizione dà a un’altra la probabilità 1, vuol dire che la seconda è una conseguenza logica della prima; se una proposizione dà a un’altra la probabilità 0, vuol dire che le due sono logicamente incompatibili, cioè contraddittorie.
  36. Hao Tang, “Transcendental Idealism in Wittgenstein’s Tractatus”, cit., p. 600 (tr. it. mia).
  37. Cfr. Hao Tang, “Transcendental Idealism in Wittgenstein’s Tractatus”, cit., p. 601. Al tema del rapporto tra logica generale e logica trascendentale in Kant e alle differenze con Wittgenstein dedica alcune pagine anche M. Bastianelli, Oltre i limiti del linguaggio, cit., p. 151 e segg.
  38. Alcune metafore impiegate da Kant sembrano incoraggiare un’interpretazione delle categorie come una grammatica: in P 312 scrive che i concetti puri dell’intelletto servono, «per così dire, a compitare i fenomeni per poterli leggere come esperienza»; e cfr. anche P 322-323.
  39. Questo avviene identicamente in Wittgenstein a come avviene in Hertz, alla cui teoria dei modelli dinamici è notoriamente ispirata la teoria dell’immagine elaborata nel Tractatus. Nei Principi della meccanica (cfr. § 418) Hertz definisce un sistema materiale come «modello dinamico» di un altro sistema materiale quando: i due hanno lo stesso numero di coordinate; esiste un modo di esprimere i due sistemi di coordinate tale per cui i due sistemi vengono descritti dalle stesse equazioni; in tale modo di espressione delle coordinate a movimenti nell’un sistema corrispondono movimenti equivalenti nell’altro. Così le coordinate possono essere dette «corrispondenti» e di conseguenza le posizioni, gli spostamenti ecc. È evidente che quando, in TLP 4.04b, Wittgenstein cita Hertz per sostenere che un’immagine e il fatto di cui essa è immagine devono avere la stessa molteplicità matematica, egli intende affermare che è necessaria una corrispondenza puntuale tra gli elementi dell’immagine e gli oggetti che sono parti costitutive dello stato di cose, e che dunque la «risoluzione» che l’immagine deve avere per essere effettivamente immagine di un certo fatto possibile corrisponde biunivocamente alla complessità del fatto, e non può essere né in eccesso, né in difetto. Ma Hertz è del tutto esplicito nel far notare che se un sistema materiale è modello di un altro, allora anche il secondo è modello del primo: «Ist ein System Modell eines zweiten Systems, so ist auch umgekehrt das zweite System Modell des ersten. Sind zwei Systeme Modelle eines dritten, so sind sie auch Modelle von einander. Das Modell des Modells eines Systems ist auch Modell des ursprünglichen Systems»; H. Hertz, Die Prinzipien der Mechanik in neuem Zusammenhange dargestellt, in Id., Gesammelte Werke von Heinrich Hertz, Johann Ambrosius Barth, Lipsia 1894, vol. III, p. 197 (§ 419). Cfr. anche K. Hamilton, “Darstellungen in The Principles of Mechanics and the Tractatus: The Representation of Objects in Relation in Hertz and Wittgenstein”, in Perspectives on Science, Massachusetts Institute of Technology, vol. 10, n. 1, 2002, p. 53.
  40. In Wittgenstein, per contro, è del tutto assente qualcosa come un’estetica trascendentale. La sensibilità, o la percezione, non sono completamente prive di importanza nella sua filosofia: ho accennato, per esempio, alla natura intuitiva, in senso percettivo, della comprensibilità del senso delle proposizioni e delle immagini in generale; ed è ovvio anche, per esempio, che l’idea che il senso di una proposizione vada «paragonato» alla realtà per deciderne la verità o falsità implica un momento empirico; tuttavia la logica di Wittgenstein, anche proprio in quanto logica trascendentale, gioca con ciò che è, non con ciò che appare, e l’ipotesi che ciò che è sia diverso da ciò che appare (che è il tarlo che rende necessaria l’elaborazione di una vera e propria teoria della percezione) non è per nulla presa in considerazione. Questo si spiega probabilmente col fatto che Wittgenstein (come emerge per esempio dal passo delle memorie di Malcolm che ho citato alla nota 31) si considerava semplicemente un logico.
  41. A.W. Moore, “Wittgenstein and Transcendental Idealism”, cit., pp. 181-182 (tr. it. mia).
  42. Per una rassegna delle interpretazioni che sono state proposte dell’uso del termine «trascendentale» da parte di Wittgenstein, cfr. M. Bastianelli, Oltre i limiti del linguaggio, cit., pp. 159-163.
  43. Per una ricostruzione storica delle vicende intellettuali di Wittgenstein dall’epoca delle prime letture di Russell all’elaborazione, alla vigilia della Prima guerra mondiale, della distinzione tra «dire» e «mostrare», cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein, cit., pp. 30-104.
  44. Se poi questa associazione tra il participio presente, l’attività e dunque il soggetto e tra il participio passato, la passività e dunque l’oggetto sia, come scrive Nietzsche, uno «sproposito grammaticale» (Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1992, libro II § 120), o se invece, proprio in quanto essa ha una natura grammaticale, si tratti semplicemente una regola, è una questione che sarebbe assai interessante porre dal punto di vista del Wittgenstein delle Ricerche filosofiche. Non è questa nota il luogo per farlo, ma non posso nascondere una propensione per la seconda possibilità.
  45. Cfr. p.e. E. Husserl, La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, tr. it. di E. Filippini, a cura di W. Biemel, Il Saggiatore, Milano 1975, p. 207.
  46. A partire dal 1907, ossia dal periodo in cui tenne il ciclo di lezioni L’idea della fenomenologia, Husserl gradualmente abbracciò la concezione della natura trascendentale della fenomenologia (si tratta di quella che a volte, in modo in realtà troppo schematico, si definisce «svolta idealistica» o appunto «svolta trascendentale»). Cfr. p.e. E. Husserl, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, a cura di V. Costa, Einaudi, Torino 2002, § 33 p. 77, e Id., La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, cit., dove il titolo stesso è del tutto esplicito.
  47. Mi discosto qui parzialmente dall’interpretazione proposta in B. Williams, “Wittgenstein and Idealism”, in G. Vesey (a cura di), Understanding Wittgenstein, Macmillan, Londra 1974, pp. 76-78, che a proposito dell’equivocità del termine «Io» nel Tractatus mi sembra più complessa di quanto è necessario e meno coerente di ciò che è possibile.
  48. «Ciascuno è il mondo intero, il microcosmo […] e ciò che ciascuno riconosce come propria essenza, esaurisce anche l’essenza del mondo intero, del macrocosmo»; A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., p. 201.
  49. L’espressione «solipsismo trascendentale» è usata a proposito della posizione wittgensteiniana del Tractatus da P.M.S. Hacker, Insight and Illusion, Oxford University Press, Oxford 1972 p. 58 e segg., e viene ripresa da B. Williams, “Wittgenstein and Idealism”, cit., p. 79, nel contesto della discussione critica da parte di Williams delle tesi di Hacker.
  50. Il testo tedesco di TLP 5.62c, molto del cui senso dipende dalla parentesi, è sostanzialmente ambiguo: «Dass die Welt m e i n e Welt ist, das zeigt sich darin, dass die Grenzen d e r Sprache (der Sprache, die allein ich verstehe) die Grenzen m e i n e r Welt bedeuten». La questione dell’esegesi di questo passaggio, sollevata in J. Hintikka, “On Wittgenstein’s Solipsism”, in Mind, 67, 1958, pp. 88-91, e discussa tra gli altri da E. Stenius, Wittgenstein’s Tractatus: A Critical Exposition of Its Main Lines of Thought, cit., cap. XI § 3, ha trovato una soluzione che può essere considerata definitiva nella scoperta da parte di C. Lewy (“A Note on the Text of the Tractatus”, in Mind, 76, 1967, pp. 416-423) di alcune correzioni annotate da Wittgenstein su una copia dell’edizione Ramsey-Ogden, che riferiscono «allein» a «Sprache».
  51. «Ce qui est réellement visé, ce n’est pas la solitude du moi, mais l’insurmontabilité du langage». Cfr. P. Hadot, Wittgenstein et les limites du langage, cit., p. 39.
  52. Questa argomentazione di Wittgenstein presenta singolari affinità con l’analisi del «paradosso della soggettività umana, che è soggetto per il mondo e insieme oggetto nel mondo», svolta da Husserl nella Crisi delle scienze europee, cit., pp. 205-212. La distinzione tra Io puro ed empirico può trovare un’ottima elaborazione nelle pagine di Husserl, e anche un confronto tra il solipsismo trascendentale di Wittgenstein e il passaggio dell’epoché husserliana attraverso una «singolare solitudine filosofica, che è l’esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale» (ivi, p. 210), può aggiungere qualcosa alla lettura del Tractatus.
  53. In realtà Kant, nella prima edizione della Critica della ragion pura (cfr. A369), contrappone nettamente idealismo trascendentale e realismo trascendentale: il primo, che tratta «tutti i fenomeni come semplici rappresentazioni», viene a coincidere con il realismo empirico, per il quale la materia esiste, ma solo appunto come rappresentazione, cioè nella misura in cui un nostro giudizio, alla formulazione del quale concorrono sensibilità e intelletto, può affermarla; la negazione della materia è l’idealismo empirico, che nasce in modo non sorprendente dalla pretesa di conoscere le cose in sé, ossia dal realismo trascendentale, e dalla constatazione, immediatamente successiva, che nessuna nostra facoltà ci permette di farlo. Nella seconda edizione questo passo scompare, anche se, nell’unica occorrenza residua del termine «realismo trascendentale» (che è anche l’unica occorrenza del termine «realismo») esso viene ancora considerato un’«illusione» (B571/A543). Data la difficoltà di parlare di esperienza in Wittgenstein, mi è sembrato legittimo traslare il senso della locuzione «realismo trascendentale» per indicare una posizione incline ad affermare la realtà spazio-temporale di ciò che accade, ma non disposta a separare tale affermazione dalle condizioni che rendono possibile un’affermazione in generale.
  54. P. Frascolla, Il “Tractatus logico-philosophicus” di Wittgenstein, cit., pp. 57-58, osserva che l’indipendenza tra la sensatezza di una proposizione e la sua verità è «il nocciolo del realismo del Tractatus». È vero, ma penso che, nel momento in cui lo si osserva, sia necessario osservare anche, correlativamente, che l’interdipendenza tra la sensatezza di una proposizione e la possibilità del fatto che essa raffigura è il nocciolo dell’idealismo del Tractatus. «Realismo», in questo contesto, vuol dire che non basta che io pensi qualcosa affinché quel qualcosa si verifichi; «idealismo» che tuttavia, affinché qualcosa possa verificarsi, bisogna che io possa pensarlo.
  55. Da un punto di vista speculativo sarebbe interessante, benché invece estremamente forzato da un punto di vista storico, riscontrare in questo un’affinità con la dottrina spinoziana dell’attributo divino del pensiero come strettamente parallelo e isomorfo all’attributo divino dell’estensione, la quale mette capo a una concezione dell’intelletto, per così dire, non intenzionale ma estensionale: il conoscente non unifica il conosciuto, ma lo rispecchia, non ne riduce la molteplicità, ma la riproduce.