Wittgenstein e la filosofia trascendentale del linguaggio/Introduzione

Introduzione

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Parte prima. La filosofia del Tractatus come filosofia trascendentale

Questo lavoro ha lo scopo di indagare la percorribilità di un’interpretazione in chiave trascendentale della filosofia di Ludwig Wittgenstein – a partire dalla sua prima elaborazione nel Tractatus logico-philosophicus, attraverso i silenzi e i ripensamenti che ne hanno caratterizzato lo sviluppo storico, fino a Della certezza, il documento a cui è stata consegnata la sua espressione più matura.

Intendo dapprima argomentare che la logica di cui nel Tractatus si parla come di ciò che accomuna le proposizioni e i fatti in quanto entrambi sono nessi articolati di un insieme di elementi ultimamente semplici, e che come tale rende possibile la corrispondenza tra le une e gli altri, dunque la verità e la falsità delle nostre affermazioni, è concepita come una logica trascendentale, e che quindi se le proprietà del mondo (degli oggetti e dei fatti) sono strettamente parallele a quelle del linguaggio (dei nomi e delle proposizioni) è perché i due sono in un rapporto di originaria correlazione anziché di originaria opposizione: il mondo è ciò che si rende conoscibile per mezzo del linguaggio, le strutture del linguaggio sono le strutture del mondo in quanto è conoscibile.

Quindi tenterò di dimostrare che, nel contesto profondamente mutato delle Ricerche filosofiche e di Della certezza, dove il linguaggio non è più concepito come una raffigurazione, ma come un gioco, le regole immanenti agli usi linguistici, che non possono essere ridotte o trascese se non al prezzo di uscire dal gioco stesso e di perdere, con ciò, la capacità di dire alcunché di sensato, sono le condizioni di possibilità della conoscenza in generale, e che dunque la grammatica che è al centro dell’attenzione di Wittgenstein nelle sue ricerche tarde opera a sua volta come una logica trascendentale.

Aver stabilito un tale filo conduttore propriamente filosofico per la lettura dei testi di un autore tra i più difficili da avvicinare per chi voglia limitarsi a fare della storia della filosofia dovrebbe infine permettermi di esprimere una valutazione sull’entità e sulle ragioni delle continuità e delle discontinuità che possono essere riscontrate tra le opere della prima e della seconda produzione wittgensteiniana.

Tutto questo, ovviamente, guadagna assai poco dall’essere annunciato, e attende piuttosto di essere svolto. Prima di procedere oltre, però, vorrei dedicare poche parole a due cose che non intendo fare.

In primo luogo, non voglio presentare la filosofia di Wittgenstein come un kantismo. Immanuel Kant, non c’è quasi bisogno di dirlo, è il primo e più rilevante punto di riferimento per ogni discorso sul trascendentale, e infatti le sue opere di carattere teoretico saranno sistematicamente al centro dell’attenzione nel corso dei miei tentativi di precisare la nozione di «trascendentale» e di esaminare la sua utilizzabilità all’interno di un discorso su Wittgenstein. Tuttavia, altrettanto evidentemente, «trascendentale» e «kantiano» non sono affatto sinonimi. L’onestà intellettuale e l’anti-dogmatismo di Kant in persona hanno permesso di riconoscere esplicitamente che il miglior modo di essere suoi degni discepoli è quello di abbandonarne la lettera ovunque vi siano ragioni per farlo, cosicché un kantismo ortodosso sarebbe una contraddizione in termini;1 ma anche a prescindere da questa considerazione, che offre il più autorevole dei beneplaciti a un tentativo di separare il «metodo» di Kant da alcuni aspetti della «dottrina» che egli ne fa derivare,2 la distinzione tra metodo e dottrina può, con certe cautele, essere abbracciata, e insieme a un rapido sguardo alla storia della filosofia ci basta per dire che il concetto di «trascendentale» è più ampio di quello di «kantiano».3

In breve, vorrei sostenere che Wittgenstein è un filosofo trascendentale e mostrare come ciò sia pienamente compatibile col suo rifiuto di alcuni nodi concettuali tipici della declinazione specificamente kantiana del trascendentalismo, tra cui ad esempio la distinzione di sensibilità e intelletto e la nozione di «sintetico a priori». Dimostrare che una filosofia trascendentale può reggersi in piedi, conservando la legittimità di tale titolo, anche se si fanno cadere questi capisaldi richiederà giustificazioni appropriate, ed evidentemente comporterà da parte mia uno sforzo non solo per applicare la nozione di «trascendentale», come essa si è definita nella tradizione, al pensiero di Wittgenstein, ma anche per ridefinire tale nozione precisamente allo scopo di renderla compatibile con esso. Al di là di un’operazione che comunque ritengo interessante dal punto di vista della storia della filosofia, quella appunto di valutare in che misura una nozione di «trascendentale» derivata dalla lettura di Kant e una ripensata per applicarsi a Wittgenstein sono simili, e in che misura sono diverse, è in gioco nel mio discorso una posta strettamente speculativa: la possibilità cioè di costruire una filosofia trascendentale che si lasci alle spalle le insufficienze della dottrina di Kant e che incorpori le più feconde acquisizioni della riflessione sul linguaggio senza cadere negli errori a cui questa nel XX secolo ha dato luogo.

In seconda istanza, non voglio mettermi alla ricerca nel corpus wittgensteiniano di qualche esemplare di ciò che si è preso l’abitudine di chiamare «argomento trascendentale». A partire dagli scritti di Peter Strawson4 e di Barry Stroud,5 cioè nel corso degli ultimi cinquant’anni, la nozione di «argomento trascendentale» ha conosciuto una certa fortuna. Ritengo tuttavia che non esista niente come un argomento trascendentale, e che addirittura non possa esistere. Un argomento dovrebbe, per essere tale, quantomeno ambire a provare qualcosa. Una filosofia trascendentale per contro si caratterizza per un’auto-limitazione programmatica, per il rifiuto di porre in questione certe cose e quindi anche di provarle: la possibilità della conoscenza in generale viene sottratta per principio alla sfera di ciò che può essere argomentato (per il sì o per il no) e precisamente su questa base un filosofo trascendentale può dire che, in quanto presupposte dalla possibilità stessa della conoscenza, certe forme dell’esperienza o del linguaggio (a seconda del resto del proprio quadro teorico) sono necessarie e lo sono a priori.

Stroud, a cui si deve l’espressione, ritiene che l’«argomento trascendentale» di Kant consista nel provare che la verità delle sue conclusioni è una condizione necessaria perché vi sia esperienza o pensiero in generale.6 Dovremmo dunque provare, ad esempio, che se non fosse valido il principio per cui nulla avviene senza causa allora l’esperienza stessa non sarebbe possibile. Ora, Kant ritiene davvero che se un tale principio non fosse valido un’esperienza di portata oggettiva, cioè un’esperienza in senso pieno e proprio, non sarebbe possibile. Ma non ritiene affatto di doverlo provare di fronte a uno scettico che, ipotizza Stroud, potrebbe dire qualcosa come: «Noi siamo obbligati a ritenere che nulla avvenga senza una causa, ma non sappiamo se sia vero che nulla avviene senza causa».7 È vero, come sostiene Stroud, che se Kant pensasse questo ciò che vi è di trascendentale nella sua argomentazione non servirebbe a niente, e la bontà della sua strategia antiscettica dipenderebbe da un «principio di verificazione»8 indipendente. Ma Kant non pensa niente del genere. Che il principio di causalità sia presupposto dalla costituzione dell’esperienza in quanto oggettiva non ha bisogno di alcuna giustificazione: ciò è, anzi, la giustificazione della validità oggettiva della categoria della causalità, ma questa giustificazione non è la fondazione di una proposizione vera su un’altra proposizione vera, bensì è una deduzione trascendentale, nella quale anziché fondare alcunché ci si limita a mostrare che dubitare della validità del concetto di «causalità» sarebbe tanto assurdo quanto dubitare della possibilità dei giudizi ipotetici che sono impiegati sistematicamente nella scienza naturale. Più esplicitamente: una deduzione trascendentale non consiste nel fondare i presupposti delle scienze, ma unicamente nel mostrare che sono i loro presupposti. Non c’è bisogno di alcun principio di verificazione, perché ciò che siamo obbligati a tenere per valido se la nostra esperienza dev’essere possibile è anche ciò che vale a priori, perché la possibilità della nostra esperienza e dell’oggettività della sua validità non può essere dubitata più di quanto può essere provata: una deduzione trascendentale può fare a meno di qualsivoglia principio di verificazione, ma solo perché non può andare separata dall’idealismo trascendentale.9 Se siamo obbligati a ritenere che nulla avvenga senza una causa, allora non possiamo né mettere in dubbio né tentare di provare che sia vero che nulla avviene senza causa.

Non sono dunque possibili argomenti trascendentali. Sono possibili approcci trascendentali alla filosofia, impostazioni trascendentali del problema generale della conoscenza. L’idea che si possa riscontrare in Kant, in Wittgenstein o in chiunque altro una prova trascendentale suscettibile di essere isolata dal proprio contesto sistematico riflette l’idea, caratteristica della filosofia analitica, che i problemi filosofici possano essere risolti a colpi di argomenti, uno per volta, facendo a meno, e anzi evitando positivamente, di impegnarsi in alcuna presa di posizione di portata olistica.10 Per un certo impegno nella direzione della sistematicità vorrei, invece, che si caratterizzasse il mio lavoro.

Note

  1. Cfr. P. Natorp, “Kant e la scuola di Marburgo”, in Id., Tra Kant e Husserl. Scritti 1887-1914, a cura di M. Ferrari e G. Gigliotti, Le Lettere, Firenze 2011, pp. 113-116.
  2. Cfr. ivi, p. 114.
  3. È stato notato da più parti, credo a ragione, che la perorazione da parte di Aristotele (Metafisica, Γ, 4) in difesa del principio di non contraddizione ha qualcosa di trascendentale, nella misura in cui non può evidentemente non presupporre la necessità della coerenza per ogni argomentazione: ciò che egli dice si riduce dunque (ma non è poco) a far osservare che il rispetto del principio di non contraddizione è condizione di possibilità di ogni conversazione, e che abbandonarlo significa abbandonare il gioco linguistico stesso. Cfr. A. Boyer, “Pourquoi des arguments transcendantaux ?”, in La querelle des arguments transcendantaux, a cura di S. Chauvier, serie Cahiers philosophiques de l’Université de Caen, n. 35, Presses Universitaires de Caen, Caen 2000, p. 46, che rimanda ai lavori di K.-O. Apel e B. Cassin. Allo stesso tempo, all’estremità opposta della cronologia, la fenomenologia di Husserl ha avuto senz’altro titolo per caratterizzare se stessa come una filosofia trascendentale senza essere, in alcun senso ragionevole, una forma di kantismo. Cfr. infra, nota 56. Cfr. anche, sul tema della separabilità tra la filosofia trascendentale e la filosofia di Kant, N. Garver, “Wittgenstein and the Critical Tradition”, in History of Philosophy Quarterly, vol. 7, n. 2, 1990, p. 227.
  4. P.F. Strawson, Individuals. An Essay in Descriptive Metaphysics, Doubleday, New York 1959; Id., The Bounds of Sense. An Essay on Kant’s “Critique of Pure Reason”, Methuen, Londra 1966.
  5. B. Stroud, “Transcendental Arguments”, in Journal of Philosophy, vol. 45, n. 9, maggio 1968, pp. 241-256. Per una panoramica della vicenda degli argomenti trascendentali a partire da Strawson e Stroud e una discussione delle loro implicazioni filosofiche, cfr. S. Chauvier (a cura di), La querelle des arguments transcendantaux, cit.
  6. Cfr. B. Stroud, “Transcendental Arguments”, cit., p. 252.
  7. Cfr. ivi, p. 256.
  8. Cfr. ivi, pp. 247, 255-256.
  9. La sterilità di una separazione del genere mi sembra esibita con tutta la chiarezza possibile nel saggio in cui Peter Hacker si mette alla ricerca di «argomenti trascendentali» nelle opere di Wittgenstein: cfr. P.M.S. Hacker, “Kant and Wittgenstein: the Matter of Transcendental Arguments”, in Id., Wittgenstein: Comparisons and Context, Oxford University Press, 2013, pp. 31-53. Il fatto che non ne trovi non stupisce, ma anche non significa niente quanto al problema se Wittgenstein possa essere considerato un filosofo trascendentale.
  10. Manifesto di tale atteggiamento è un passo molto citato di B. Russell, A History of Western Philosophy, Simon & Schuster, New York 1945, p. 834: «Modern analytical empiricism […] differs from that of Locke, Berkeley, and Hume by its incorporation of mathematics and its development of a powerful logical technique. It is thus able, in regard to certain problems, to achieve definite answers, which have the quality of science rather than of philosophy. It has the advantage, in comparison with the philosophies of the system-builders, of being able to tackle its problems one at a time, instead of having to invent at one stroke a block theory of the whole universe. Its methods, in this respect, resemble those of science».