Wittgenstein e la filosofia trascendentale del linguaggio/Parte seconda. La filosofia dell'ultimo Wittgenstein come filosofia trascendentale

Introduzione

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Parte prima. La filosofia del Tractatus come filosofia trascendentale Conclusione

2.1 Premessa metodologica. Dal Tractatus alle Ricerche filosofiche, dalle Ricerche filosofiche a Della certezza

Il Tractatus logico-philosophicus era stato progettato dal suo autore per essere l’ultimo libro di filosofia: questo rende impossibile stupirsi del fatto che l’impostazione dei libri di filosofia che costui invece poi scrisse sia tanto diversa da quella del capolavoro giovanile.

La filosofia del Tractatus semplicemente non ammetteva sviluppi tali da poter giustificare la pubblicazione di un nuovo testo che conservasse l’essenziale delle sue tesi e al contempo aggiungesse loro qualcosa di rilevante. Certamente, come abbiamo già osservato, Wittgenstein avrebbe contemplato la possibilità di un’esposizione più accessibile delle sue idee e forse persino la auspicava; altrettanto certamente, come Russell notava nella sua introduzione al Tractatus,1 la filosofia della matematica di quest’opera era a uno stato poco più che embrionale e avrebbe potuto avvalersi con profitto di significative integrazioni in merito, per esempio, alla teoria dei numeri transfiniti. Tuttavia sul nucleo filosofico del suo lavoro Wittgenstein non nutriva riserve: «Sono dell’opinione di aver risolto nell’essenziale i problemi una volta per tutte» (TLP, Pref.).

Questa sede non è senz’altro adatta a indagare le ragioni storiche, in un senso strettamente biografico, del mutamento di alcuni aspetti nodali del pensiero di Wittgenstein attraverso gli anni Venti e Trenta. Come non mi sono occupato se non del tutto incidentalmente del debito bibliograficamente accertabile che Wittgenstein aveva nei confronti di coloro che sono comunque, in qualche senso, le fonti del Tractatus (Kant e Schopenhauer, Boltzmann e Hertz, Frege e Russell, Kraus, Loos, Weininger…), così non cercherò di indagare la rilevanza per la sua riflessione matura dell’esperienza nelle scuole elementari dell’Austria rurale, delle conversazioni con Ramsey e con i membri del Circolo di Vienna, del contatto con l’intuizionismo di Brouwer, del gesticolare di Piero Sraffa, ecc.2

Tuttavia il problema della discontinuità che separa l’unico libro di filosofia che Wittgenstein pubblicò in vita dal primo dei suoi libri che vide la luce dopo la sua morte si pone in ogni caso. Se si studia il pensiero di questo particolare filosofo nel suo complesso, e non prendendo in considerazione una sola opera per volta, risulta impossibile non assumere una prospettiva diacronica onde tentare di evitare quelle che, se si adottasse un punto di vista sincronico, rigorosamente sistematico, sarebbero schiette incompatibilità tra un’opera e l’altra. Porre questo problema – che rientra senz’altro nell’ambito di interesse della storia della filosofia e, insomma, può ancora chiamarsi un problema storico – in termini non strettamente biografici significa disinteressarsi delle moltissime contingenze che senza dubbio hanno influenzato in vario modo le riflessioni di Wittgenstein nel corso della seconda metà della sua vita, e concentrarsi sulla domanda che è forse la sola filosoficamente stimolante: in che modo le Ricerche filosofiche ritengono di poter rispondere a domande a cui il Tractatus non risponde – o a cui risponde in modo non soddisfacente? Giungere a questo tipo di comprensione sarà uno degli obiettivi di questa seconda parte del presente saggio: ritengo infatti che un’interpretazione del Wittgenstein maturo come filosofo trascendentale ci permetta di capire sia le ragioni per cui quello che è rimasto invariato tra i primi e gli ultimi testi è rimasto invariato, sia perché è cambiato quello che è cambiato. In questo capitolo vorrei tuttavia, a titolo preliminare, provare a capire come è più opportuno avvicinarsi all’insieme dei testi wittgensteiniani del periodo più tardo: in primo luogo esaminando alcune affinità e divergenze relativamente ovvie tra il discorso che precede e quello che segue il silenzio dei primi anni Venti; in secondo luogo discutendo brevemente del rapporto che intercorre tra i due testi tardi che principalmente mi interessano, cioè le Ricerche filosofiche e Della certezza.

Quello che probabilmente è l’aspetto principale della concezione del linguaggio nelle Ricerche filosofiche – dove il ruolo del linguaggio è comunque tanto importante quanto lo era nel Tractatus – può essere riassunto nell’idea che il criterio dell’uso delle parole non si trova al di fuori o al di sopra di questo uso stesso, ma in esso. La filosofia si occupa di insegnare a «passare da un non-senso occulto a un non-senso palese» (PU 464), il che pare del tutto in linea con la vocazione e la metodologia del Tractatus; ma la demarcazione critica tra senso e nonsenso non è più basata sulla convinzione che se nei concetti c’è un’ordine esso dev’essere un’ordine perfetto (cfr. PU 98) e, per così dire, di ordine superiore rispetto a quello dei concetti ordinari (cfr. PU 97); non è più ricercata in un linguaggio artificiale e sublimato che paga, per l’univocità della trasmissione del senso, il prezzo di non poter essere applicato in alcun contesto reale (cfr. PU 96, 107). L’uso concreto, quotidiano, ordinario delle parole non è una deformazione di quello che sarebbe un uso appropriato del linguaggio, ma la sua forma, perché l’attività del nominare oggetti e combinare nomi in proposizioni è solo uno dei molteplici impieghi possibili delle parole, il quale, da solo, non basta a rendere conto nemmeno delle più fredde pratiche descrittive, che sono comunque intrecciate a una rete di gesti nient’affatto riducibili a una sintassi logica del tipo di cui parla il Tractatus. Noi ci impegniamo in giochi linguistici estremamente complessi, nei quali l’impiego delle parole va sempre di pari passo con azioni e reazioni che certamente hanno una regolarità, la quale però è accessibile appunto solo là dove si costituisce come regolarità di un uso, regola di un gioco.

Si può chiarire il mutamento di prospettiva che abbiamo di fronte osservando di passaggio che dal punto di vista delle Ricerche filosofiche il problema che ho discusso al paragrafo 1.1 di questo saggio, ossia il problema dello statuto delle proposizioni di cui il Tractatus si compone alla luce della teoria del linguaggio come immagine che il Tractatus delinea e della distinzione tra senso e nonsenso che ne consegue, si risolve venendo completamente rovesciato. Non è la teoria della raffigurazione a rischiare di delegittimare la formulazione delle proposizioni metalogiche sollevando così la questione di come queste possano allora essere comprensibili: è la comprensibilità delle proposizioni metalogiche (ed etiche, ed estetiche) del Tractatus, la loro innegabile efficacia comunicativa, a rendere evidente che il modo in cui il linguaggio funziona non è quello cristallino, aureolato, che voleva l’autore di quel testo.

Ciò che il filosofo, secondo Wittgenstein, dovrebbe fare, e in ogni caso ciò che egli fa nelle Ricerche filosofiche, è assumersi un compito di chiarificazione concettuale: «Un problema filosofico ha la forma: “non mi ci raccapezzo”» (PU 123). «Una delle fonti della nostra incomprensione è il fatto che non vediamo chiaramente l’uso delle nostre parole. – La nostra grammatica manca di perspicuità» (PU 122). Il nostro scopo allora è raggiunto ogni volta che, da filosofi, riusciamo a sciogliere un nodo in cui il pensiero è impigliato portando a evidenza la nostra grammatica, che sovente non comprendiamo a causa della sua complessità. Anche nel Tractatus si sosteneva che la posizione dei problemi filosofici «nasce dal fraintendimento della logica del nostro linguaggio» (TLP, Pref.), ma ora tale logica non è più concepita come il sistema semplicissimo dei principi assoluti dati i quali è fissata una volta e per sempre la natura e dunque l’applicabilità dei concetti di «parola», «proposizione», «verità», insomma come un «super-ordine tra super-concetti» (PU 97); essa è appunto la grammatica, nel senso che diamo abitualmente a questo termine, del linguaggio che usiamo abitualmente. «Se le parole “linguaggio”, “esperienza”, “mondo”, hanno un impiego, esso dev’essere terra terra, come quello delle parole “tavolo”, “lampada”, “porta”» (PU 97). «La filosofia della logica parla di proposizioni e di parole in un senso per nulla diverso da quello in cui ne parliamo nella vita quotidiana, quando, per esempio, diciamo: “Qui sta scritta una proposizione cinese”, oppure “No, sembrano segni grafici, ma si tratta di un ornamento”» (PU 108).

Che le parole «parola», «proposizione», «verità» si comportino in modo del tutto omogeneo rispetto a ogni altro termine del linguaggio esclude che l’attività filosofica sia elevata o relegata «sopra o sotto, ma non accanto» a tutti gli altri giochi linguistici di cui è permeata la nostra vita. Essa è un gioco linguistico tra gli altri, condivide il loro stesso piano. «Si potrebbe pensare: se la filosofia parla dell’uso della parola “filosofia”, dev’esserci una filosofia di secondo grado. Ma non è affatto così; il caso corrisponde piuttosto a quello dell’ortografia, la quale deve occuparsi anche della parola “ortografia”, ma non per questo è una parola di secondo grado» (PU 121). Proprio in questo modo le Ricerche filosofiche si sottraggono al problema che era quello del Tractatus, il problema cioè dell’impossibilità dell’autoriferimento del linguaggio: la possibilità dell’autoriferimento fa parte della grammatica del nostro linguaggio, in modo tanto ovvio quanto il fatto che «parola» sia una parola. Il linguaggio ordinario coincide con il suo stesso metalinguaggio, e ciò che ci permette di dirlo è la semplice constatazione che gli usi linguistici consistenti nel nostro parlare del nostro parlare hanno tutta la regolarità e tutta l’efficacia comunicativa di cui c’è bisogno affinché un uso qualsiasi sia pienamente sensato.

Concepire la filosofia come un’attività di disambiguazione dei termini, di analisi dei loro utilizzi in cerca delle regolarità che, bene o male, li strutturano, di smascheramento dei casi in cui il linguaggio gira a vuoto, e insomma, di nuovo, come un compito di chiarificazione concettuale, autorizza a considerarla come una terapia: il malato è colui che, non comprendendo la grammatica del linguaggio, attribuisce a parole il cui uso non padroneggia – in parte per questo motivo, in parte in ragione della generale importanza per noi del linguaggio – una profondità inaudita (cfr. PU 110-111); la cura consiste nel togliere a tali parole l’aura che le fa sembrare cittadine dell’iperuranio, e questo può farsi solo chiarendo che se esse hanno affatto senso, ciò deve vedersi nel loro uso, esattamente come si vede che hanno senso, e che senso hanno, le parole che indicano le cose più concrete («Noi riportiamo le parole, dal loro impiego metafisico, indietro al loro impiego quotidiano», PU 116). In definitiva, «la filosofia è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio» (PU 109).3 Ma se il linguaggio non ha un ordine unico ed elementare che possa essere espresso, per esempio, da qualcosa come una «forma generale della proposizione» (cfr. PU 65, 114), bensì si compone di un insieme di regolarità assai intricate che possono anche non essere dominate tutte insieme, e anzi sono sempre applicate in modo frammentario e decentrato, ciò significa che i problemi non possono essere risolti in blocco: più realisticamente si dovrà procedere toccando una questione alla volta, applicando un metodo che è sì strutturalmente unitario – perché basato sul principio del chiarimento grammaticale, del non creare nuova conoscenza, ma sistemare quella che abbiamo già – ma che va adattato caso per caso alle esigenze dettate dalla situazione: «Vogliamo mettere ordine nella nostra conoscenza dell’uso del linguaggio: un ordine per uno scopo determinato; uno dei molti ordini possibili, non l’ordine. A tale scopo metteremo continuamente in rilevo quelle distinzioni che le nostre comuni forme linguistiche ci fanno facilmente trascurare. […] Vengono risolti problemi (eliminate difficoltà), non un problema. Non c’è un metodo della filosofia, ma ci sono metodi; per così dire, differenti terapie» (PU 132-133).

Anche all’altezza delle Ricerche filosofiche, come forse si sta cominciando a vedere, vi è qualcosa di anti-filosofico nella concezione wittgensteiniana della filosofia. Nell’incantamento dell’intelletto ad opera del linguaggio possono cadere tutti, ma i malati cronici, coloro che si dibattono incessantemente tra domande e risposte basate su nient’altro che gravi fraintendimenti della grammatica, sono precisamente i filosofi. E un’attività filosofica bene intesa – si potrebbe dire, con cautela, una filosofia critica – è volta a rimuovere la radice delle discussioni senza capo né coda che si originano quando il linguaggio «fa vacanza [feiert]» (cfr. PU 38), dunque a eliminare la filosofia nel suo esercizio non critico – la quale può ancora essere chiamata «metafisica» (cfr. PU 58, 116). Una volta eliminata la filosofia come esito dei fraintendimenti viene meno anche il bisogno di una filosofia come argine dei fraintendimenti. «La chiarezza cui aspiriamo è una chiarezza completa. Ma questo vuol dire soltanto che i problemi filosofici devono svanire completamente. La vera scoperta è quella che mi rende capace di smettere di filosofare quando voglio. – Quella che mette a riposo la filosofia, così che essa non è più tormentata da questioni che mettono in questione la filosofia stessa» (PU 133). L’intento è qui quello di rimuovere le oscurità dei nostri usi linguistici, e cioè di rimuovere gli usi linguistici oscuri, che sono tali perché violano le regole della grammatica, anche se possono violarle in modo non palese, essendo la grammatica intricata com’è. In ogni caso la filosofia non dovrebbe spiegare alcunché, ma solamente portare chiarezza. In altri termini essa dovrebbe occuparsi delle condizioni alle quali una dottrina è possibile (le proposizioni hanno senso) e non di quali proposizioni sono vere (per dar luogo a una dottrina): «A noi non è dato costruire alcun tipo di teoria. Nelle nostre considerazioni non può esserci nulla di ipotetico. Ogni spiegazione dev’essere messa al bando, e soltanto la descrizione deve prendere il suo posto. E questa descrizione riceve la sua luce, cioè il suo scopo, dai problemi filosofici. Questi non sono, naturalmente, problemi empirici, ma problemi che si risolvono penetrando l’operare del nostro linguaggio in modo da riconoscerlo: contro una forte tendenza a fraintenderlo. I problemi si risolvono non già producendo nuove esperienze, bensì assestando ciò che da tempo ci è noto» (PU 109). In questo senso, il compito della filosofia è esclusivamente descrittivo. Il linguaggio ha già un proprio ordine, benché proteiforme, per il semplice fatto che il senso di una parola è determinato esattamente dal suo uso, l’intrinseca regolarità del quale – senza bisogno di ricorrere ad alcun principio eteronomo o sovraordinato – costituisce una regola grammaticale. «La filosofia non può in nessun modo intaccare l’uso effettivo del linguaggio; può, in definitiva, soltanto descriverlo. […] Lascia tutto com’è» (PU 124).

Si può avere così l’impressione di un modo di intendere la filosofia tendente piuttosto a sminuirla che a conferirle quella nobiltà ed elevazione che, per tradizione, le spetterebbero. Ora credo sia senz’altro vero che, quando propone un riorientamento dell’attenzione dei filosofi da una verità eccelsa al linguaggio molto umile in cui qualsiasi verità, come qualsiasi altro contenuto comunicativo, è vincolata a trovare espressione, Wittgenstein compie un’operazione di grande novità e di enorme importanza, la quale inoltre ha davvero qualcosa in comune col gesto un po’ dissacrante del perplesso che invita lo stilita a venir giù dalla sua colonna (e magari gli porge la scala che quello aveva dapprima usato per salire, poi buttato via). Non credo, però, che al ridiscendere sulla terra dell’oggetto principe di cui il filosofo si interessa corrisponda un avvilimento della disciplina filosofica stessa. Che vi sia una componente anti-filosofica nella maniera in cui Wittgenstein ci propone di intendere e praticare la filosofia non vuol dire che essa sia semplicemente autodistruttiva, o autocontraddittoria, ma solamente che un esercizio appropriato della filosofia ha tra i suoi effetti l’esclusione di un suo esercizio inappropriato.

Rispetto a quanto avveniva nel Tractatus, il concetto di «filosofia» definito e messo all’opera nelle Ricerche filosofiche differisce in un punto essenziale: essa è un’attività legittima, perché omogenea a tutte le altre attività linguistiche. È, come dicevo, un gioco linguistico tra gli altri. Wittgenstein sostiene che le questioni filosofiche (in quanto contrapposte, per esempio, a quelle scientifiche) sono quelle in cui è implicata un’incomprensione della grammatica (e non una semplice indecisione circa una questione empirica) e che il ruolo della filosofia è rendere piana e intelligibile la grammatica; e ciò vuol dire che se la grammatica del linguaggio potesse mai essere resa del tutto priva di equivocità, allora la filosofia diventerebbe superflua, se non impossibile. Ma la gran parte delle Ricerche filosofiche, al di fuori dei paragrafi 90-133 che ho ora discusso, e nei quali è concentrata la maggior parte delle riflessioni di Wittgenstein sul valore e sul ruolo della filosofia, è dedicata a mettere in evidenza quanto complesso, multiforme, sfuggente è realmente il linguaggio, e persino come nella logica stessa che sottende ciò che vi è di più onnipervasivo nel suo funzionamento è implicata un’irriducibile insufficienza, che è allo stesso tempo un irriducibile eccesso, nella forma della sottodeterminazione necessaria della regola rispetto all’applicazione. Su questo punto dovrò tornare a più riprese, ma ciò che mi interessa ora è che se davvero le Ricerche filosofiche mostrano quanto lontana e quanto parziale era la concezione del linguaggio del Tractatus rispetto alla realtà delle transazioni verbali tra gli uomini, allora esse mostrano anche che la filosofia non può essere superata, una volta per tutte, quando il linguaggio è stato definitivamente emendato dai suoi solecismi e dalle sue oscurità, e che al contrario, essendo il linguaggio irriducibilmente ambiguo e difficilmente penetrabile, l’attività filosofica accompagna necessariamente l’attività linguistica, e si potrebbe fare a meno della prima solo facendo a meno della seconda. Wittgenstein parla di mettere a riposo la filosofia «quando voglio», ma non fa cenno alla possibilità di metterla a risposo una volta per tutte; al contrario sembra che l’idea che vengano risolti problemi, «non un problema», impedisca di darsi come obiettivo una simile definitività.

Dunque, benché la lettura delle Ricerche filosofiche come libro «terapeutico» sia senza dubbio fondata, bisogna non cadere nell’errore di pensare che l’avere le proposizioni di Wittgenstein un’efficacia che va nella direzione di tenere a freno la filosofia nel senso deteriore impedisca loro di possedere un valore critico che è però in senso proprio e a pieno titolo un valore filosofico.

Le Ricerche filosofiche sono un libro dallo stile frammentario,4 in cui molte voci dialogano dando luogo a considerazioni sempre penetranti, di cui tuttavia può sfuggire l’unitarietà; ciò, se aggiunto al fatto che Wittgenstein stesso, come dicevamo, mette in guardia i suoi lettori contro la possibilità per la filosofia di offrire soluzioni totalizzanti e addirittura di mettere capo a vere e proprie teorie, può portare a ritenere che egli, come all’epoca del Tractatus, voglia più dissolvere che risolvere i problemi filosofici e che la sua attività speculativa si riduca a una pars destruens senza pars construens. Non credo, tuttavia, che le cose stiano così. Se infatti senz’altro, secondo il Wittgenstein maturo, la posizione di certe questioni e il tentativo di dar loro risposta sono, si potrebbe dire opportunamente, insensati, perché derivano, tramite incomprensioni di carattere grammaticale, da modi di esprimersi in cui il linguaggio non fa presa su quell’insieme di gesti e reazioni regolari che soli possono dargli senso, d’altro canto dire filosoficamente che un errore del genere è possibile, cioè appunto che esiste il rischio di fraintendere la grammatica in un modo che dà luogo a espressioni solo apparentemente dotate di senso, è un’operazione perfettamente dotata di senso. Questo è quanto dire che la filosofia condivide la stessa modalità di funzionamento, e soddisfa lo stesso criterio di sensatezza, delle altre attività piuttosto disparate che Wittgenstein chiama «giochi linguistici».

Che essa sia un’occupazione legittima e non disgiunta da una certa preoccupazione in vista della verità fa della filosofia un’occupazione importante. «La nostra è una ricerca grammaticale» (PU 90), ma non è una ricerca di cui si possa dire che è solo grammaticale, meramente grammaticale, come se ci fosse un modo di riflettere sui concetti diverso, e magari più profondo, rispetto al tentativo di rendere chiari i rapporti delle parole tra loro e con i nostri modi di agire, cioè il loro ruolo regolare nel gioco linguistico. Al contrario, una ricerca volta a dispiegare di fronte a noi in modo perspicuo l’uso di parole come, ad esempio, «conoscenza» e «verità», l’intreccio delle loro relazioni reciproche e con le attività umane, è una ricerca che ci mette a disposizione la sola possibile comprensione della natura della conoscenza e della verità: è la sola gnoseologia possibile, perché, potremmo dire, è una gnoseologia critica. Ora, poiché comprendere in modo approfondito e sfumato cosa sono, ad esempio, la conoscenza e la verità è una cosa importante, e poiché in generale è importante padroneggiare il proprio vocabolario concettuale, la filosofia come Wittgenstein la intende è a sua volta una cosa importante: non vi è niente di riduttivo nell’idea di «ricerca grammaticale».

Le Ricerche filosofiche sono molto chiare su questo punto quando declinano la propria metodologia in vista della soluzione del problema filosofico della natura delle rappresentazioni: «Non già cosa siano le rappresentazioni, ci si deve chiedere, o che cosa accada quando uno si rappresenta qualche cosa; bensì: come si usi la parola “rappresentazione”. Ma questo non significa che io voglia parlare soltanto di parole. Infatti, nella misura in cui, nella mia domanda, si parla della parola “rappresentazione”, viene anche messa in questione l’essenza della rappresentazione. E io dico soltanto che questa questione non può essere risolta – né per colui che ha la rappresentazione, né per un altro – indicando; e neppure dando la descrizione di qualche processo. Anche la prima domanda richiede che si spieghi una parola; ma dirige la nostra aspettazione verso un tipo sbagliato di risposta. L’essenza è espressa nella grammatica» (PU 370-371). È chiaro che qui sarebbe possibile sostituire a «rappresentazione» un termine qualunque della tradizione filosofica: è sufficiente tradurre Vorstellung come «immaginazione» anziché come «rappresentazione» per fare del passo citato il programma di un’indagine in chiave wittgensteiniana sull’immaginazione;5 ma poi, con maggiore libertà, si potrebbe chiedersi negli stessi termini cosa siano l’esperienza, il soggetto, la bellezza, la giustizia, e così via.

Insomma: l’idea che se la filosofia può risolvere problemi sia solo nei termini di un’ispezione analitica dell’ordine grammaticale concreto volta a dissiparne le torbidezze – con gli slogan cui a volte si accompagna: «non pensare, guarda!» (PU 66)6 – può comprensibilmente dare un’impressione piuttosto dimessa della filosofia: se essa è sopravvissuta al Tractatus, non è certo sopravvissuta indenne. Ma l’idea che la filosofia possa risolvere problemi chiarificando aspetti della grammatica non è innocente da un punto di vista filosofico, non può essere abbracciata come se ciò non comportasse presupposti e conseguenze: la presa di posizione filosoficamente impegnativa che Wittgenstein ci propone è di enorme portata, ed è già significativo che egli nel formularla non si faccia scrupolo di ricorrere a un lessico tradizionale che può anche sorprenderci: l’«essenza» delle cose stesse è espressa nella grammatica (cfr. anche PU 89), e la comprensione di quella consiste nella comprensione di questa. I criteri di tutte le verità e falsità sono immanenti al linguaggio nel quale quelle stesse verità e falsità trovano espressione.

A partire da queste considerazioni, a un modo di leggere le Ricerche filosofiche assai limitativo, quello che nega che esse contengano alcuna proposta filosofica sostanziale, ma solo terapie che sono solo terapie, vorrei contrapporre l’idea che la concezione della filosofia come terapia, o meglio insieme di terapie, resta una concezione consapevolmente e affermativamente filosofica.

Quando Wittgenstein dice che ai filosofi non è dato costruire alcuna teoria, lo fa in un contesto (quello di PU 109) che rende evidente che ciò che gli preme è distinguere il discorso filosofico da quello, per esempio, scientifico, in vista di un’acquisizione di grande importanza per la sua visione complessiva: «La nostra ricerca non si rivolge […] ai fenomeni, ma alla possibilità dei fenomeni» (PU 90). Come nel Tractatus, cosa si verifichi e cosa non si verifichi è un problema empirico che interessa alla scienza risolvere; alla filosofia interessano le strutture che permettono di costruire teorie che possono essere decise empiricamente.7 In breve, se alla scienza interessa dire cosa è attuale, e quindi quali proposizioni sono vere, alla filosofia interessa dire cosa è possibile, e quindi quali proposizioni hanno senso. In questi termini risulta chiaro perché la filosofia non ha teorie come suo esito: la filosofia mira a mettere in evidenza l’impalcatura necessaria delle teorie possibili, la loro logica, la loro grammatica. Se una teoria scientifica può essere vera o falsa, ciò su cui verte la filosofia sono quei presupposti strutturali del discorso scientifico che non possono essere messi in dubbio, e che dunque sembra anche strano affermare. «Se in filosofia si volessero proporre tesi, non sarebbe mai possibile metterle in discussione, perché tutti sarebbero d’accordo con esse» (PU 128, ma cfr. anche 599). Ciò non vuol dire però che ciò che la filosofia ha da dire sia del tutto triviale. Ciò che abbiamo sempre di fronte è ciò che è più difficile da notare: «Gli aspetti per noi più importanti delle cose sono nascosti dalla loro semplicità e quotidianità. (Non ce ne possiamo accorgere, – perché li abbiamo sempre sotto gli occhi.) Gli autentici fondamenti di una ricerca non dànno affatto nell’occhio a chi vi è impegnato» (PU 129). Per questo il compito della filosofia non è privo di importanza. La grammatica può essere qualcosa che, una volta che viene portato a chiarezza, mette tutti d’accordo, nella misura in cui l’accordo grammaticale è in effetti la condizione di possibilità dell’accordo come del disaccordo su ciò che è fattuale; ma l’oscurità della grammatica è reale ed è un problema, e l’attività di portare la grammatica alla chiarezza, la «ricerca grammaticale», è il tentativo di risolvere un problema reale. La filosofia vuole rendere ovvio ciò che dovrebbe esserlo e invece non lo è, o non lo è abbastanza, e questa operazione non si risolve affatto in qualcosa di completamente ovvio.8 La filosofia, a rigore, non lascia tutto com’è: lascia la grammatica com’è, ma porta la nostra comprensione di essa a un livello di molto maggiore raffinatezza.

Le proposizioni delle Ricerche filosofiche, sconnesse e lacunose come sono, ambiscono a comunicare una precisa concezione filosofica. La cura delle malattie del linguaggio consiste nella comprensione adeguata del funzionamento del linguaggio, contro le idee superstiziose nutrite dalla filosofia dogmatica del passato a proposito della natura del significato, della privatezza del pensiero e delle sensazioni ecc. La terapia è la filosofia critica.

Non si può insistere abbastanza sul fatto che le Ricerche filosofiche sono davvero una «raccolta di schizzi» (PU, Pref.) in cui si affastellano esempi, metafore e analogie, esperimenti mentali, domande retoriche, conversazioni simulate. Leggendole è facile perdere il filo dell’argomentazione, e a volte si ha l’impressione che per un passo avanti se ne facciano due indietro. Tuttavia, in quanto «precipitato» (ibid.), esse hanno una sostanziale coerenza.9 Il fatto che nel testo spesso dialoghino diverse voci non deve far pensare che il messaggio che deve andare da Wittgenstein al suo lettore sia quello che va dal «personaggio» più autorevole a quello più ingenuo, ma nemmeno che la polifonia abbia come solo scopo quello di escludere la possibilità di una prospettiva unitaria e consistente sui problemi discussi.10 Semplicemente, ciò che Wittgenstein comunica è il risultato dell’interazione dialogica che egli mette in scena.11 Che questo risultato possa essere unitario va da sé; che effettivamente lo sia andrebbe argomentato per mezzo di un’esegesi minuziosa del libro che qui non si può certo nemmeno tentare.

In realtà, però, mi sento incline a concedere che le Ricerche filosofiche sono ultimamente, di fatto, un libro non sistematico. Probabilmente è vero che Wittgenstein vi ha voluto soprattutto mettere fuori gioco alcuni miti della filosofia tradizionale e alcuni abbagli in cui riteneva di essere caduto con il Tractatus, benché poi questa intenzione negativa, se anche è effettivamente preponderante nelle Ricerche filosofiche, non possa in ogni caso andare separata da una componente affermativa che le fornisca un piano d’appoggio. Comunque è per questa ragione, cioè proprio per l’asistematicità delle Ricerche, che nelle prossime pagine, che dedicherò come da programma a esaminare la percorribilità di un’interpretazione in chiave trascendentale della filosofia del Wittgenstein maturo, il riferimento principale che terrò presente sarà un altro dei suoi testi postumi: Della certezza.

Della certezza consiste di una collezione di osservazioni che Wittgenstein annotò nel corso dei suoi ultimi due anni di vita. Si tratta di un testo più breve delle Ricerche filosofiche, che raccoglie riflessioni ancora espresse in forma aforistica, ma messe per iscritto nel corso di un arco di tempo significativamente più breve, le quali inoltre si occupano di un problema molto più circoscritto. L’analisi prende le mosse da alcune obiezioni che Wittgenstein rivolge contro il modo di intendere il senso comune che G.E. Moore12 aveva posto alla base di una strategia antiscettica di cui vengono subito messe in evidenza le insufficienze. Nonostante il libro sia stilisticamente del tutto simile alle Ricerche filosofiche, la serrata sequenza di riflessioni sul modo in cui le parole funzionano nei nostri giochi linguistici mette rapidamente capo a una concezione della giustificazione e del fondamento dei nostri giudizi, della verità e della certezza, che costituisce una vera e propria gnoseologia.

Il fatto di non organizzare le proprie considerazioni come un’argomentazione lineare non impedisce a Wittgenstein di avanzare una proposta filosofica precisa e di carattere assertivo, così come il fatto di concepire il proprio discorso come finalizzato a mettere in chiaro il funzionamento della grammatica del nostro linguaggio non gli impedisce di registrare acquisizioni nient’affatto ovvie. Della certezza offre una risposta genuinamente filosofica al problema, genuinamente filosofico, della conoscenza.

Sebbene dunque, come mi sono sforzato di argomentare, anche le Ricerche filosofiche abbiano dei contenuti positivi, Della certezza è un testo assai più compatto e costruttivo, più centripeto e meno centrifugo. Per questa ragione vorrei evitare di reputarlo, come si fa abitualmente, meno importante delle Ricerche; allo stesso tempo però non ritengo giustificato che lo si consideri il capolavoro e il manifesto di un «terzo Wittgenstein»,13 che disterebbe dal «secondo» (quello appunto delle Ricerche filosofiche) magari non quanto questo dal «primo» (quello del Tractatus), ma comunque abbastanza da tracciare una discontinuità storiografica. Al contrario, Della certezza non contraddice alcuna delle acquisizioni teoriche cruciali delle Ricerche filosofiche – né l’idea che il significato consista nell’uso, né il principio dell’immanenza della regola all’applicazione e della sua sottodeterminazione rispetto a essa, né il legame tra la nozione di «linguaggio» e quella di «forma di vita». Di fronte alla sintesi estrema con cui Wittgenstein distilla i suoi pensieri in Della certezza, il ricorso al retroterra delle Ricerche filosofiche è sempre fruttuoso, e forse anzi si può dire che i frequenti confronti critici con i problemi filosofici classici in cui Wittgenstein si impegna in quest’opera e l’esteso repertorio di esempi che vi offre sono indispensabili per seguire fino in fondo le riflessioni di Della certezza.

Della certezza insomma è il testo nel quale si compie e si compendia quel ripensamento delle tesi del Tractatus che, iniziato già nella seconda metà degli anni Venti, tenne Wittgenstein occupato per tutta la vita. È in quest’opera che è testimoniata la sua maturità filosofica e, nella misura (che non va esagerata, ma neanche sottostimata) in cui una distinzione tra un primo e un secondo Wittgenstein è fondata e feconda, ritengo che sia preferibile considerare proprio Della certezza l’opera più significativa del secondo. Questa prospettiva porta a considerare le Ricerche filosofiche come uno dei molti documenti – benché certo il più sofisticato – della lunga fase di elaborazione di cui fanno parte anche le Osservazioni sui fondamenti della matematica, Grammatica filosofica, Libro blu e libro marrone, Causa ed effetto, ecc.14 In base a questa proposta interpretativa, le Ricerche filosofiche non vengono estromesse dalla considerazione, e al contrario sono il primo testo a cui vale la pena di rivolgersi quando in Della certezza sembra che qualcosa resti oscuro o venga dato per scontato: si tratta (per usare un’immagine un po’ troppo bellicosa) di trattare le Ricerche come il manico della lancia di cui Della certezza è la punta.

2.2 La gnoseologia dell’ultimo Wittgenstein: verità e certezza

Della certezza ha un duplice obiettivo polemico: da un lato il libro consiste di un insieme di riflessioni volte a mostrare l’impraticabilità di un esercizio indiscriminato del dubbio, che come tali offrono una risposta ai rappresentanti della tradizione filosofica dello scetticismo radicale; dall’altro lato Wittgenstein tiene a farci osservare che non tutte le argomentazioni antiscettiche sono accettabili per il solo fatto che lo scetticismo non lo è, e che al contrario alcune tradiscono gli stessi fraintendimenti grammaticali da cui lo scetticismo stesso ha origine.

Wittgenstein non sembra prendere sul serio fino in fondo la possibilità che uno scettico a un certo punto revochi in dubbio tutte le proprie, e altrui, credenze; e in ogni caso per qualcuno che come lui sia giunto, dopo lunghe elaborazioni, alla conclusione che una parola ha un senso se ha un uso regolare in un linguaggio (e che dunque per essere convinti, ad esempio, dell’esistenza e dell’accessibilità della verità c’è bisogno solamente di una certa padronanza nella caratterizzazione di certe proposizioni, anche piuttosto banali, come vere o come false) il gesto con cui lo scettico vorrebbe convincerci che dobbiamo fare a meno della grammatica della verità e della certezza per sostituirla con quella dell’apparenza e del dubbio non può non rivelarsi immediatamente come il tipico esempio di un colpo di testa filosofico, nel senso peggiore della parola «filosofia». Il quadro teorico delle Ricerche filosofiche, che pure ho schizzato in modo assai veloce e superficiale, basterebbe già per rassicurarci su un punto molto importante: non dobbiamo cercare una legittimazione della nostra capacità di qualificare un giudizio come vero o come falso né più in alto, né più in profondità, che nella nostra capacità di farlo in modo regolare.

Tuttavia vi sono degli argomenti con cui la tesi scettica è stata sostenuta da coloro che ne hanno formulato una qualche variante, e tali argomenti non sono privi di una certa persuasività. Per una filosofia intesa in modo virtuoso, cioè per una filosofia come esplorazione e neutralizzazione delle insidie in cui possiamo rimanere impigliati per via delle oscurità della nostra grammatica, si apre allora uno spazio di indagine non trascurabile, né per ampiezza né per rilevanza. La domanda a cui Wittgenstein si sente chiamato a rispondere verte sui motivi per cui a qualcuno può venire in mente di negare che siamo in generale giustificati a credere ciò che la percezione ci suggerisce, o addirittura di ipotizzare che stiamo sognando anziché facendo esperienza di una realtà solida e condivisa; nel rispondere a questa domanda emergeranno sia i punti in cui il discorso dello scetticismo viola la grammatica del nostro linguaggio, e dunque smette di fare presa sui nostri concetti e sulla nostra vita, sia, contestualmente, quelle regole grammaticali a cui invece normalmente obbediamo, ma che proprio per questo non siamo abituati a notare e che, una volta tematizzate esplicitamente, possono gettare una luce assai interessante sul modo in cui la nostra conoscenza funziona.

Uno scetticismo che non si pone come una semplice raccomandazione di cautela quanto alla pretesa di possedere verità intangibili e definitive, ma come una sfida a viso aperto nei confronti della possibilità stessa di conoscere alcunché – uno scetticismo radicale, insomma – procede tipicamente mettendo in dubbio qualcosa che abitualmente asseriremmo con piena sicurezza, poiché è chiaro che, se davvero abbiamo ragione di diffidare di ciò che ci pareva più evidente, a maggior ragione vacilleranno gli edifici teorici complessi e le catene argomentative articolate di cui si compongono le nostre scienze, e non solo loro. Dunque per esempio un tale scettico radicale potrebbe invitarci a non essere tanto certi del fatto che questa che possiamo metterci di fronte agli occhi in ogni momento sia una mano: infatti, egli argomenterebbe, niente ci garantisce che non si tratti di un’illusione di qualche tipo. L’ipotesi cartesiana del sogno non è che una delle possibili vesti che questa eventualità dell’illusione pervasiva può assumere.

In Della certezza, Wittgenstein riparte proprio dall’esempio di G.E. Moore, la proposizione «qui c’è una mano», per presentare in modo molto sintetico ma molto efficace la tesi scettica: «Dal fatto che a me – o a tutti – sembri così, non segue che sia così» (ÜG 2).

Posta in questi termini, l’oculata provocazione dello scettico sollecita una risposta che abbia la forma di una riaffermazione del fatto che invece sappiamo che questa è una mano, e non semplicemente ci sembra. «Se sai che qui c’è una mano allora ti concediamo tutto il resto» (ÜG 1). Argomentare in favore di una teoria per esempio astronomica sarà certo più difficile che in favore dell’esistenza, qui davanti a me, di una mano, ma in qualche modo lo scettico assume ora un atteggiamento magnanimo: una volta che avessimo davvero reso inattaccabile la possibilità di una conoscenza assai semplice (che qui c’è una mano) egli ci solleverebbe dall’onere di provare che conosciamo anche cose meno ovvie (per esempio le leggi del moto dei pianeti) e ci concederebbe la generalizzazione senza ulteriori obiezioni. Lo scettico che Wittgenstein impersona, per scopi euristici, in ÜG 1 sa molto bene che dimostrare che «qui c’è una mano» è impossibile, e, potremmo dire, alza la posta per spingere il suo interlocutore – colui che invece è convinto della possibilità della giustificazione e dell’accessibilità della verità – a cadere nella trappola.

E nella trappola cade effettivamente G.E. Moore, rappresentante della seconda categoria a cui Wittgenstein rivolge le sue obiezioni in Della certezza, cioè quella di coloro che contrastano lo scetticismo con argomenti che non solo non arrivano a intaccarlo, ma persino lo consolidano. Moore ritiene che noi sappiamo che questa è una mano, così come sappiamo di essere uomini, che la terra esisteva molti anni prima della nostra nascita, e tutte le altre cose che, come egli si esprime, ricadono nell’ambito del «senso comune». La sua «dimostrazione di un mondo esterno» consiste nella premessa secondo cui, se si prova che esistono oggetti esterni, è con ciò provata anche l’esistenza del mondo esterno di cui essi fanno parte, e nella prova vera e propria, che ha per oggetto le sue due mani: «Come [posso provare l’esistenza del mondo esterno]? Tenendo sollevate le mie due mani, e dicendo, mentre faccio un certo gesto con la mano destra, “Ecco una mano”, e aggiungendo, mentre faccio un certo gesto con la sinistra, “ed eccone un’altra”».15 Che «qui c’è una mano» è qualcosa che si sa, poiché per provarlo è sufficiente esibire la propria mano: «Come sarebbe assurdo suggerire che non lo sapevo, ma solamente lo credevo, e che forse non era così!»;16 e allora si sa anche che esiste il mondo esterno.

Ciò che Wittgenstein osserva è questo: se si è concesso allo scettico che per sapere una cosa qualsiasi bisogna sapere le cose che per Moore fanno capo al senso comune, allora si è già persa la partita, perché per dimostrare una tesi come «qui c’è una mano» si dovrebbe ricondurla a proposizioni più sicure di quanto essa stessa non sia – ma proprio queste ci vengono necessariamente a mancare, dal momento che se dobbiamo dubitare che qui ci sia una mano non vediamo proprio cosa, allora, possa essere esente da dubbi e rimanere stabile come perno su cui fare leva (cfr. p.e. ÜG 1, 24, 613). In questo senso il tentativo, per esempio, di una dimostrazione del mondo esterno non fa niente contro lo scettico, e forse fa qualcosa per lui nella misura in cui, benché implicitamente, legittima una richiesta di ragioni che però non possono essere fornite.

E in effetti le ragioni che Moore adduce nella sua argomentazione per la dimostrazione del mondo esterno sono piuttosto fragili. Una prova del fatto che qui c’è una mano consistente nell’esibire la propria mano è una prova che non prova niente, poiché, in un contesto filosofico in cui l’oggetto del nostro sospetto è precisamente l’attendibilità delle percezioni, la presentazione di una mano alla nostra vista è priva di qualunque valore: la prova, come la proposizione che dovrebbe provare, è del tutto sguarnita, completamente indifesa, di fronte alla possibile obiezione secondo cui quella che sembra una mano potrebbe in realtà far parte di un sogno (cfr. ÜG 19). Moore non riconduce il suo demonstrandum ad alcun demonstrans più solido, e anzi in un certo senso la dimostrazione si limita a ripetere la tesi, tuttalpiù alzando la voce. Come posso provare l’esistenza del mondo esterno? Provando che esiste una mano. Come posso provare l’esistenza di una mano? Dicendo: so che qui c’è una mano. E, tuttalpiù, cercando di assumere un’aria autorevole.

Come scrive Wittgenstein: «Non è vero che dalla dichiarazione dell’altro: “Io so che è così” si può concludere alla proposizione “È così”. E neanche dalla dichiarazione, e dal fatto che non è una menzogna. – Ma dalla mia dichiarazione “Io so, ecc.”, non posso concludere: “È così”? Certamente, e dalla proposizione “Lui sa che là c’è una mano”, segue anche “Là c’è una mano”. Ma dalla sua affermazione: “Io so che…” non segue che lo sa. Prima si deve dimostrare che lo sa» (ÜG 13-14). Si tratta di osservazioni di carattere grammaticale, nelle quali trova una felicissima esemplificazione la metodologia filosofica di cui si è parlato sorvolando le Ricerche. Alla grammatica del verbo «sapere» appartiene che lo applichiamo solo laddove ciò che diciamo che qualcuno sa si verifica effettivamente: diciamo per esempio «credevo di saperlo, ma non era così», e non «lo sapevo, ma non era così» (cfr. ÜG 18, 42), e in questo il verbo «sapere» è significativamente diverso, per esempio, dal verbo «credere», che ammette «lo credevo, ma non era così», ma non «credevo di crederlo, ma non era così» (cfr. ÜG 21). Perché possiamo dire di sapere qualcosa dobbiamo avere gli strumenti per rendercene sicuri – condizione necessaria affinché possiamo farlo è che abbiamo buone ragioni (cfr. ÜG 18). È proprio solo per questo che, per dire che qualcosa si verifica, che è come diciamo che è, ci basta – è condizione sufficiente – che noi davvero lo sappiamo. L’errore di Moore, che in modo esemplare deriva da un’incomprensione della grammatica imputabile alla sua natura labirintica, consiste nel volerci convincere che qualcosa è come lui dice – che vi è un mondo esterno, o più modestamente che qui vi è una mano – non adducendo giustificazioni (e come potrebbero giustificazioni essere addotte? su cosa dovrebbero poggiare, che cosa potrebbero dare per acquisito, se questo non è sicuro?) ma asserendo che lo sappiamo, quando però per asserirlo ci vorrebbero giustificazioni. Che noi sappiamo qualcosa è possibile a valle di una giustificazione, e dire che lo sappiamo non è affatto, di per sé, una giustificazione. Il gioco linguistico del conoscere comporta che, se affermiamo di sapere qualcosa, chiunque può chiedercene ragioni e noi dobbiamo potergliele dare, e non semplicemente, come dicevo, alzare la voce, ripetere enfaticamente «ma lo so», oppure sforzarci di conferire a noi stessi un’aria persuasiva.

Così, scrive Wittgenstein, «il falso [falsche, errato] uso che Moore fa della proposizione “Io so”, consiste in questo: che la considera come una manifestazione che non si può mettere in dubbio più di quanto non si possa mettere in dubbio, per esempio: “Io provo dolori”. E siccome da “Io so che è così” segue “È così”, così anche di quest’ultima proposizione non si può dubitare» (ÜG 178). Insomma, «propriamente, il punto di vista di Moore mette capo a questo: il concetto di “sapere” è analogo ai concetti “credere”, “congetturare”, “dubitare”, “essere convinti”, in questo: che l’enunciato “Io so…” non può essere un errore. E se è così, allora, da una dichiarazione si può concludere alla verità di un’asserzione. E qui si trascura la forma “Io credevo di sapere”. – Ma se non si deve ammettere questa forma, allora anche nell’asserzione dovrà essere logicamente impossibile un errore. E di questo non può non accorgersi chi conosce il giuoco linguistico; qui l’assicurazione di uno degno di federe, che lui lo sa, non può aiutarlo» (ÜG 21).

Moore, si può dire, cerca di assimilare le condizioni che devono essere soddisfatte da una conoscenza oggettiva a quelle che deve soddisfare un atto espressivo soggettivo (cfr. ÜG 16, 179). In altri termini, egli vorrebbe convincerci che per dire «Io so» non serve più di quanto basta per dire «Io credo»: io stesso, in proposito, sono l’autorità ultima, e se qualcuno domandasse assicurazioni aggiuntive sarebbe tanto inopportuno quanto chi non mi credesse se dico che sento dolore, ed esigesse una prova.17

Si vede quindi come la strategia messa in atto da Moore per confutare la tesi scettica secondo cui non sappiamo che qui ci sia una mano manca il suo obiettivo. Tuttavia Wittgenstein non ritiene affatto che, per questo, lo scettico sia nel giusto quando sostiene che dovremmo dubitare che qui ci sia una mano.

Wittgenstein ritiene che la risposta di Moore sia erronea perché risponde in modo non critico a una domanda formulata viziosamente, cosicché sia la tesi scettica sia la tesi antiscettica di Moore sono fuorvianti, ed entrambe per lo stesso motivo: perché, cioè, pongono il problema del senso comune, o comunque di quelle proposizioni che normalmente ci sembrano ovvie e che di rado sentiamo il bisogno di formulare, in termini di sapere, a prescindere da che si tratti poi di affermare o di negare che le conosciamo.

Wittgenstein riflette: «“Io so di essere un uomo”. Per vedere quanto poco chiaro sia il senso di questa proposizione, considera la sua negazione» (ÜG 4). Affermeremmo davvero una di queste proposizioni del senso comune più di quanto la negheremmo? Se, come Moore fa, le enumeriamo allo scopo di mettere al sicuro un tesoretto di proposizioni salde che indubitabilmente sappiamo, non ci sembra che il verbo «sapere» sia «usato malamente» (cfr. ÜG 6)? Chi se ne uscisse all’improvviso con la sentenza «qui c’è una mano», oppure «so che qui c’è una mano», ci sembrerebbe perlomeno un tipo bizzarro, e forse addirittura un folle.18 Allo stesso tempo, possiamo immaginare circostanze (sebbene piuttosto eccezionali) in cui invece avrebbe perfettamente senso affermare che qui c’è una mano: ad esempio se fossimo in un letto di ospedale, bendati in più punti, e ci rivolgessimo a un amico dopo aver subito un grave incidente che ha rischiato di comportare amputazioni; o affermare che sappiamo che qui c’è una mano: se, per ipotesi, pur non vedendola noi stessi al di là delle garze e pur sapendo che gli arti che si sono perduti possono essere «sentiti» quasi come arti che ancora si possiedono, il medico ci avesse rassicurati in proposito (cfr. ÜG 348, 460-461).

Cosa ne dobbiamo concludere? Che, Wittgenstein suggerisce, l’impiego del verbo sapere nel gioco linguistico abituale, dal quale dipende tutto il suo senso, è vincolato alla possibilità da parte nostra di argomentare in favore di ciò che diciamo di sapere, di fornirne ragioni. «L’impiego corretto [richtige] delle parole “Io so”. Un tizio con la vista corta mi chiede: “Credi che quella cosa che vediamo là sia un albero?” – Io gli rispondo: “Io lo so: lo vedo bene, e lo conosco bene». A: “È in casa N.N.?” – Io: “Credo di sì” – A: “Era in casa ieri?” – Io: “Ieri era in casa; questo lo so, perché ho parlato con lui». – A: “Sai che questa parte della casa è stata aggiunta da poco o lo credi soltanto?” – Io: “Lo so, mi sono informato da…” Qui dunque si dice “Io so”, e si dànno, o almeno si possono dare, le ragioni del sapere» (ÜG 483-484). È dove la nostra tesi non è del tutto ovvia, dove dunque richiede una giustificazione, e dove dunque anche, correlativamente, un dubbio è possibile purché sia a sua volta giustificato, che possiamo parlare di «sapere», e correlativamente di «credere» e di «dubitare».19 Le proposizioni del senso comune non hanno queste caratteristiche.

Wittgenstein è d’accordo con Moore che sia del tutto legittimo tenerle ferme e del tutto illegittimo metterle in dubbio nel modo in cui lo scettico propone di farlo, ma rifiuta di associare a tali proposizioni un predicato di conoscenza. Come abbiamo visto, se lo si facesse ci si metterebbe nella posizione di dover dare ragioni delle proprie certezze più elementari, ma non si saprebbe trovarle in alcunché di più certo o più elementare, e allora lo scettico avrebbe buon gioco a dire che non siamo giustificati a tenerle per valide. E su questo, a rigore, egli sarebbe nel giusto. Ma il punto è esattamente, per Wittgenstein, che non abbiamo bisogno di giustificare le proposizioni del senso comune. È il loro ruolo nel gioco linguistico del conoscere che Wittgenstein propone di riconsiderare – al di là della sua diffidenza per una certa terminologia, potremmo dire: il loro statuto gnoseologico. Le proposizioni del senso comune non sono verità prime da cui deriviamo verità seconde, perché se lo fossero avrebbero bisogno di essere fondate, e però, come abbiamo visto, non possono esserlo in alcun caso, se non nel modo del tutto inadeguato che Moore ci ha indicato; e questo non è un dato accidentale, poiché appartiene alla logica stessa del nostro operare con le parole, alle regole del gioco che qui stiamo discutendo, oltreché giocando, che ogni proposizione possa essere derivata da altre, ma che, se cerchiamo di derivare da qualche proposizione le proposizioni che consideriamo più ovvie, non ne troveremo di più ovvie ancora. L’idea di una verità prima è addirittura autocontraddittoria, poiché «se il vero è ciò che è fondato, allora il fondamento non è né vero né falso» (ÜG 205).

«Se volessi mettere in dubbio che questa è la mia mano, come potrei fare a meno di dubitare che la parola “mano” abbia un qualsiasi significato? Sembra dunque che questo io lo sappia di sicuro. Ma per meglio dire: il fatto che io usi senza alcun scrupolo la parola “mano” e tutte le restanti parole della mia proposizione; sì, il fatto che non appena volessi anche solo provarmi a dubitare mi troverei di fronte a nulla, – mostra che l’assenza del dubbio fa parte del giuoco linguistico, che la domanda “Come faccio a sapere che…” tira per le lunghe il gioco linguistico, o addirittura lo toglie via» (ÜG 369-370). Mettere in dubbio le proposizioni del senso comune, per esempio «qui c’è una mano», non arriva a far presa sull’esperienza – del resto, quale esperienza potrebbe cancellare un dubbio simile (cfr. ÜG 125)? Che forma avrebbe un errore in proposito (cfr. ÜG 17)? Se scoprissimo di esserci sempre sbagliati sul fatto di avere due mani, ciò trascinerebbe a picco con sé tutte le nostre convinzioni. Ma ciò vuol dire anche che prima di pensare che ci siamo sbagliati sulla verità di «qui c’è una mano» penseremmo di non aver compreso ciò che «qui c’è una mano» significa (cfr. ÜG 80). Un dubbio del genere non intacca il piano empirico (non trova posto nel gioco linguistico) bensì compromette il piano logico («toglie via» il gioco linguistico).

In breve: se dobbiamo mettere in questione che qui ci sia una mano, ciò finisce per portarci a mettere in questione che la parola «mano» abbia un senso (cfr. anche ÜG 456). Ma questo è precisamente ciò che non possiamo giustificare per nulla, e che non abbiamo bisogno di giustificare perché il senso della parola «mano» si vede nel suo impiego. Che non dubitiamo del fatto che le nostre parole siano sensate e che abbiano il senso che assumono nell’uso fa parte del gioco linguistico, è il modo in cui giudichiamo (cfr. ÜG 232, ma cfr. anche PU 381). Il posto che il dubbio può occupare nel gioco linguistico, come quello che può occupare la giustificazione, è determinato dalla grammatica delle parole «dubbio» e «giustificazione», e cioè dalla regola in base alla quale usiamo parole di cui non mettiamo in dubbio il senso per mettere in dubbio la verità di certe tesi, e per giustificare quella di altre. Voler dubitare o giustificare la possibilità che le parole abbiano senso e che abbiano un certo senso equivale a voler dubitare o giustificare la possibilità del linguaggio, il che però non può essere fatto né al suo interno né al suo esterno.

Così, a quelle che per Moore erano le proposizioni del senso comune, a cui costui attribuiva un predicato di conoscenza, Wittgenstein associa invece un predicato di certezza. Vi sono ovviamente dubbi sensati, che sono tali perché è possibile fornirne ragioni (cfr. ÜG 122): ma la loro sensatezza, cioè appunto la possibilità di addurre ragioni del proprio dubitare, riposa sul fatto che il senso delle parole di cui c’è bisogno per esprimerli ed esprimerle non viene affatto messo in questione, come tutto l’insieme di strutture grammaticali con cui sono intrecciate. «Le questioni, che poniamo, e il nostro dubbio, riposano su questo: che certe proposizioni sono esenti da dubbio, come se fossero i perni sui quali si muovono quelle altre» (ÜG 341). «Chi volesse dubitare di tutto, non arriverebbe neanche a dubitare. Lo stesso giuoco del dubitare presuppone già la certezza» (ÜG 115, ma cfr. anche UW p. 14). E quello che vale, per così dire in negativo, per il dubbio vale anche in positivo per la credenza: possiamo ricondurre una proposizione che riteniamo vera ad alcuni fondamenti che ci pare la giustifichino, ed eventualmente, se ci viene chiesto conto di tali fondamenti, possiamo addurre giustificazioni ulteriori e fondamenti ulteriori, ma necessariamente arriveremo a un punto in cui non sapremo come andare più avanti, cioè più indietro, e ci troveremo a dire qualcosa come: «questo è ciò che conta come un supporto sufficiente alla mia tesi» (cfr. ÜG 82, 110, 164, ma anche PU 87, 483), oppure «questa parola, queste forme linguistiche, si usano semplicemente così» (cfr. ÜG 47, 310, ma anche PU 1, 217). Insomma: «Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di un’assunzione, hanno luogo già all’interno di un sistema. E precisamente, questo sistema non è un punto di partenza più o meno arbitrario, e più o meno dubbio, di tutte le nostre argomentazioni, ma appartiene all’essenza di quello che noi chiamiamo argomentazione» (ÜG 105).

L’insieme strutturato delle proposizioni che non siamo disposti a mettere in dubbio, e che fungono da metro per la valutazione della verità e della falsità di altre proposizioni che invece ammettono argomenti in favore e contro, è la grammatica del nostro linguaggio, il sistema delle regole del gioco che giochiamo con le parole. Che qualcosa sia vero o falso si determina, argomentandolo, all’interno dei confini di un terreno sul quale i nostri piedi possono poggiare saldamente, cioè per mezzo della certezza (non giustificata, ma neanche bisognosa di giustificazione) data dalle regole grammaticali in ossequio alle quali una proposizione dev’essere costruita per avere senso. Il sistema stesso, le regole stesse, non sono né vere né false, e perciò la loro infondatezza non fa problema (cfr. ÜG 559). Tentare di confutare le regole significa voler segare il ramo su cui si è seduti e tentare di giustificarle significa pensare di potersi sollevare tirandosi per i capelli. Quelle che Moore chiamava «proposizioni del senso comune» ci vengono ora presentate da Wittgenstein come «proposizioni logiche», e la grammatica complessa e dinamica dei nostri usi verbali concreti come la logica del linguaggio. Di essa resta valido ciò che di essenziale diceva già il Tractatus: «In un certo senso, nella logica non possiamo sbagliarci» (TLP 5.473c). Non perché essa si componga di giudizi veri la cui verità può fondare quella di altri giudizi senza bisogno di essere fondata a sua volta, ma perché consiste di regole che non sono né vere né false, ma che dobbiamo rispettare affinché ogni altro giudizio sia dotato di senso e possa determinarsi come vero o come falso.

Se dunque la proposizione «qui c’è una mano» normalmente non viene enunciata è perché il senso, cioè l’uso, della parola «mano» ci è sempre già perfettamente chiaro. Se qualcuno la pronuncia, possiamo pensare che non sia pazzo solo nei contesti in cui non è del tutto ovvio che qui ci sia una mano, perché allora essa torna ad essere, anziché un’istruzione di cui nessuno ha bisogno e che nessuno si aspetta sull’impiego dei termini, una tesi non triviale a proposito di qualcosa che accade benché possa anche non accadere; oppure nei contesti in cui un’istruzione del genere non è fuori luogo perché colui a cui la impartiamo non ha ancora appreso il gioco nel quale la parola in questione acquisisce un valore, e allora noi vestiamo i panni di un genitore o di un maestro che insegna il senso, cioè l’uso, di una parola a un bambino, oppure a qualcuno che sta imparando una lingua straniera, ecc. Nei contesti ordinari, ossia negli usi regolari che determinano il senso dei nostri atti linguistici, e che solo in quanto sono regolari ammettono eccezioni, le proposizioni logiche (grammaticali) non sono per noi oggetto di conoscenza, ma costituiscono indicazioni di comportamento: non si tratta di descrizioni, ma di prescrizioni. «L’istruzione “A è un oggetto fisico” la diamo soltanto a chi non capisce ancora che cosa significhi “A”, o che cosa significhi “oggetto fisico”. È dunque un’istruzione che riguarda l’uso di certe parole, e “oggetto fisico” è un concetto logico. (Come colore, misura…). E per questa ragione non si può costruire una proposizione: “Esistono oggetti fisici”» (ÜG 36).

Lo scontro tra Moore e lo scettico era reso possibile dalla comune presupposizione che per sapere qualcosa in generale è necessario conoscere quell’insieme relativamente circoscritto di cose che costituiscono il nostro senso comune o, come Wittgenstein anche si esprime, la nostra «immagine del mondo» (ÜG 93-94). Wittgenstein osserva che però un simile uso dei termini «sapere» e «conoscere», che si discosta dal normale commercio linguistico (cfr. ÜG 260), ha come unica conseguenza, se viene seguito fino in fondo, di costringerci a dire che il senso comune ci mette a disposizione un novero di proposizioni che magicamente possono essere vere anche senza essere giustificate. Al contrario, egli sostiene, l’impalcatura del nostro linguaggio, la nostra immagine del mondo, è costituita da un insieme di proposizioni che normalmente non sentiamo il bisogno di rendere esplicite e che, se le enunciamo, assumono il valore non di una descrizione di stati di cose necessari, bensì di norme comportamentali che riguardano l’uso delle parole. «Le proposizioni che rappresentano quello che Moore “sa” sono tutte di specie tale che è difficile potersi immaginare perché qualcuno dovrebbe credere il contrario. Per esempio, la proposizione che Moore ha passato tutta quanta la vita a una distanza minima dalla Terra. – Qui, invece che di Moore, posso parlare di nuovo di me stesso. Che cosa potrebbe indurmi a credere il contrario? […] Nulla, nella mia immagine del mondo, parla in favore del contrario. Ma la mia immagine del mondo non ce l’ho perché ho convinto me stesso della sua correttezza, e neanche perché sono convinto della sua correttezza. È lo sfondo che mi è stato tramandato, sul quale distinguo tra vero e falso» (ÜG 93-94). Le cose che non sono disposto a far vacillare sono lo sfondo sul quale devono stagliarsi quelle che invece posso valutare come accettabili o inaccettabili sulla base di un lavoro di confronto tra gli argomenti a favore e contro. Che qui ci sia una mano non è un’ipotesi empirica della cui validità mi abbiano persuaso a forza di ragionamenti, ma la certezza logica che, operando insieme ad altre, mi permette di usare appropriatamente il termine «mano» quando dico ad esempio che nel 1950 è stata rinvenuta dagli archeologi la mano destra della Nike di Samotracia.

Ormai è chiaro perché parliamo in proposito di proposizioni «logiche»: si tratta delle regole del gioco che abitualmente giochiamo con le parole, e di solito il fatto che esse vengano seguite non richiede affatto che vengano espresse (cfr. ÜG 95). La sensatezza delle nostre proposizioni empiriche dipende dalla loro conformità alla grammatica, la quale di solito ci limitiamo a lasciare implicita in ciò che rendiamo esplicito, ma che possiamo sempre anche enunciare sotto forma di proposizioni, purché poi non fraintendiamo il loro valore trascurando la peculiarità della loro funzione: esse non descrivono alcunché, ma istituiscono o ribadiscono una regola.

Wittgenstein scrive: «La verità di certe proposizioni empiriche appartiene al nostro sistema di riferimento» (ÜG 83). Nonostante l’enfasi sulla verità che qui sembra essere cruciale, il contesto in cui questa tesi trova posto in seno a Della certezza rende evidente che Wittgenstein allude precisamente a ciò con cui facciamo confronti, a ciò che teniamo fermo per mettere in dubbio oppure giustificare la verità di qualcos’altro, e che dunque siamo di fronte al passaggio della proposizione dal suo valore propriamente empirico (che è quello di una constatazione interessante precisamente nella misura in cui potrebbe anche essere falsa) a un valore logico (quello cioè di un parametro di controllo per altri enunciati, cfr. ÜG 82). «Ci si potrebbe immaginare che certe proposizioni che hanno forma di proposizioni empiriche vengano irrigidite e funzionino come una rotaia per proposizioni empiriche non rigide, fluide; e che questo rapporto cambi col tempo, in quanto le proposizioni fluide si solidificano e le proposizioni rigide diventano fluide. […] L’alveo del fiume può spostarsi. Ma io faccio una distinzione tra il movimento dell’acqua nell’alveo del fiume, e lo spostamento di quest’ultimo; anche se, tra le due cose, una distinzione netta non c’è. Se però qualcuno dicesse: “Dunque, anche la logica è una scienza empirica”, avrebbe torto. Ma questo è giusto: che la medesima proposizione può essere trattata, una volta, come una proposizione da controllare con l’esperienza, un’altra volta come una regola di controllo» (ÜG 96-98).

Questo è forse il passaggio più importante del ragionamento di Wittgenstein: vi sono proposizioni empiriche, che come tali sono contingenti, e proposizioni logiche, che come tali sono necessarie. La contingenza che appartiene alle prime fa tutt’uno con la loro dotazione di contenuto descrittivo, la necessità delle seconde si riduce alla loro natura di vincoli prescrittivi. E, ciò è altrettanto importante: la necessità che appartiene alle proposizioni logiche così intese è la necessità che appartiene alle regole nel contesto del gioco. Niente ci obbliga a giocare a scacchi, ma se lo facciamo allora potremo muovere l’alfiere solo così: la pena per la trasgressione sarà solo l’interruzione immediata di ciò che chiamiamo «gioco degli scacchi». Si tratta quindi di necessità condizionali, non assolute, e in realtà è chiaro che, complicato e tumultuoso com’è l’insieme di giochi linguistici di cui è intessuta la nostra vita, è difficile sapere in anticipo quale sarà la reazione a quella che possiamo percepire come la violazione di una regola: nel caso molto elementare degli scacchi, può darsi che il nostro avversario rifiuti di continuare a giocare se noi tentiamo di modificare la norma che fissa il comportamento dell’alfiere (per esempio pretendendo che non possa spostarsi di più di quattro caselle per mossa); ma è anche possibile che egli, per un motivo qualsiasi, accetti di conformarsi alla nostra variazione, e che il gioco prosegua a queste nuove condizioni; si tratterà allora di un gioco diverso da quello di prima, ma altrettanto legittimo;20 solamente non potrà più chiamarsi «scacchi», a meno che noi introduciamo una modifica nella regola che fissa l’impiego della parola «scacchi».

Ma c’è di più. Una delle tematiche portanti delle Ricerche filosofiche era quella avente a che fare con le condizioni alle quali è possibile seguire una regola, cioè dire di qualcuno che, nell’agire in un certo modo, segue una regola. Le fini elaborazioni wittgensteiniane a questo proposito ci hanno convinti che le applicazioni di una regola non sono tutte fin dall’inizio già contenute in una sua formulazione data (per esempio i termini di una serie nella sua espressione algebrica) o nella collezione finita di sue applicazioni che ci paiono sufficienti per dire di averla compresa (per esempio gli usi possibili di una parola nei suoi usi che abbiamo fatto finora).21 Né i segni in cui una regola trova espressione sintetica, né l’intuizione che ci sembra di avere nel momento in cui ci convinciamo di aver colto la regolarità a cui i gesti di qualcuno obbediscono, hanno in sé un criterio sufficiente per decidere di ogni nuova applicazione. Se tuttavia per seguire una regola dovessimo poter enunciare una seconda regola contenente la spiegazione esaustiva di come applicare la prima, dovremmo poi fornirne una terza che faccia lo stesso con la seconda, e un rapido regresso ci priverebbe della possibilità di seguire una regola tout court. Le ragioni per cui nel seguire una regola agiamo in un certo modo anziché altrimenti possono venire meno, ma ciò non compromette la possibilità di seguire la regola. Essa infatti non sta sopra o dietro le proprie applicazioni, ma si costituisce in esse man mano che proseguono; perciò a ogni nuovo passo che noi effettuiamo nel seguirla dobbiamo compiere una nuova decisione, e perciò essa è sottodeterminata rispetto a tutte le sue applicazioni già date; ma perciò, anche, il fatto che a volte non sappiamo quale sia la mossa giusta da fare per seguire una data regola non compromette il gioco linguistico, perché possiamo davvero decidere di andare avanti così, aggiornando la regola in risposta alla pressione di un regolato recalcitrante tanto quanto in altri casi la sottomissione del regolato alla regola risulta ovvia e pacifica.

Della certezza non torna su questo tema se non in modo apparentemente incidentale (cfr. p.e. ÜG 38-47), ma ciò avviene perché le considerazioni che ho appena riassunto con brutale approssimazione possono ritenersi ormai acquisite, e non perché siano state in alcun modo superate o abbandonate. La teorizzazione wittgensteiniana del «seguire una regola» nelle Ricerche filosofiche mi serve ora per far notare che tutte le regole grammaticali che, sclerotizzate nel nucleo meno flessibile del nostro linguaggio, fungono da punto d’appoggio per la costruzione e da punto di riferimento per il mutamento della sua più fluida periferia, tutte tali regole ammettono in quanto tali che un’applicazione, anziché assoggettarsi loro docilmente, le solleciti, le sfidi, e che dunque appartiene all’essenza stessa della regola la possibilità di cambiare per accomodare applicazioni impreviste. Che essa sia una regola anziché un’applicazione, e che cioè la sua espressione abbia la forma e il ruolo di una proposizione logica anziché di una proposizione empirica, vuol dire semplicemente che di norma essa fungerà da metro di valutazione anziché da proposizione che va sottoposta a controllo.

Le proposizioni logiche insomma non hanno uno statuto intrinsecamente distinto da quello delle proposizioni empiriche, e in nessun modo il loro insieme può essere fissato, chiuso e collocato in una sfera di immutabilità e autosufficienza come se da ciò dipendesse la saldezza del linguaggio o persino la sua possibilità. La differenza tra una proposizione logica e una empirica, per quanto importante, è esclusivamente funzionale, e questo è reso chiarissimo dal fatto che la stessa proposizione, a seconda delle circostanze e dei contesti – a seconda, insomma, del gioco linguistico in cui di volta in volta trova il suo senso – può fungere come l’una o come l’altra, cosicché non si può separare una volta per tutte, con un taglio deciso, il logico dall’empirico, e si deve al contrario valutare caso per caso: l’esempio della mano dell’uomo in ospedale è, a questo proposito, del tutto soddisfacente, e non c’è bisogno di riprenderlo. A ciò si aggiunge che la possibilità in cui ogni proposizione logica si trova di essere modificata (o venendo negata e sostituita «a tavolino» con una diversa proposizione logica, o tramutandosi in una proposizione empirica, confutata da altre proposizioni empiriche, le quali poi tornano a cristallizzarsi in proposizioni logiche)22 dà al linguaggio un dinamismo che di primo acchito, specialmente rispetto al punto di vista a cui ci aveva abituati il Tractatus, può sorprendere, ma che poi può essere invece riconosciuto come il dinamismo molto familiare delle immagini del mondo e delle forme di vita.

Nessuna proposizione di un linguaggio, secondo la prospettiva wittgensteiniana, è assolutamente salda e definitiva. Le proposizioni che riteniamo vere in quanto sono giustificate sono sempre esposte al rischio di rivelarsi false, perché la loro verità non è che la prevalenza delle ragioni «pro» rispetto alle ragioni «contro» sui piatti di una bilancia il cui equilibrio può sempre cambiare. La giustificazione di queste proposizioni dipende da un insieme di altre proposizioni che riteniamo vere e da un insieme di norme che applichiamo nell’argomentazione; la struttura di un linguaggio complesso non è una piramide rovesciata alla base della quale vi sia una verità non giustificata che giustifica, immediatamente o mediatamente, tutte le altre, secondo un modello che probabilmente trova nella strategia fondazionalista di Cartesio una buona esemplificazione; un linguaggio complesso ha al contrario la forma di un sistema olistico di rimandi, di cui si potrebbe dire che poggia su se stesso se ciò non valesse quanto dire che non poggia su niente. «La prassi del giudizio empirico non l’impariamo imparando regole; ci vengono insegnati giudizi, e la loro connessione con altri giudizi. Ci viene resa plausibile una totalità di giudizi. Quando cominciamo a credere qualcosa, crediamo, non già a una proposizione singola, ma a un intiero sistema di proposizioni. (Sulla totalità la luce si leva poco a poco). Non singoli assiomi mi paiono evidenti, ma un sistema, in cui le conseguenze e le premesse si sostengono reciprocamente» (ÜG 140-142). La solidità di un simile sistema dipende dal fatto che se una proposizione che consideriamo vera in virtù di una giustificazione, e che per ciò stesso è esposta al dubbio e all’errore, viene in effetti contestata, ed eventualmente riconosciuta come falsa, ciò accade e deve accadere tenendo ferme molte altre proposizioni giustificate e tutte le proposizioni che usiamo come criterio per costruire e valutare quelle giustificate. Le proposizioni logiche, poi, possono a loro volta cambiare, ed è caratteristico che a cambiamenti del genere corrisponda il cambiamento di un gran numero di proposizioni empiriche, e che ciò si accompagni a una trasformazione importante della nostra immagine del mondo. A una regola, cioè a un modo di agire regolare, può sempre sostituirsene un’altra, cioè un altro, e se ciò non espone il linguaggio al pericolo di trasformarsi da un momento all’altro nel più anarchico dei campi di battaglia è perché ogni nuova regola comporta (perché coincide con esse) nuove applicazioni, e quindi ogni mutamento ha conseguenze, e verrà realizzato solo se saremo disposti ad accettarle: in risposta al mutamento di una proposizione grammaticale, il sistema delle nostre verità muta tanto di più quanto più profondamente essa vi era radicata (cfr. ÜG 92, UW p. 14).

A questo punto del nostro percorso, si può allora fermarsi e provare a sintetizzare la concezione della conoscenza e della verità che Wittgenstein ha delineato. Le proposizioni che abitualmente caratterizzeremmo come vere, e che consideriamo oggetto di conoscenza da parte nostra, lo sono davvero, e legittimamente. Se, del resto, non usiamo la parola «conoscenza» come essa si usa, non vediamo davvero come dovremmo usarla. Ciò che Wittgenstein intende portare alla luce è il criterio, o l’insieme di criteri intrecciati gli uni con gli altri, a cui obbediamo nel dire che conosciamo o non conosciamo qualcosa: anche questo appartiene alla grammatica del verbo «conoscere», ma mappare questa grammatica già richiede uno sforzo analitico notevole. Compiuto tale sforzo, comunque, pare che l’uso da parte nostra del verbo «sapere» sia tendenzialmente collegato alla disponibilità a fornire ragioni a sostegno di ciò che diciamo di sapere. La grammatica del conoscere è imparentata con la grammatica del giustificare. Che, per esempio, esista un pianeta, che noi chiamiamo «Saturno», che si muove in un modo che certe equazioni matematiche descrivono con un certo grado di precisione è qualcosa che sappiamo, poiché trova posto in una rete di rimandi sistematici ad altre cose che sappiamo – perché, insomma, possiamo argomentare in favore di quella tesi. Ma se ci vengono chieste ragioni della nostra teoria del moto dei pianeti, e poi ragioni delle ragioni, e ragioni delle ragioni delle ragioni, si arriva a un punto dove non ci sembra più che le domande che ci vengono rivolte possano trovare una risposta nella descrizione di un accadimento, e che al contrario possano essere arrestate solamente con la chiarificazione di un termine. Tale termine semplicemente si usa in quel modo, ha quel senso, e la legittimità di quel senso e di quell’uso non sta in nient’altro se non nel fatto di rendere possibile tutto il resto, su su fino alla dinamica planetaria. Le proposizioni logiche sono il fondamento infondato delle nostre verità, e possono esserlo perché non sono vere a loro volta più di quanto possano rivelarsi false: fungono come semplici certezze. Esse sono proposizioni che abbiamo rinunciato a porre in questione, che abbiamo lasciato fossilizzare; costituiscono quindi il quadro in cui si inseriscono i nostri comportamenti linguistici, un insieme di punti di riferimento per la nostra immagine del mondo, e, in questo senso, formano una «mitologia» (cfr. ÜG 95, 97). La certezza che le caratterizza non appartiene loro intrinsecamente, come un tratto di quel che di eccelso e purissimo che è il logico: al contrario, la logica si determina proprio come quell’insieme di proposizioni le quali, essendosi irrigidite, fungono da pietre di paragone anziché da esemplari che vanno controllati. Esse sono come «l’asse di rotazione di un corpo rotante. Quest’asse non è stabile nel senso che sia mantenuto stabile, ma nel senso che è il movimento intorno ad esso a determinarne l’immobilità» (ÜG 152, ma cfr. anche 144, 248 e PU 242). Dunque esse, benché non possano in senso stretto essere confutate, possono cambiare; solamente, data la natura olistica del nostro sistema di credenze, ogni loro variazione richiede che un gran numero di altre cose venga modificato di conseguenza.


2.3 Il linguaggio come condizione trascendentale di possibilità della conoscenza nell’ultimo Wittgenstein

2.3.1 I limiti della fondazione e le condizioni della verità

L’analisi che Della certezza ci offre del modo in cui funziona la conoscenza consiste, se si vuole ridurla all’essenziale, nella proposta di distinguere tra il ruolo che nei nostri giochi linguistici è svolto dalle proposizioni empiriche e quello proprio delle proposizioni logiche, ossia tra ciò che funge da descrizione e ciò che funge da prescrizione. Una simile distinzione consente di rispondere alla domanda sui fondamenti del sistema delle nostre conoscenze dicendo che ciò che è vero lo è perché è giustificato, e che ciò che è presupposto dalle verità e dai processi argomentativi in cui esse si costituiscono è un insieme di regole di cui si potrebbe dire che sono semplicemente certe, e cioè che vanno considerate tanto salde quanto serve perché, in quanto regole, non sono né vere né false, e non abbisognano di giustificazioni: nella logica non possiamo sbagliarci, perché l’insieme di regolarità grammaticali in cui la logica consiste è condizione di possibilità di ciò che chiamiamo «errore» come di ciò che chiamiamo «verità».23 Dunque il sistema stesso in effetti non è fondato, ma è strutturato al suo interno in un modo che permette di costruire proposizioni dotate di senso e di decidere in favore o contro di esse in base ad argomentazioni.

Non è detto che questo sia il modo più preciso di delimitare i concetti da un punto di vista storico, o comunque dal punto di vista dell’uso che si fa abitualmente di certe etichette nella letteratura filosofica, ma: se si può caratterizzare la prospettiva fondazionalista come quella che ambisce a trovare verità non bisognose di giustificazione dalle quali tutte le altre verità possano trarre la loro saldezza, allora quella di Wittgenstein non è una prospettiva fondazionalista: l’idea di una verità infondata è semplicemente contraddittoria, ma ugualmente contraddittoria è l’idea di un fondamento vero. Il fondamento non è una proposizione vera, ma una regola certa – non qualcosa di cui, come Moore crede, si possa legittimamente chiedere «come lo sai?» ricevendo come legittima risposta «ma lo so!», bensì qualcosa di cui chiedere «come lo sai?» è semplicemente assurdo, perché non sappiamo affatto che qui c’è una mano, che siamo esseri umani, e così via. A chi chiede ragioni di proposizioni come «qui c’è una mano», o «io sono un essere umano», si risponde negandogliele esplicitamente, evidenziando l’insensatezza della sua domanda come si farebbe con un bambino che, dopo aver chiesto perché il cielo è azzurro e dopo aver ricevuto una risposta che verte sulle lunghezze d’onda della luce visibile, domandasse: «E perché questo si chiama azzurro?» – «Si chiama azzurro e basta».

Ogni proposizione che riteniamo vera può essere messa in dubbio: per funzionare nel gioco linguistico il dubbio ha bisogno di ragioni, e, poiché se riteniamo vera una proposizione è in virtù delle ragioni che almeno in potenza parlano in suo favore, la verità e l’errore, la credenza e il dubbio operano su un piano di complementarità dove la possibilità dell’una coimplica la possibilità dell’altro. Per questo stesso motivo, tuttavia, è impossibile mettere in dubbio in un colpo solo tutte le proposizioni che normalmente teniamo per vere: un dubbio del genere non potrebbe più giustificare se stesso, essendosi privato dell’autorizzazione a poggiare su una credenza qualsiasi le ragioni in proprio favore.24 Appartiene alla grammatica del verbo «dubitare» che, quando si dubita di qualcosa, qualcos’altro che opera come perno del dubbio continui a essere considerato vero; perciò un dubbio che pretendesse di investire tutte le proposizioni che nel nostro sistema occupano il posto delle verità funzionerebbe come un dubbio che pretendesse di investire una proposizione grammaticale, cioè non funzionerebbe, e sarebbe alla stregua dell’altro una violazione delle regole del gioco.

«Tutti i controlli, tutte le conferme e le confutazioni di un’assunzione, hanno luogo già all’interno di un sistema. E precisamente, questo sistema non è un punto di partenza più o meno arbitrario, e più o meno dubbio, di tutte le nostre argomentazioni, ma appartiene all’essenza di quello che noi chiamiamo argomentazione» (ÜG 105). Il linguaggio, come insieme di giochi linguistici e cioè come gioco linguistico complesso (cfr. PU 7), è l’atmosfera nella quale le proposizioni respirano, è ciò da cui dipende, tramite una rete di rimandi sistematici e la collocazione delle proposizioni in determinate posizioni reciproche, la loro sensatezza e quindi la possibilità della loro verità o falsità. Nel linguaggio è possibile l’argomentazione, che, quindi, deve presupporre tutte le regole della grammatica. L’operazione filosofica con cui si indaga, per esempio, la natura dei fondamenti dei nostri giudizi avviene senza che si smetta mai di seguire le regole che cerchiamo di portare a chiarezza.

Lo sforzo di Wittgenstein è orientato in gran parte a persuaderci precisamente di questo: non dobbiamo pensare che sia nostro compito come filosofi seri quello di uscire dal linguaggio per fondarlo su qualcos’altro, perché semplicemente non potremmo farlo senza privarci per ciò stesso degli strumenti di cui abbiamo bisogno per dire qualcosa di sensato, e cioè non possiamo farlo affatto. In modo del tutto analogo, ogni tentativo di delegittimare in toto un sistema di usi linguistici è reso impraticabile dal fatto che porsi al suo esterno equivale a non poter dire niente che in quel sistema sia sensato, e dunque a non poterlo in alcun modo intaccare.

«Non devi dimenticare», scrive Wittgenstein, «che il gioco linguistico è, per così dire, qualcosa di imprevedibile. Voglio dire: non è fondato, non è ragionevole (o irragionevole). Sta lì – come la nostra vita» (ÜG 559). Che il linguaggio sia possibile, e che al suo interno trovino posto il vero e il falso, è qualcosa che non può essere né provato né messo in questione: solo da ciò infatti dipende la sensatezza, cioè la stessa possibilità, di una conferma o di una confutazione qualsiasi. La domanda a cui Wittgenstein vuole rispondere con Della certezza potrebbe essere formulata così: quale modo di funzionamento del linguaggio mette capo alla caratterizzazione di un giudizio come vero o come falso? In breve: come è possibile la conoscenza?25 Rifarsi a Kant a questo punto è molto facile, e, benché io debba rimandare ancora per un po’ le importanti precisazioni che restano da fare sulla nozione di «sintetico a priori», la somiglianza tra la via che ora Wittgenstein ci suggerisce e quella percorsa a suo tempo dall’autore dei Prolegomeni non dovrebbe passare inosservata: noi almeno qualche conoscenza incontestata la possediamo, «e non abbiam bisogno di domandarci se essa è possibile (giacché è reale), ma soltanto come essa è possibile» (P 275).

Il che del gioco resta il terreno di ogni nostra mossa ulteriore, inclusa quella con cui stabiliamo la necessità, seppur condizionale, che appartiene alla dimensione ludica (una tale mossa consiste nel far osservare che non è possibile violare le regole senza per ciò stesso uscire dal gioco, e che dunque, nel gioco, alle regole appartiene una cogenza propriamente normativa). Il come del gioco è ciò che allora si offre alla nostra analisi, e tutte le risposte che cerchiamo circa la struttura e il funzionamento dei sistemi di conoscenze possono essere trovate nell’esplorazione della grammatica del nostro linguaggio. Non vi è una risposta unitaria alla domanda sulla natura del conoscere più di quanto nella filosofia del Wittgenstein maturo vi sia spazio per una forma proposizionale generale alla Tractatus; ma la metodologia wittgensteiniana della seconda fase – la metodologia, cioè, della chiarificazione grammaticale – è unitaria e in questa unitarietà si trova tutta la generalità della soluzione alla allgemeine Frage: wie ist Erkenntnis möglich? che percorre Della certezza come sua falsariga. La conoscenza è possibile in quanto esito dell’applicazione di certe regole grammaticali all’interno di un certo gioco linguistico.26 Questo detto, tutto rimane ancora da chiarire circa le regole di cui in effetti si tratta (e la disamina delle regolarità immanenti agli usi reali delle parole costituisce, di solito, un compito decisamente difficile), ma un’acquisizione vitale è stata registrata: la condizione di possibilità della conoscenza è la grammatica per mezzo della quale proposizioni dotate di senso trovano la loro formulazione e per mezzo della quale si costruiscono le argomentazioni che decidono della loro verità o falsità. Ciò che può solo essere presupposto è la dialettica irriducibile, benché aperta e dinamica, di regola e applicazione, che consiste nella possibilità non ulteriormente spiegabile (perché ogni sua chiarificazione deve presupporla per essere sensata, e dunque è legittima solo se si configura come un’illuminazione, dall’interno, dei meccanismi del linguaggio)27 che di un gesto si possa sempre decidere se è un’applicazione o una violazione di una regola.

Che una proposizione sia suscettibile di verità o falsità, cioè che sia dotata di senso, dipende dal fatto che sia costruita in conformità con un insieme di regole di carattere grammaticale.28 Le regole si costituiscono nell’uso, e in risposta all’uso possono cambiare, ma se un sistema di regole e di usi è dato (e deve sempre essere considerato come già dato quando si riflette sul linguaggio in cui ci si muove e sulle sue strutture) allora sulla sensatezza di una proposizione si può decidere senza sapere se essa è vera. Vi è un senso in cui le regole sono, rispetto alle proprie applicazioni, a priori, e cioè: è solo dando per scontate le regole che si possono realizzare conferme e confutazioni, e, benché in nessun senso e in nessun modo le regole «precedano» le loro applicazioni (non vi è regola intelligibile al di là della regolarità che emerge in un uso più di quanto sia intelligibile un uso selvaggiamente irregolare, e solo ciò che è intelligibile ricade nel il nostro interesse), la locuzione «a priori», pur forse un poco démodé, va molto bene per alludere al fatto che le regole del gioco possono solo essere seguite, finché quel gioco dura.

Portare un esempio sarebbe, a questo punto, di grande aiuto, e ancora una volta la problematica filosofica della causalità risponde efficacemente a questo bisogno. Wittgenstein si sofferma sulla grammatica di causa ed effetto in alcuni appunti del 1937-1938, raccolti da Rush Rhees e pubblicati nel 1976 col titolo del manoscritto da cui le annotazioni, per lo più, provengono: Causa ed effetto, consapevolezza intuitiva. È un esperimento mentale a portarci nel vivo del discorso: Wittgenstein ci propone di immaginare due piante, una pianta A e una pianta B, che differiscono abbastanza nell’aspetto esteriore da permetterci di discernerle agevolmente, ma che producono semi che non riusciamo, nemmeno con strumenti di grande finezza, a distinguere gli uni dagli altri. Tuttavia dai semi della pianta A nascono piante A, dai semi della pianta B, piante B. Risulta così che se conosciamo la storia di un certo seme, se cioè sappiamo se è stato prodotto da una pianta A o da una pianta B, siamo in grado di dire che pianta ne nascerà; e che se, al contrario, non la conosciamo non sapremo dire se da esso si svilupperà una pianta A o una pianta B. Qui Wittgenstein chiede: «Dobbiamo contentarci di questo, o dobbiamo dire: “Dev’esserci una differenza nei semi stessi, altrimenti essi non potrebbero produrre piante differenti; da sole, le loro storie precedenti non possono essere la causa dei loro sviluppi ulteriori, a meno che tali storie abbiano lasciato tracce nei semi medesimi”?» (UW p. 11). La domanda riguarda evidentemente la grammatica delle parole «causa» ed «effetto»: siamo disposti a dire che cause identiche possono determinare effetti diversi? detto altrimenti, siamo disposti ad ammettere che un effetto possa prodursi senza causa? Semplicemente, no. «Il fatto è questo: noi prevediamo lo sviluppo non sulla base delle proprietà dei semi, ma su quella delle loro storie precedenti. Se dico: la storia non può essere la causa dello sviluppo, questo non significa che io non possa prevedere lo sviluppo a partire dalla storia, perché questo è proprio ciò che faccio; ma significa che noi non chiamiamo questa una “connessione causale”, che qui non si tratta di prevedere l’effetto a partire dalla causa. Dichiarare: “Dev’esserci una differenza nei semi, anche se noi non la troviamo” non altera i fatti, mostra semplicemente come sia potente in noi l’impulso a vedere tutto mediante lo schema di causa ed effetto» (UW pp. 11-12). La grammatica di causa ed effetto, in altre parole, occupa nel nostro linguaggio un posto così importante, è presupposta da così tanti usi linguistici, ciascuno legato a una rete di azioni e reazioni sistematiche, che non si potrebbe pensare di abbandonarla senza che tutto questo nostro linguaggio ne risentisse in modo catastrofico, o almeno: in modo tanto profondo da divenire quasi irriconoscibile. Così non possiamo pensare di far fronte a un cambiamento simile senza che un cambiamento di tipo analogo e di portata paragonabile avvenga anche nella nostra vita, nel nostro mondo (cfr. UW p. 37).

L’applicazione dei termini «causa» ed «effetto» risponde a una ben precisa regolarità, di cui poi si potrebbe, volendo, tentare una fenomenologia (la quale sarebbe interessante, ad esempio, per capire dove avviene il trapasso dall’impiego del termine «causa» al termine «ragione» o «motivo», oppure dal termine «causa» al termine «colpa» o «merito»). Ma non è questo che ci interessa in questo contesto: a starci davvero a cuore è che, alla luce del Gedankenexperiment brevemente riassunto qui sopra e in base al quadro teorico di Della certezza, il principio secondo cui «nulla avviene senza causa» funge per noi non da constatazione di fatto, ma da norma grammaticale: non è «una proposizione da controllare con l’esperienza», ma «una regola di controllo» (cfr. ÜG 98). Nel dire che deve esserci una differenza tra un seme di una pianta A e un seme di una pianta B se essi producono rispettivamente una pianta A e una pianta B non stiamo descrivendo niente: stiamo prescrivendo un comportamento linguistico al quale vogliamo attenerci nonostante le circostanze facciano resistenza. Stiamo, insomma, esprimendo la nostra determinazione a «usare quest’immagine in ogni caso» (UW p. 12).

Verrebbe da dire che stiamo piegando la percezione ai concetti anziché i concetti alla percezione, ma ciò vorrebbe dire allontanarsi in modo problematico dal modo in cui si esprime Wittgenstein, perché le sue riflessioni non ci suggeriscono alcun dualismo di schema e contenuto (e anzi, sembra, lo scoraggiano: cfr. PU XI, p. 229): benché il fatto che a un certo punto di Causa ed effetto egli alluda, in modo piuttosto estemporaneo, all’«unità di grammatica ed esperienza» (UW p. 41) ci sembri, più che una rassicurazione, un sintomo del fatto che egli effettivamente teme di cadere in un dualismo simile, nel complesso la sua posizione è chiara, e solida: a ogni gesto appartiene la possibilità di essere caratterizzato come un’applicazione o una violazione di una certa regola, e questo dev’essere dato per acquisito, anche se non può essere ulteriormente spiegato, se il linguaggio dev’essere possibile; ma la sottodeterminazione della regola rispetto a tutte le sue applicazioni fa sì che si debba sempre decidere, e in alcuni casi con un margine non trascurabile di arbitrarietà, se un certo uso è conforme o difforme; e così, nel caso in cui vedessimo due semi identici dar vita a due piante diverse, e dovessimo quindi stabilire se considerare questa circostanza come una deroga al principio di causalità o come una sua corroborazione, ci risolveremmo per la seconda opzione anche a costo di attribuire ai semi una differenza che non riusciamo a osservare, poiché quest’attribuzione ci impegna sul piano di un’osservazione mancata, ma pur sempre di un’osservazione possibile in accordo con i nostri metri di giudizio, mentre un’eccezione al principio di causalità scardinerebbe tali metri stessi. Più che piegare la percezione al concetto, dunque, pieghiamo il nostro uso linguistico alla regola anziché tentare di abbandonarla per dar vita a una regola nuova e diversa. E per i dualismi non resta alcuno spazio, dal momento che la regolarità è immanente all’uso, benché la regola non sia riducibile a un certo insieme di sue applicazioni date.

Veniamo riportati a un ordine di considerazioni che Della certezza ci ha reso familiare quando il Wittgenstein di Causa ed effetto sintetizza con queste parole le sue conclusioni: «Il dubbio – potrei dire – ad un certo punto deve avere una buona volta una fine. Ad un certo punto dobbiamo dire – senza dubitare – questo succede in virtù di questa causa» (UW p. 13). Quei «deve» non ci inquietano: stiamo semplicemente notando che non siamo in alcun modo giustificati a dire, nel caso delle due piante diverse dai semi uguali, che c’è sicuramente una differenza nei semi, e che non lo siamo nemmeno a dire, in generale, che nulla avviene senza causa, e che tuttavia per dire l’una cosa o l’altra non abbiamo affatto bisogno di essere giustificati e dunque, poiché anzi non possiamo esserlo, non siamo autorizzati a dubitare dell’esservi una causa nel caso specifico, e della realtà dei nessi causali nel caso generale. Tutta la legittimità di cui una regola grammaticale ha bisogno, essa la trae dal suo rendere possibile un insieme di usi dal carattere sistematico. E questo è appunto il caso, ad esempio, della causalità.

Wittgenstein scrive allora che «non sarebbe del tutto insensato dire che la filosofia è la grammatica delle parole “dovere” e “potere”, poiché così essa mostra che cos’è a priori e cosa a posteriori» (UW p. 12). Se si dice che le cose possono stare in un certo modo («la causa dell’incidente può risiedere in un guasto al motore») si sta avanzando un’ipotesi empirica nella quale è contemplato anche che le cose stiano nel modo opposto, e insomma si sta tentando una descrizione, che si appoggia sulle regole che applica e rispetto a esse è a posteriori; se si dice che le cose devono stare in un certo modo («deve esserci una causa che ha determinato l’incidente, anche se non l’abbiamo ancora trovata») si sta istituendo o ribadendo un vincolo logico al quale deve obbedire il nostro uso dei termini, e insomma si sta prescrivendo una regola che rispetto alle applicazioni è a priori. Ciò per cui Wittgenstein è eccezionalmente moderno e, credo si possa dire, ciò in cui consiste il suo contributo essenziale alla neutralizzazione delle metafisiche dogmatiche è questo: l’aver ricondotto l’uso del termine «dovere» a una prescrittività di natura puramente condizionale, dove però questa condizionalità non è fattuale, ma trascendentale. Non c’è alcuna necessità assoluta, ma la necessità condizionale interna ai giochi linguistici – se fai questo gesto, segui la regola, se fai quest’altro, la violi; se giochi questo gioco, segui queste regole, se non segui queste regole, non giochi questo gioco – è una necessità trascendentale: è la condizione di possibilità di ogni forma di comunicazione verbale, e quindi, ciò che ci interessa soprattutto, di ogni verità.

Il linguaggio è un Faktum, ma non per questo si tratta di un fatto che potrebbe anche non darsi: il gioco è la cornice che dà senso a ogni nostra mossa proprio in quanto questa trova posto in quello, e, benché certamente esso possa cambiare col semplice cambiare una qualsiasi delle regolarità che si costituiscono nel nostro giocare, la sua totalità, cioè il nesso essenziale che in esso si stabilisce tra un gesto e il carattere di legittimità o illegittimità che a quel gesto appartiene, non può essere tolta senza che, molto banalmente, siamo ridotti al silenzio. La verità non è incondizionata, perché non può darsi se non in un linguaggio che è qualcosa di estremamente concreto, ma le forme della condizionatezza (cioè le regole del linguaggio) sono le condizioni soddisfatte le quali è possibile la verità. Il gioco – qualcosa che non potrebbe essere più lontano dall’idea di «una non-cosa fuori dallo spazio e dal tempo» (PU 108) – è il modello stesso del trascendentale: il suo che non ammette repliche, esso semplicemente «sta lì», ma al suo interno, se si gioca quel gioco, si deve obbedire a certe regole, e il suo come orienta un asse di lecito e illecito, corretto e scorretto. L’assurdo a cui verrebbe ridotto sia chi volesse chiedere ragioni della grammatica, sia chi volesse confutarla, sarebbe «solo» l’impossibilità di continuare a comunicare, a usare il linguaggio che mette in questione.

Non c’è né un fondamento assoluto, per così dire positivo, del nostro sistema di conoscenze, né analogamente la negazione di un tale sistema mette capo a una contraddizione assoluta (qualunque cosa ciò voglia dire): è solo dato il nostro sistema e solo finché non si fanno gesti che ci porterebbero fuori da esso che è possibile l’uso del linguaggio (è solo nel nostro sistema che l’arrivare un ragionamento a una contraddizione mostra la falsità della sua premessa) e l’impossibilità di uscirne si riduce «solamente» a questo. Ma non è affatto poco.

Qui si trova dunque la deduzione trascendentale da parte di Wittgenstein della validità oggettiva delle categorie della nostra grammatica. Il sistema del nostro linguaggio non poggia su niente, ma gli usi che si danno al suo interno hanno una regolarità che ammette di essere espressa per mezzo di proposizioni di carattere logico, benché queste non esauriscano affatto le proprie applicazioni possibili, e il fatto che queste regolarità debbano essere presupposte da ogni parte di quel sistema fornisce loro l’unica legittimazione possibile, che è anche una legittimazione piena, ed esclude ogni obiezione a loro carico come anche ogni sforzo nella direzione di una loro fondazione. La domanda se la causalità è reale suona strana, in un contesto ordinario, ma ciò avviene perché la risposta – «certo che è reale!» – non assume la forma di una constatazione di fatto, ma di una presa di posizione di principio, ossia di un rifiuto di abbandonare una certa prassi regolare del giudizio (una certa grammatica).

«Scernere, traendoli dalla conoscenza comune, i concetti che non hanno affatto a fondamento una speciale esperienza e nondimeno si presentano in ogni conoscenza sperimentale, di cui costituiscono, per così dire, la semplice forma di connessione, non presupponeva maggiore riflessione o perspicacia, di quella richiesta dallo scernere da una lingua le regole dell’uso reale delle parole in generale, e così compilare gli elementi di una grammatica (nel fatto le due ricerche sono anche molto simili tra loro), senza pur poter addurre la ragione per cui ogni lingua abbia proprio questa e non un’altra costruzione formale […]» (P 322-323). Kant impiega la grammatica di una lingua come metafora del ruolo che i concetti puri dell’intelletto hanno rispetto ai giudizi di validità oggettiva: quelli sono semplicemente le strutture in base alle quali questi devono essere costruiti per avere valore dal punto di vista della conoscenza. In Wittgenstein, che, dopo il Tractatus, non può più concepire una «tavola logica dei giudizi» (P 302, ma cfr. anche KrV B95) che metterebbe a nostra disposizione in numero chiuso, e con bella simmetria, le forme delle proposizioni nelle quali sole l’unità sintetica delle intuizioni può esprimersi in quanto determinata in se stessa, «e quindi necessariamente ed universalmente» (P 302), i concetti sono le parole stesse, e il loro novero è vasto quanto il vocabolario di una lingua qualsiasi, e altrettanto aperto e mutevole. La ricerca intorno ai concetti che strutturano il nostro conoscere non è solo simile a una ricerca grammaticale: coincide con essa.29

Ma, al di là di questa importante differenza,30 tra il punto di vista di Wittgenstein e quello di Kant vi è una fondamentale affinità – un’affinità, vorrei dire, strutturale, che permette di dire che l’uno e l’altro fanno proprio un approccio al problema della conoscenza di tipo trascendentale.31 Né Wittgenstein né Kant pensano che sia opportuno, o anche solo possibile, trovare una o poche verità infondate che possano fungere da fondamento per le nostre conoscenze e così permettere loro di superare il vaglio a cui sono sottoposte dalla ragione critica: se vogliamo indagare la legittimità che i nostri giudizi pretendono di avere in quanto scientifici, l’unica via praticabile consiste nel portarne alla luce le condizioni di possibilità e nel mettere in chiaro che quelle forme della nostra razionalità che sono sempre presupposte dal nostro conoscere, e di cui si può tentare di conoscere qualcosa solo continuando a fare affidamento sul loro operare, non hanno bisogno a loro volta di alcuna legittimazione oltre a quella che trovano nel fatto di rendere possibili quei giudizi che di fatto consideriamo capaci di scientificità. Wittgenstein si esprime così: «Vero e falso è ciò che gli uomini dicono; e nel linguaggio gli uomini concordano. Ma questa non è una concordanza delle opinioni, ma della forma di vita» (PU 241; cfr. anche ÜG 559).

L’accordo e il disaccordo delle opinioni presuppongono, l’uno come l’altro, l’accordo nella grammatica. Se noi siamo appagati di certe cose (cfr. ÜG 344), se intratteniamo alcune sicurezze con piena confidenza, non per è avventatezza o superficialità (cfr. ÜG 358): Wittgenstein parla di «forma di vita», e questa espressione (che ha una grande importanza nella sua riflessione matura) va intesa senza commettere l’errore di insistere sulla forma fino a dimenticarsi della vita, ma evitando anche, contemporaneamente, di enfatizzare troppo la vita a spese della forma.32

Una forma di vita è un sistema di attività regolate, un complesso articolato di dinamiche di azione e reazione cui appartiene irriducibilmente di poter essere sempre caratterizzate come in linea o in contrasto con una certa regola. Una forma di vita è l’insieme delle nostre pratiche in quanto non sono meri gesti, bensì sono sempre immediatamente gesti conformi o difformi rispetto alle regole del gioco e come tali gesti corretti o scorretti; quindi, viceversa, una forma di vita è la logica del nostro linguaggio, la grammatica dei nostri atti espressivi verbali, il manuale delle regole del gioco, in quanto non è concepito come disincarnato e astratto, come se la regola potesse sussistere sopra o al di fuori delle sue applicazioni, bensì come l’ordine immanente a una prassi concreta. Una forma di vita, insomma, non è né vita informe né forma morta.

Un primo fraintendimento che va evitato quando si parla di Lebensform, quindi, è quello che ci porterebbe a pensare alla forma di vita come a una forma pura a priori di tipo strettamente kantiano. Anche in Kant l’essere le forme della sensibilità e dell’intelletto pure e a priori consiste nel loro essere non tratte dall’esperienza, ma presupposte da ogni esperienza nella misura in cui ha un valore conoscitivo oggettivo, e ciò comporta che si non possa dare intuizione dello spazio senza intuizione di qualcosa di spaziale33 più di quanto si possa dare una predicazione di esistenza senza predicare l’esistenza di qualcosa – in breve, le forme non possono essere separate dal contenuto se non per fini esplicativi. Ma per Kant a tali forme, siano esse lo spazio e il tempo o le categorie, appartiene una fissità e un’intangibilità (tali per cui è sempre il contenuto che si adatta alla forma, e mai il contrario) che per Wittgenstein sarebbe impensabile: le regole sono suscettibili di adattarsi all’applicazione, anziché questa adattarsi a quelle, benché ciò avvenga solamente in casi che contano come eccezione.

Vi è però un secondo fraintendimento, in qualche modo speculare al primo, che pure va evitato, ed esso consiste nel leggere Wittgenstein come se, dove egli constata l’impossibilità di giustificare le proposizioni logiche per mezzo di altre proposizioni, egli proponesse di giustificarle per mezzo della prassi, che sarebbe quindi propriamente il fondamento delle nostre certezze, e tramite esse delle nostre verità, pur essendo tanto eterogenea, rispetto alle une e alle altre, quanto il causale è eterogeneo rispetto al logico: come se rispondere al bambino che chiede «perché questo si chiama azzurro?» – «perché è nostra abitudine chiamarlo così» fornisse una giustificazione del fatto che lo chiamiamo così. Come se, in breve, si potesse parlare di un «fondazione pragmatica».34 Wittgenstein scrive, certo, che una volta o l’altra la fondazione giunge a un termine e che «il termine non è la presupposizione infondata, sibbene il modo d’agire infondato» (ÜG 110); scrive, certo, come Faust, che «in principio era l’azione», e non il lògos (ÜG 402, UW p. 23); e dichiara apertamente, infine, che «dunque voglio dire qualcosa che suona come pragmatismo» (ÜG 422). Ma se in Wittgenstein c’è del pragmatismo, esso non comporta che l’attività umana sia considerata il fondamento del pensiero umano; non vi è una bruta causalità sulla quale si innesti la logica; non vi è un naturalismo in base alla quale si possa rispondere a una domanda sul perché di una regola grammaticale alludendo alla propensione (psicologica, antropologica, ecc.) che abbiamo a seguirla. Che il termine della fondazione è il modo d’agire infondato, e non la presupposizione infondata, si può dire se ciò su cui si vuole insistere è che il linguaggio non viene fuori da un ragionamento (cfr. ÜG 475) e che ciò che presupponiamo non sono descrizioni vere, ma regole certe, e che appunto queste sono il modo d’agire infondato. Che in principio era l’azione si può dire se si tiene presente che l’azione dev’essere considerata come azione regolare, come l’azione, facente già parte della nostra forma di vita, nella quale emerge ogni regolarità, e che, se fosse così anarchica da sfidare ogni parametro della nostra familiarità, non ci sembrerebbe affatto nemmeno azione umana.

L’azione regolare, la forma di vita, non è il fondamento della grammatica, ma la grammatica stessa. Che la nostra prassi non sia per Wittgenstein il fondamento della nostra grammatica si vede in questo: che il punto in cui si giunge a dire «semplicemente agiamo così» non è il punto in cui la domanda «perché?» è posta legittimamente per l’ultima volta e trova la sua ultima risposta legittima: è già il punto in cui tale domanda ha perso il suo senso. E che il causale e il logico siano distinti, e che il primo non stia a fondamento del secondo, si vede in questo: che il punto in cui si giunge a dire «agiamo così per abitudine», o «per tali e tali accidenti della nostra complessione naturale», non è il punto in cui la domanda «perché?» trova la sua ultima risposta con la forma di una chiarificazione concettuale: è già il punto in cui il senso di tale domanda si è traslato fino a chiamare una risposta di tipo fattuale.35

Si può, ovviamente, dire che la nostra capacità di enunciare proposizioni riposa su certe caratteristiche fisiologiche e neurologiche che possediamo, e che non presentano affatto una differenza qualitativa rispetto a ogni altro fenomeno naturale, ma questa non può configurarsi come una fondazione del nostro linguaggio sulla base di qualcosa di esterno a esso, perché si muove ancora interamente al suo interno. Il linguaggio può essere discusso (scientificamente) come un organo della nostra animalità tra gli altri, ma solo continuando a presupporre il suo operare come condizione di possibilità di questa e di tutte le altre teorie che vogliamo veridiche. La delicatezza sta nella distinzione tra il ruolo che le nostre diverse proposizioni occupano le une in relazione alle altre: una teoria non può essere un fondamento, e un fondamento non può essere una teoria, poiché la teoria dev’essere fondata, il fondamento, infondato.

Wittgenstein scrive: «È così difficile trovare l’inizio. O meglio: è difficile cominciare dall’inizio. E non tentare di andare ancor più indietro» (ÜG 471). È difficile rassegnarsi all’idea che non possiamo, come filosofi, giustificare la nostra stessa razionalità. Tuttavia questa rinuncia, quest’idea che i tentativi di argomentare in favore della nostra grammatica, della nostra logica, siano impieghi esuberanti della ragione, cioè usi linguistici insensati, nella misura in cui tentano di porsi al di fuori del linguaggio che vorrebbero fondare esattamente come fanno gli scettici che, nel tentativo di far vacillare le nostre certezze, ne violano la grammatica e per ciò stesso producono proposizioni apparenti che sono in realtà solo rumore, questa rinuncia è ciò che Wittgenstein ci propone. E ancora una volta l’aver identificato i limiti del linguaggio (che mai come ora risultano evidentemente limiti intrinseci del linguaggio come tale, non dettati a esso da qualcosa d’altro)36 fa tutt’uno con l’aver reso chiara la legittimità dei nostri usi linguistici all’interno del perimetro che quei limiti tracciano. In questo senso la filosofia della conoscenza di Wittgenstein è una filosofia trascendentale.

2.3.2 La grammatica e l’ordine del mondo

Il Wittgenstein del secondo periodo non si spinge fino a sostenere che le strutture della grammatica del nostro linguaggio sono le strutture del mondo di cui il nostro linguaggio parla. Egli così, diversamente da quanto aveva fatto all’epoca del Tractatus (cfr. TLP 5.4711), resta un passo al di qua della più impegnativa delle prese di posizione caratteristiche del trascendentalismo kantiano, quella cioè che si esprime con formule come: «Le condizioni a priori della possibilità dell’esperienza [sono] nel tempo stesso le fonti da cui devono esser dedotte tutte le leggi universali della natura» (P 297), o: «I princìpi della esperienza possibile sono nel tempo stesso leggi universali della natura che possono essere conosciute a priori» (P 306).

Questo dipende evidentemente dai tratti caratteristici della concezione della filosofia che anima le ricerche più tarde di Wittgenstein. Asserire qualcosa di molto generale sulle proprietà che devono appartenere al mondo affinché esso sia conoscibile come in effetti è significa cedere a un «ideale» (cfr. PU 101): significa aver già fatto il primo passo verso una concezione astratta del linguaggio la quale, a sua volta, ne mette in ombra la natura concreta e toglie interesse allo studio dettagliato del suo funzionamento nei casi reali. Wittgenstein ci mette esplicitamente in guardia: «Si predica della cosa ciò che è insito nel modo di rappresentarla. Scambiamo la possibilità del confronto, che ci ha colpiti, per uno stato di cose estremamente generale» (PU 104).

Tuttavia la «possibilità del confronto», in quanto appartiene alla nostra grammatica, è qualcosa di reale: non è uno «stato di cose», se con ciò si intende un fatto che può essere constatato ma che può anche non verificarsi, e neanche se l’espressione deve indicare un attributo dogmaticamente «conficcato» (cfr. PU 101) nella realtà. Semplicemente, la possibilità del confronto è presupposta da ogni constatazione di un’identità o di una differenza nelle cose. Il metro campione di Parigi (cfr. PU 50) non ha alcuna proprietà magica, non è di per sé speciale rispetto a tutti gli altri oggetti dotati di lunghezza, e tuttavia riveste nel gioco del misurare un ruolo unico: nel gioco vi è una differenza essenziale (grammaticale) tra «il rappresentato» e «il mezzo di rappresentazione», che non è una differenza intrinsecamente legata alle proprietà degli oggetti in questione, e che anzi è tale per cui i paradigmi possono sempre cambiare, e i rapporti tra misura e misurato invertirsi nel tempo (cfr. PU 79, ÜG 167), ma che è una differenza funzionalmente irriducibile. «Di una cosa non si può affermare e nemmeno negare che sia lunga un metro: del metro campione di Parigi. – Naturalmente con ciò non gli abbiamo attribuito nessuna proprietà straordinaria, ma abbiamo solamente caratterizzato la sua funzione particolare nel giuoco del misurare con il metro» (PU 50). Sull’importanza filosofica di questa differenza ci siamo già soffermati abbastanza.

Così, se per Wittgenstein non si può pretendere di descrivere il mondo come dotato di strutture che lo rendono suscettibile di descrizione più di quanto si possa descrivere il metro campione come lungo un metro, d’altro canto resta ferma la distinzione tra proposizioni empiriche e proposizioni logiche, e sulla base di questa si può caratterizzare la possibilità della descrizione del mondo, il suo possedere un ordine che è accessibile al linguaggio, non come una proprietà che possiamo scoprire, radicalmente a posteriori, con sorpresa, né come una caratteristica gli appartiene in sé, radicalmente a priori, ma come una condizione trascendentale. La possibilità del confronto, cioè la possibilità di seguire e di violare una regola, semplicemente non è uno stato di cose: e quindi non è contro Kant che Wittgenstein si rivolge in PU 104. La nozione wittgensteiniana della logica differisce da quella kantiana nella misura in cui è pluralistica e dinamica, ma non nella misura in cui la logica è concepita come la forma intrascendibile di un contenuto dato, in un rapporto tale per cui il contenuto senza forma è impensabile per difetto, e la forma senza contenuto è impensabile per eccesso.

In un caso specifico, quello della causalità, si può dire wittgensteinianamente che la realtà della causalità è tanto innegabile quanto è difficile fare a meno, nel nostro linguaggio, di impiegare la grammatica di causa ed effetto (cfr. UW p. 37), e che insomma la causalità è reale in quanto condizione di possibilità del sistema delle nostre conoscenze. E questa è un’osservazione grammaticale, un’osservazione sulla nostra forma di vita: gli argomenti di Hume per mostrare l’impossibilità di argomentare in favore dell’esistenza di un nesso di causa, a priori o a posteriori,37 restano validi.

Nel caso generale, se pure si può dire che la possibilità di essere oggetto di una descrizione appartiene al mondo come condizione e requisito delle nostre descrizioni effettive, e insomma come presupposizione di carattere grammaticale, si deve però notare anche che si tratta della più ovvia e banale delle presupposizioni di carattere grammaticale: quella, in effetti, che più di rado ci sembra di dover rendere esplicita.

Eppure essa può essere resa esplicita, e nelle opere del Wittgenstein maturo il tema dell’ordine che appartiene al mondo in quanto questo è linguisticamente descrivibile è presente. Esso prende la forma di una riflessione su che cosa dovrebbe accadere affinché il mondo non fosse più descrivibile.

«La questione è certamente questa: “E che dire se tu dovessi cambiare la tua opinione anche su queste cose fondamentalissime?” E la risposta mi sembra questa: “Non sei obbligato a cambiarle”. Proprio in questo risiede il loro essere ‘fondamentali’» (ÜG 512). Fino a qui, niente di nuovo: le proposizioni che in un sistema di usi linguistici sono l’asse intorno a cui altre ruotano non ammettono che ragioni cogenti ci costringano a cambiarle, come non ammettono che ragioni cogenti le giustifichino. Tenerle per valide equivale a decidere di giocare un certo gioco, e niente ci vincola a farlo – i vincoli si danno solo all’interno del gioco. Ma Wittgenstein prosegue: «E che dire se accadesse qualcosa di davvero inaudito? se, per esempio, vedessi come le case si tramutano gradatamente in vapore, senza nessuna causa palese; se gli animali sui prati stessero sulla testa, ridessero e dicessero parole comprensibili; se gli alberi si tramutassero gradatamente in uomini, e gli uomini in alberi. Allora avevo ragione quando dicevo, prima che tutte queste cose accadessero: “So che questa è una casa”, ecc., o semplicemente: “Questa è una casa”, ecc.?» (ÜG 513). Si potrebbe domandarsi, in poche parole: che ne sarebbe delle nostre certezze se tutte le nostre verità diventassero falsità? Ebbene, pare che il nostro sistema si metterebbe a ruotare intorno a un asse diverso, e che cioè il mutamento delle verità porterebbe con sé anche un mutamento delle certezze (cfr. anche ÜG 134). «Ma non sarebbe possibile che accadesse qualcosa che mi buttasse completamente fuori dei binari? Prove [Evidenz] che mi rendessero impossibile assumere la cosa più sicura? o comunque agissero in modo da farmi rovesciare i miei giudizi più fondamentali? (Se a ragione o a torto, qui non importa affatto)» (ÜG 517). Se a ragione o a torto, appunto, non importa affatto: perché un sistema di giudizi così radicalmente diverso da quello che è il nostro sarebbe diverso anche nella grammatica, anche nei criteri della verità e della falsità. In un gioco che differisse dal nostro non solo per le mosse che vi vengono eseguite, ma per le regole stesse che determinano quali mosse siano legali e quali no, non avrebbe senso chiedersi se una mossa è vincente o perdente nel nostro gioco (cfr. anche ÜG 609, 612).

Ma qui la sfida posta dagli esperimenti mentali di Wittgenstein alla possibilità della descrizione non sembra ancora davvero radicale. Dopotutto stiamo pensando a modifiche della nostra grammatica che danno vita a una nuova grammatica: stiamo parlando di abbandonare certe regole, ma solo per sostituirle con regole diverse, e non per avventurarci sul terreno di una vera anomia. Possiamo pensare, invece, a circostanze in cui diventi impossibile non solo l’applicazione delle regole del linguaggio che ci è familiare, ma di regole tout court?

Qui la nostra indagine si lega a quella che ha a che fare con il principio di induzione. Dopotutto operare un’induzione significa solamente seguire una regola, associare a un soggetto un predicato nel quale non sono contenute, né potrebbero esserlo, tutte le informazioni necessarie per sapere a quali soggetti esso può e a quali non può essere associato. La sinteticità delle operazioni induttive (tradizionalmente contrapposta all’analiticità di quelle deduttive) fa tutt’uno con la sottodeterminazione della regola rispetto alle sue applicazioni. L’impossibilità di dimostrare o altrimenti giustificare il principio di induzione fa tutt’uno con l’impossibilità di spiegare cosa significa seguire una certa regola, o cosa significa in generale seguire una regola, se non a qualcuno che è già perfettamente in grado di seguire parecchie regole (cfr. ÜG 315, 499-501).

Wittgenstein ragiona così: «Se l’acqua sulla fiamma gelasse, di certo sarei altamente stupito, ma senza dubbio supporrei che esista qualche influenza che mi è ancora ignota, e forse lascerei giudicare della cosa ai fisici. – Ma cosa potrebbe farmi dubitare che quest’uomo sia N. N., che conosco da tanti anni? Qui sembrerebbe che un dubbio trascini tutto quanto con sé e precipiti tutto nel caos» (ÜG 613). Come abbiamo notato più volte, non c’è un confine netto che separa le proposizioni più centrali da quelle più periferiche del nostro linguaggio; ma è possibile indicare una proposizione abbastanza radicata nella sua topografia da far sì che, cambiandola, l’intero skyline del nostro linguaggio divenga irriconoscibile (come in ogni sorite che si rispetti, è possibile indicare un punto abbastanza vicino a uno degli estremi da rendere indiscutibile che sia in continuità con esso).

«Questo vuol soltanto dire “Posso giudicare soltanto perché le cose si comportano in questo certo modo (per dir così gentilmente)”? Ma allora sarebbe impensabile che io rimanga in sella, anche quando i fatti recalcitrano tanto?» (ÜG 615-616). Di nuovo: possiamo pensare che non solo l’applicazione di certe regole, ma il seguire una regola in generale, diventi impossibile? La risposta di Wittgenstein sembra essere negativa. «Devo dire: Anche se negli accadimenti naturali si insinuasse improvvisamente un’irregolarità, non necessariamente essa dovrebbe sbalzarmi di sella. Allora come prima, potrei trarre conclusioni – ma se questo si chiamerebbe ancora induzione, è un’altra questione» (ÜG 619). In un gioco diverso dal nostro, quelle che nel nostro gioco sono irregolarità, eccezioni, strappi potrebbero venir accomodate da regole diverse, delle quali sarebbero applicazioni e non violazioni; e si può sempre scegliere se cambiare gioco, cosicché un’irregolarità negli accadimenti naturali non deve necessariamente lasciarmi a piedi; però, come dicevo poco sopra commentando ÜG 517, non avrebbe senso chiedersi se il seguire quelle regole può chiamarsi nel nuovo linguaggio come il seguire le regole del vecchio, e cioè «induzione». Il punto che ci interessa ora, tuttavia, è un altro, e precisamente questo: un mondo nel quale i fatti recalcitrassero a tal punto da non permetterci di applicare alcuna regola, nel quale un accadimento non si ripetesse mai due volte, nel quale una molteplicità eraclitea avesse preso il sopravvento sulla possibilità stessa di un’unità platonica,38 è un mondo impensabile. Seguire una regola non è qualcosa che potrebbe essere fatto da un solo uomo, una sola volta nella sua vita (cfr. PU 199).

Ogni regola ammette la possibilità dell’eccezione, ma la presenza dell’eccezione comporta la presenza della regola. Se vi fossero solo eccezioni, e nessuna regola, non vi sarebbero nemmeno eccezioni: per così dire, il contesto del gioco collasserebbe in una pura e semplice anarchia. Così ci è impossibile dubitare della possibilità di seguire una regola in generale o negarla, anche solo ipoteticamente, e non perché ce lo impediscano la nostra inerzia intellettuale o la nostra faciloneria: la possibilità di un’irregolarità generalizzata non fa parte del nostro linguaggio (cfr. UW p. 18, ÜG 317). Il nostro linguaggio è una prassi irriducibilmente regolare (cfr. PU 199).

«Si può dire, allora, che soltanto una certa regolarità negli accadimenti rende possibile l’induzione? Il “possibile” dovrebbe, naturalmente, essere “logicamente possibile”» (ÜG 618, e cfr. anche PU 497). La regolarità dei fatti, che potrebbe essere chiamata anche «uniformità della natura», è la condizione tolta la quale l’induzione – e cioè, come dicevamo, lo stesso seguire le regole di un linguaggio qualsiasi, lo stesso parlare in generale – diventerebbe impossibile. Il venir meno di una regolarità negli accadimenti sarebbe il venir meno della stessa logica, e in questo senso è logicamente impossibile. E fattualmente, è possibile una Weltvernichtung? Non ci interessa, perché essa ci sbalzerebbe dalla sella del nostro linguaggio, e allora semplicemente dovremmo tacere.

Ciò che del mondo non possiamo pensare è che vengano meno le condizioni che lo rendono pensabile. L’ordine del mondo è necessario solo nella misura in cui possono esserlo le regole all’interno del gioco. Il rischio che si corre privandosi, da filosofi, di ogni appiglio a una necessità assoluta per limitarsi a una necessità trascendentale è quello di non poter garantire che il mondo a un certo punto non si sgretoli; e tuttavia garantire qualcosa del genere è un compito che si addice agli dei, non ai filosofi. Ma che la rinuncia radicale a seguire qualsiasi regola nei nostri usi linguistici equivalga al silenzio, questa è un’ovvietà che è importante ricordare.

2.3.3 Dall’Io al Noi

Comincia a divenire chiaro in che termini ritengo che la filosofia dell’ultimo Wittgenstein possa essere interpretata come una filosofia trascendentale: il linguaggio è l’atmosfera in cui dobbiamo respirare finché vogliamo dire qualcosa di vero, e non possiamo volare al di sopra di esso più di quanto una colomba possa elevarsi oltre l’aria che offre alle sue ali il necessario attrito (cfr. KrV B8-9 e PU 107); nel linguaggio trovano posto tutte le argomentazioni a favore o contro una tesi; e tuttavia – anzi, perciò – esso non può essere a sua volta fondato, non ammette che al suo interno vengano formulate argomentazioni in favore di o contro se stesso.39

Ciò non significa affermare qualcosa di così impegnativo come, per esempio, che il mondo dipende da ciò che noi diciamo di esso più di quanto significhi affermare, per esempio, l’opposto. Le osservazioni attraverso cui Wittgenstein ci guida sono osservazioni grammaticali. Egli ambisce solamente a farci notare che il gioco linguistico ci obbliga, in quanto ha regole dal cui rispetto dipende la sensatezza delle nostre proposizioni, ad argomentare le nostre affermazioni che qualcosa accade o non accade e ci impedisce, in modo del tutto analogo, di giustificare o confutare tali regole stesse.

La posizione di Wittgenstein sfida sia il realismo, sia l’idealismo:40 ci scoraggia sia a enunciare un principio generalissimo come «vi sono enti indipendenti dal nostro pensiero», sia ad asserire che «nessun ente esiste al di fuori delle nostre rappresentazioni».41 Scrive Wittgenstein, nelle annotazioni sparse che sono state pubblicate nel 1967 col titolo Zettel: «Supponiamo che un tizio sia un convinto realista, e un altro un idealista convinto, e ciascuno di essi tiri su i propri figli coerentemente con le proprie convinzioni. In una faccenda così impostante come l’esistenza o la non esistenza del mondo esterno non vogliono insegnare ai loro bambini niente di falso. Ebbene, che cosa gli insegneranno? Anche a dire “Esistono oggetti fisici”, o il contrario? Se uno non crede alle fate, non ha bisogno di insegnare ai suoi bambini “non esistono fate”, ma può far a meno d’insegnargli la parola “fata”. In quale occasione dovrebbero dire “Esiste…” oppure “Non esiste…”? Solo quando incontreranno gente che è della credenza contraria. Ma l’idealista insegnerà pure ai suoi bambini la parola “sedia”, perché gli vuole insegnare a far questa o quest’altra cosa, per esempio ad andare a prendere una sedia. Che cosa distinguerà quello che dicono i bambini allevati alla maniera idealistica da quello che dicono i bambini allevati alla maniera realistica? La differenza non starà soltanto nel loro grido di battaglia?» (Z 413-414). Una considerazione descrittiva della grammatica ci porta a notare semplicemente questo: che parliamo di oggetti. Al nostro gioco linguistico appartiene la possibilità di formare giudizi di validità oggettiva. Che in una conclusione così fenomenologicamente inattaccabile, speculativamente prudente e metafisicamente parsimoniosa si trovi già una presa di posizione filosofica che può a buon diritto essere definita «trascendentale» dipende da questo: che al nostro gioco linguistico appartiene necessariamente la possibilità di formare giudizi di validità oggettiva, perché altrimenti sarebbe un gioco diverso, e che giudizi di validità oggettiva possono trovare la loro formulazione esclusivamente all’interno del nostro gioco linguistico. Con ciò però si dovrebbe vedere anche come sotto il titolo altisonante del trascendentale in effetti si celi, cioè si manifesti, poco più che un invito alla cautela, un’ammonizione critica contro la facile tentazione di dire cose che sembrano portarci al di sopra o al di sotto del nostro gioco linguistico – e che, non potendo ovviamente farlo davvero, si riducono a chiacchiere solo apparentemente dotate di senso.

Un altro problema emerge però a questo punto: che cosa significa «il nostro gioco linguistico»? Cioè: nostro di chi? E, insomma: l’interpretazione in chiave trascendentale dei testi tardi di Wittgenstein può essere portata avanti fino ad autorizzarci a parlare di una soggettività trascendentale come correlato necessario dell’oggettività dei giudizi?

L’approccio di Wittgenstein al problema della conoscenza si caratterizza per un’auto-limitazione programmatica al terreno delle considerazioni su ciò che diciamo. Il suo interesse nelle Ricerche filosofiche riguarda i nostri giochi linguistici, la grammatica che emerge nelle loro descrizioni («ciò che è nascosto non ci interessa», PU 126). E in Della certezza egli perviene in ultimo a sostenere che possiamo descrivere nel linguaggio tutto, ma anche solo, ciò che possiamo descrivere nel linguaggio, il che sarebbe così ovvio da risultare privo di senso solo se non si contassero da più parti tentativi inconsapevoli di fare altrimenti, cioè di trascendere i limiti del linguaggio per risalire, per dir così, più indietro dell’inizio: gli esempi che abbiamo già discusso sono, a questo proposito, quello dello scettico che pretende di delegittimare il linguaggio e del naturalista (biologista, antropologista, psicologista…) che pretende di fondarlo. Le operazioni dell’uno e dell’altro possono svolgersi solamente dentro il linguaggio, ma allora non riusciranno né a comprometterlo senza compromettere anche se stesse, né a fondarlo senza presupporlo, oppure al di fuori del linguaggio, ma allora non saranno nemmeno operazioni linguistiche, e non avranno più senso di quello che possiamo erroneamente attribuire loro sulla base di una superficiale e illusoria somiglianza con gli usi del linguaggio che, diversamente da questi, fanno parte delle regolarità della nostra vita.

 Possiamo descrivere nel linguaggio tutto, ma anche solo, ciò che possiamo descrivere nel linguaggio: i limiti del nostro linguaggio significano i limiti del nostro mondo.42 Il Noi che è qui in gioco opera davvero come un soggetto trascendentale. Esso non si trova nel mondo, bensì è la condizione del mondo in tanto in quanto questo è dicibile. Bernard Williams scrive:

Possiamo provare a seguire un’analogia tra questa prospettiva, in prima persona plurale, e la prospettiva trascendentale in prima persona singolare [tipica del Tractatus] che abbiamo già discusso. Innanzitutto, e fondamentalmente, è essenziale che la proposizione che i limiti del nostro linguaggio significano i limiti del nostro mondo non debba essere intesa né come una vuota tautologia, né come una tesi empirica. Sarebbe una mera tautologia se volesse dire qualcosa come: chiunque sia inteso per «noi», sarà vero che noi comprendiamo ciò che comprendiamo, e che abbiamo sentito e possiamo parlare di ciò che abbiamo sentito e di cui possiamo parlare, e che non possiamo parlare di ciò di cui non possiamo parlare. Certo. Ma le versioni singolari di questi truismi non erano tutto ciò che si voleva dire quando originariamente si diceva che i limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo. Né, in quel caso originario, intendevamo un pensiero empirico, nel quale io al contempo mi considero come qualcosa nel mondo e faccio dipendere il mondo da me: questo è precisamente ciò che ci siamo lasciati alle spalle distinguendo l’idealismo trascendentale da quello empirico.43

Insomma, alla stregua dell’Io del Tractatus, il Noi del Wittgenstein maturo non è concepito come una parte del mondo, bensì come un limite di esso. Una soggettività del genere deve poter accompagnare tutte le nostre rappresentazioni,44 nel semplice senso che una proposizione è sempre una proposizione di un linguaggio e il linguaggio è sempre il nostro linguaggio. Se scrivessimo un libro intitolato Il mondo come noi l’abbiamo trovato, il linguaggio di quel libro potrebbe essere oggetto di considerazioni scientifiche (in questo si vede quanto la nozione wittgensteiniana di «scienza» si sia allargata), ma resterebbe comunque il presupposto insormontabile di ogni descrizione, inclusa la teoria scientifica del linguaggio,45 che quindi potrebbe appunto essere descrizione, ma non potrebbe essere fondazione più di quanto potrebbe essere confutazione.

Bisogna evitare un fraintendimento nel dire che il Noi trascendentale è un limite, e non una parte, del mondo: il linguaggio è una cosa molto concreta, e noi che parliamo lo siamo altrettanto. Ovviamente siamo parti del mondo, ovviamente possiamo essere descritti come tali. Ma la legittimità di questa prospettiva non delegittima la considerazione che gli usi descrittivi sono legati a doppio filo, nel gioco linguistico, a quelli grammaticali, anzi non entra minimamente in contrasto con essa, anzi ne dipende. La delicatezza sta nell’osservare che la discussione di una comunità di parlanti come parte costituita del mondo, sotto forma di teorie biologiche, antropologiche, psicologiche dell’uomo e della società, può solo presupporre come costituente la comunità di parlanti stessa, la regolarità, intrinsecamente pubblica, della forma di vita. La delicatezza sta, in altri termini, nel preservare la distinzione tra la constatazione di fatto e il principio normativo di natura grammaticale, nel rammentare che possiamo descriverci come parti del mondo, ma che tale descrizione si svolge già nel linguaggio, in ossequio alle sue regole.46 Nel rifiuto di trascurare questa distinzione, nel rifiuto di porre il problema di come le cose stanno indipendentemente dal problema di come facciamo a dire che stanno così, consiste l’impostazione trascendentale in filosofia. Così, è legittimo sia dire che il linguaggio è parte del mondo, e che lo stesso vale anche per noi, sia dire che il linguaggio è condizione del mondo come lo siamo anche noi in quanto parlanti: ma la prima tesi potrà solo essere parte di una teoria scientifica, e la seconda potrà solo essere un promemoria critico circa la mutua dipendenza delle descrizioni e della grammatica. Non c’è contraddizione tra le due tesi, perché la prima è una constatazione fattuale, la seconda una riflessione sulle condizioni di possibilità delle constatazioni fattuali e di ogni altro enunciato.

Ma allora, se davvero nel Wittgenstein della maturità c’è margine per parlare di una soggettività trascendentale, perché innanzitutto si tratta di una soggettività plurale anziché singolare? Perché un Noi anziché, come nel Tractatus, ma anche in Kant, un Io?

La risposta a questa domanda importante risiede in una delle implicazioni del discorso delle Ricerche filosofiche sul seguire una regola, sulla quale in particolare non mi sono ancora soffermato. Il criterio della sensatezza degli usi linguistici, come dicevo nel presentare le più macroscopiche differenze tra quest’opera tarda di Wittgenstein e il suo testo giovanile, risiede nell’uso che se ne fa. Non si trova al di sopra di esso, né alle sue spalle o sotto la sua superficie. Una regola si determina come tale nelle applicazioni, e precisamente: nel fatto che alcuni gesti vengono considerati sue applicazioni, altri sue violazioni. Il criterio dell’uso è dunque nel confronto tra certi usi e certi altri. Ma questo richiede che vi sia una relativa indipendenza tra questi e quelli, perché se il metro di confronto fosse allo stesso tempo l’oggetto da confrontare – se per seguire una regola bastasse credere di seguire una regola (cfr. PU 202) – tanto varrebbe comprare due copie dello stesso giornale per assicurarsi dell’attendibilità delle notizie che esso riporta (cfr. PU 265), tanto varrebbe, alla domanda «quanto sei alto?», mettersi una mano sulla testa e rispondere: «sono alto esattamente così» (cfr. PU 279).47 Il linguaggio è intrinsecamente pubblico, perché esso si riduce alla regolarità immanente della prassi e perché la regolarità, in quanto è sempre la regolarità di certi usi rispetto ad altri, può darsi solo insieme alla possibilità di un punto di riferimento terzo, di un «ufficio indipendente» (cfr. PU 265). «“Seguire la regola” è una prassi. E credere di seguire la regola non è seguire la regola. E perciò non si può seguire una regola “privatim”: altrimenti credere di seguire la regola sarebbe la stessa cosa che seguire la regola» (PU 202).

Ecco come l’Io che nel Tractatus è il correlato di un linguaggio che funziona come una raffigurazione diventa nei testi tardi di Wittgenstein il Noi correlato a un linguaggio che consiste nel seguire un insieme di regole.

Si è così precisato il contesto filosofico della questione, ma la domanda da cui tutto era partito si pone di nuovo, ora, con la stessa forza di prima: se posso dare per acquisito che è necessaria una comunità di parlanti affinché si dia un linguaggio, e se può essermi concesso con abbastanza facilità che questa comunità, io che scrivo, posso chiamarla «Noi», ebbene: che cosa significa «Noi»?

La precisazione del contesto filosofico mi ha, però, anche portato più vicino alla risposta: questo Noi non è né un gruppo umano più o meno rappresentativo della specie, né la specie stessa, né il genere nel quale potremmo essere raccolti noi umani insieme a tutte le altre specie terrestri o extraterrestri in grado di esprimersi linguisticamente. Se così fosse, infatti, non potremmo mai escludere la possibilità di trovarci di fronte a un altro Noi, perché tale possibilità si configura come una possibilità empirica, e questo altro Noi dovrebbe differire dal nostro Noi per alcune caratteristiche del suo linguaggio e della sua forma di vita, ma non per il fatto di avere ciò che noi saremmo in grado di riconoscere come un linguaggio e come una forma di vita. In altri termini, l’alterità sarebbe un’alterità empirica, non trascendentale; l’altro Noi sarebbe un Noi empirico, non trascendentale, e lo stesso varrebbe per per il nostro Noi, a cui quello viene contrapposto. Un Noi trascendentale deve abbracciare ogni possibile comunità capace di linguaggio, il che significa che un’alterità trascendentale non è affatto concepibile. Come scrive Jonathan Lear, «ci rendiamo conto che essere una delle “nostre” rappresentazioni è tutto ciò che essere una rappresentazione può essere [being one of “our” representations is all that there could be to being a representation]».48 Analogamente, Bernard Williams scrive:

[…] non è questione per noi di riconoscere che siamo un gruppo tra altri nel mondo, e (almeno in linea di principio) di giungere a capire e spiegare come il nostro linguaggio condiziona la nostra visione del mondo, mentre quello di atri condiziona diversamente la loro. Piuttosto, che cosa il mondo è per noi è mostrato dal fatto che noi riusciamo a dare senso a [make sense of] certe cose e non ad altre: o meglio – per abbandonare gli ultimi residui di una prospettiva in terza persona e di carattere empirico – nel fatto che alcune cose e non altre hanno senso [make sense]. Qualunque scoperta empirica che potremmo fare a proposito della nostra visione del mondo […] sarebbe essa stessa un fatto che saremmo in grado di comprendere nei termini della nostra visione del mondo, e solo nei termini di essa; e qualunque cosa ci fosse radicalmente impossibile comprendere perché giace al di fuori della frontiera [boundary] del nostro linguaggio non sarebbe qualcosa di cui potremmo giungere a spiegare la nostra incomprensione – non potrebbe divenirci chiaro cosa non va con essa, o con noi.49

Che cosa significa, in definitiva, «Noi»? Non qualcosa di empirico, che potrebbe essere trovato nel mondo se solo si cercasse bene, bensì qualcosa di trascendentale, ciò che è fungente ovunque qualcosa che sia dotato di senso viene detto. Questo Noi è ciò che accompagna ogni nostra verità o, se è per questo, falsità, e insomma è la forma di vita, è il linguaggio stesso.

Questa formulazione va presa alla lettera: questo Noi è il linguaggio stesso, non il suo portatore. Noi, in quanto esseri umani fattualmente determinati, abbiamo con il linguaggio una relazione come quella di chi usa uno strumento con lo strumento stesso. Ma in quanto noi siamo coloro che parlano e in quanto il linguaggio è la condizione trascendentale di possibilità della conoscenza, noi siamo il nostro linguaggio, poiché è esattamente lo stesso dire che la descrizione veridica di ciò che accade o non accade è possibile per noi, e solo per noi, e dire che essa è possibile nel linguaggio, e solo nel linguaggio. L’idealismo che emerge da queste considerazioni, l’idea cioè che non si possa filosoficamente prescindere dal polo soggettivo, è di carattere strettamente trascendentale, e cioè fa tutt’uno con la legittimazione delle nostre pretese conoscitive circa il polo oggettivo: Lear osserva che «ciò che emerge da queste considerazioni non è la conclusione scettica che l’individuo, considerato in isolamento, non può significare niente con le sue espressioni, ma piuttosto la sua inversione post-kantiana: non possiamo considerare un individuo in isolamento»;50 analogamente non giungiamo in alcun modo alla conclusione scettica che il mondo come è in sé ci è inaccessibile e la sua conoscenza preclusa, bensì semplicemente scopriamo che non possiamo considerare il mondo come è in sé. Con questi presupposti, il nostro parlare del mondo, che è irriducibilmente nostro e che è irriducibilmente parlare, può poi essere di tono realistico. Come dicevo, parliamo di oggetti. Al nostro gioco linguistico appartiene la possibilità di formare giudizi di validità oggettiva.

In questo senso il Noi è «un Noi che scompare»,51 così come il linguaggio può sempre recedere al di qua della nostra considerazione. Alla nostra abituale confidenza linguistica con gli oggetti e gli stati di cose può subentrare la riflessione filosofica, al semplice che della conoscenza, sotto forma di semplici proposizioni vere anziché false, può aggiungersi l’interrogazione circa le condizioni di possibilità di essa, e tuttavia quel che rimane intatto, il fatto che un fatto sia un fatto solo per noi, e che si possa descriverlo solamente nel linguaggio, non toglie che sia un fatto: solamente chiarisce le condizioni date le quali possiamo dire che lo è. La filosofia critica ci permette di smettere di filosofare quando vogliamo. Se dunque il punto di vista trascendentale, tematizzando l’irriducibilità e la costitutività di un Noi che è il linguaggio, ci ha permesso di coniugare qualcosa di virtuosamente idealistico (la nozione che solo nel linguaggio e solo per noi è possibile l’oggettività) con qualcosa di virtuosamente realistico (la nozione che, purché in ossequio alle condizioni della soggettività, l’oggettività è possibile), d’altro canto resta fermo che nel linguaggio ordinario non c’è spazio né per l’idealismo né per il realismo. Si può allora ancora dire, come all’altezza del Tractatus, che l’idealismo, «portato avanti rigorosamente, coincide con il puro realismo» (TLP 5.64), e questo nel senso che, una volta ridotti trascendentalmente, sono entrambi validi; ma anche nel senso che, una volta che la filosofia trascendentale ha svolto il suo compito critico – una volta che ha curato i crampi mentali sia del realismo dogmatico, sia dell’idealismo empirico – essi, realismo e idealismo, sono entrambi inutili.

La domanda del Wittgenstein maturo è ancora una domanda kantiana, è ancora la domanda su cosa deve essere affinché la conoscenza sia possibile. E la sua risposta è che ciò che dev’essere è esattamente quello che è, perché la conoscenza si dà esattamente nel linguaggio che usiamo effettivamente.

2.3.4 Il pensiero sintetico

La soggettività trascendentale che prende forma nelle riflessioni delle opere tarde di Wittgenstein è, rispetto a quella configurata dal Tractatus, o anche dalla Critica della ragion pura di Kant, plurale e dinamica anziché singolare e statica. Con ciò voglio dire che le forme soggettive che risultano costitutive di ogni oggettività sono le regole che noi seguiamo nei nostri giochi linguistici (cfr. ÜG 298), e che a esse appartiene come tratto essenziale di poter cambiare nel tempo (cfr. ÜG 63, 256, 646).

C’è però anche un’altra differenza di enorme portata tra il linguaggio come immagine di cui si parla nel Tractatus e il linguaggio come insieme di pratiche di rule-following delineato nelle Ricerche e messo filosoficamente al lavoro in Della certezza. (Comincerò a presentare questa differenza limitandomi a un confronto tra queste due concezioni del linguaggio, e solo in seguito tenterò di risolvere la questione distinta, ma interessante e potenzialmente chiarificatrice, della posizione che Kant può assumere rispetto allo scontro tra Wittgenstein e Wittgenstein.)

Come notavo sopra, ai paragrafi 1.2.3, 1.3.1 e 1.4, la concezione raffigurativa del linguaggio che l’autore del Tractatus fa propria, e che mette al centro della sua filosofia degli usi legittimi e illegittimi delle parole, comporta che vi sia la medesima molteplicità nell’immagine e in ciò che l’immagine rappresenta. Wittgenstein stesso è del tutto esplicito in proposito: l’immagine è un nesso di elementi la cui configurazione gli uni rispetto agli altri corrisponde all’insieme di relazioni che intercorrono tra gli elementi del fatto raffigurato. Dunque «nella proposizione dev’essere differenziato esattamente tanto quanto è differenziato nello stato di cose che essa rappresenta. Entrambi devono possedere la stessa molteplicità logica (matematica)» (cfr. TLP 4.04). I nomi sono semplici segnaposto degli oggetti, e «la proposizione elementare consiste di nomi. Essa è una connessione, una concatenazione di nomi» (TLP 4.22); i concetti non hanno niente di sintetico, e l’immagine del mondo che potenzialmente risulta da una descrizione scientifica completa della totalità dei fatti non fa emergere alcunché di saliente, bensì semplicemente rispecchia nel proprio ordine l’ordine reale; la proposizione non riduce la molteplicità dei fatti, dandole un senso unitario, bensì ha senso nell’esatta misura in cui non aggiunge né toglie nulla a quella molteplicità e, al contrario, la riproduce puntualmente. Il soggetto non è un principio unificatore, se non nel senso che vi è un solo linguaggio e un solo mondo.

Sulla base di una concezione del linguaggio come gioco, tale per cui il criterio della sensatezza nell’impiego delle parole consiste nella conformità o difformità dei gesti linguistici a un insieme di regole che non possono determinarsi che nell’uso stesso, la situazione muta completamente. Il fatto che un certo comportamento sia regolare, anche nel caso in cui non abbiamo né dubbi né esitazioni nel considerarlo tale, non può mai voler dire che non possa darsi un gesto di cui non sapremmo dire se sia, rispetto a una certa regola, conforme o difforme. L’espressione della regola è necessariamente, intrinsecamente sottodeterminata rispetto alle applicazioni possibili della regola stessa: in altri termini, la prescrizione obbedire alla quale vorrebbe dire seguire la regola (sia essa una freccia, l’ordine di proseguire una serie numerica, la richiesta «portami una mela») non contiene mai abbastanza informazioni da permettere di decidere con certezza in ogni caso effettivo come applicarla, perché se fosse così per applicare una regola qualsiasi ci vorrebbe una regola ulteriore che determina come applicarla, e per questa un’altra ancora, e così via ad infinitum, e allora non si potrebbe affatto applicare alcuna regola (cfr. PU 86 e limitrofe). Del resto se nella formulazione sinottica della regola fosse già implicito tutto quello che le applicazioni possono rendere esplicito non vi sarebbe alcuna differenza tra dire «mela» e indicare la totalità delle mele passate, presenti e future, reali o immaginarie. E questo renderebbe evidentemente inutile la parola «mela».

La formulazione di una regola è sempre «troppo semplice per non essere ambigua»:52 c’è sempre più di una classe di gesti che possiamo effettuare ritenendo a buon diritto di muoverci nel rispetto di una data regola (cfr. PU 185-186). Per ogni nuova applicazione della regola è necessaria una decisione. Questo non significa che non vi siano casi in cui tale decisione è talmente ovvia, l’applicazione della regola talmente immediata, da far apparire improprio l’uso del termine stesso «decisione» (cfr. PU 219). Nei casi ordinari, non esitiamo affatto quando chiamiamo qualcosa «mano»: qui nel nostro chiamare qualcosa «mano» non è implicito né un ragionamento, né un’interpretazione. In casi eccezionali, possiamo però tentennare: le estremità degli arti superiori delle scimmie sono mani o zampe? e quelle inferiori? Ma i casi in cui seguire la regola ci pare del tutto «naturale» non sono tali perché più vicini a un paradigma che deve la sua paradigmaticità a caratteristiche proprie che gli ineriscono per sé.53 Al contrario il paradigma della regola (in questo caso, la mano umana, viva, sana, in carne e ossa) si determina come tale proprio negli usi più ciechi, più irriflessi, e il caso marginale (la «mano» di un orango) si determina come tale proprio in rapporto a tale paradigma. Ma la possibilità di scelta che è esplicita nei casi periferici (posso davvero decidere se chiamare «mani» o «zampe» le appendici delle scimmie, con l’unico vincolo di comportarmi poi di conseguenza) è implicita anche nei casi esemplari (se dopo centomila occorrenze sicure del termine «mano» qualcuno negasse che io abbia due mani potrei ritenerlo fuori di senno, ma non avrei argomenti per convincerlo che si sbaglia). E come abbiamo visto ormai più di una volta il rapporto tra il letto e il flusso del fiume, tra l’asse di un corpo rotante e le sue parti in movimento, può cambiare. Qui «decisione» vuol dire solamente che nel seguire una regola bisogna riempire un’indeterminazione. Il nostro margine di libertà (potremmo parlare di «gioco» nel senso in cui il termine viene usato per dire che due parti meccaniche non vincolano completamente il movimento l’una dell’altra: cfr. TLP 4.463) è dovuto al fatto banalissimo, ed enormemente importante, che nessuna formulazione di una regola contiene tutto ciò che servirebbe per determinare ogni sua singola applicazione corretta.

Se ho potuto assimilare il seguire una regola all’eseguire un’induzione, è perché di entrambi è caratteristico che sia determinato a valle più di quanto era determinato a monte. Entrambi, in breve, sono operazioni sintetiche. E per questo la sottodeterminazione delle regole, che è un tratto essenziale del linguaggio secondo la concezione del secondo Wittgenstein, è così importante: l’uso di una parola è l’applicazione di un concetto. In quanto determinata per la sua sensatezza o insensatezza da un criterio grammaticale che, in quanto ha la forma di una regola, non contiene già la decisione di tutte le sue istanziazioni, la mossa del gioco linguistico in cui si dice di qualcosa che è qualcos’altro – il giudicare – è una semplificazione del complesso, l’unificazione di un molteplice. E, data l’immanenza, su cui ho parecchio insistito, della regola all’uso, non vi è più un dualismo di molteplicità (empirica) e unità (concettuale): c’è solo, nel nostro parlare, uno stabilire e un riscontrare – prescrivere e descrivere, senza che una delle due cose possa andare del tutto disgiunta dall’altra – identità e differenze.

Il principio trascendentale della soggettività è un principio sintetico: il mondo che è per noi non è solo, com’era anche in base al Tractatus, un mondo solo, dal momento che si definisce precisamente come ciò che è per noi e noi, il nostro linguaggio, siamo unitari (se vi fosse un linguaggio che non fosse il nostro linguaggio, non lo comprenderemmo, e non sarebbe quindi un linguaggio); il mondo che è per noi è ora anche un mondo ordinato, nel quale la mappa non è tanto dettagliata quanto il mappato (e quindi, in definitiva, inutile), bensì tale per cui al suo interno emergono certi aspetti sullo sfondo di altri. È un mondo non frammentario. Le nostre proposizioni non sono una riproduzione equinumerosa di una molteplicità data: in esse si apre lo spazio per una comprensione.

Il linguaggio di cui Wittgenstein parla è un linguaggio sintetico. Il pensiero che con tale linguaggio fa, praticamente, tutt’uno è un pensiero sintetico. Ogni giudizio su come le cose sono o possono essere, come ogni norma su come devono essere, vive in una dialettica indefinitamente aperta di unità e molteplicità. Ogni nostra parola o proposizione vive nella mutua influenza tra il suo valore come qualcosa che può piegarsi al sistema di usi in cui vuole trovare posto e il suo valore come qualcosa a cui il sistema può adattarsi per accoglierla. Il linguaggio è un insieme di attività regolari, e nessuna regola può trovare una formulazione compatta che determini tutte le sue applicazioni: né un battesimo ostensivo, né una tabella di corrispondenze, né una definizione possono prevenire ogni fraintendimento, e questa impossibilità è un’impossibilità essenziale nella misura in cui un tratto del genere appartiene alla grammatica di ciò che chiamiamo «regola». Dire che una regola può sempre essere fraintesa è lo stesso che dire che può sempre applicarsi anche in casi non previsti, e una regola che può applicarsi solo nei casi previsti non è una regola, ma un elenco di casi, non l’unità di una molteplicità, ma una molteplicità pura e in ultima analisi informe. Se non vi fosse nel concetto un po’ meno che nelle sue applicazioni, non vi sarebbe neanche niente di più.

Rispetto a quella del Tractatus, dunque, la concezione della scienza che emerge dalle Ricerche filosofiche e da Della certezza differisce in questo: che la scienza non riproduce la complessità dei fatti per mezzo delle proposizioni che li raffigurano, ma la riduce, tramite descrizioni il cui difetto di dettaglio è un guadagno in comprensività. Diversamente da quella che nel Tractatus veniva chiamata «immagine completa del mondo», queste possono essere chiamate «teorie».

Ciò che mi premeva, quanto a Wittgenstein, era questo. C’è tuttavia un ultimo punto che vorrei toccare prima di concludere, che ha a che fare con la compatibilità rispetto alle elaborazioni wittgensteiniane della nozione di «sinteticità a priori» che si trova in Kant. È una questione importante perché tale nozione svolge un ruolo cruciale nella definizione del progetto della filosofia trascendentale per come esso si configura nella Critica della ragion pura e nei Prolegomeni a ogni futura metafisica, mentre finora non ha svolto assolutamente alcun ruolo nella mia argomentazione in favore della liceità e del valore di una lettura in chiave trascendentale di Wittgenstein. La questione è allora: è possibile separare un’impostazione filosofica di carattere trascendentale dal presupposto che vi siano giudizi sintetici a priori e dalla ricerca intorno alle loro condizioni di possibilità?54

Nei Prolegomeni, che mi sembrano ancor più rappresentativi rispetto alla Critica di ciò che è essenziale nell’approccio trascendentale di Kant al problema della conoscenza, il ragionamento procede secondo questo sviluppo (cfr. P 294 e segg.): una conoscenza scientifica della natura, tale da permetterci ad esempio di asserire con piena oggettività che un dato accadimento è causa di un altro, presuppone una scienza pura della natura, tale da permetterci di asserire, in base allo stesso esempio, che in generale niente avviene senza una causa; che niente avvenga senza una causa non è evidentemente un giudizio analitico (nel senso che non è puramente «esplicativo») ma non può essere nemmeno un giudizio sintetico («estensivo») a posteriori, basato per generalizzazione su una collezione finita di esperienze date, perché altrimenti non potremmo attribuirgli la necessità che, insieme all’universalità, deve appartenergli affinché possa essere oggettivo, e insomma scientifico; dunque dev’essere un giudizio sintetico a priori, un giudizio cioè sia dotato di contenuto, sia necessario; come allora è possibile un giudizio sintetico a priori? Un giudizio sintetico a priori è un giudizio sintetico che noi conosciamo a priori. Secondo Kant, qualcosa del genere è possibile perché i concetti su cui tali giudizi si basano noi non li traiamo dall’esperienza, ma li usiamo per darle ordine: «Un concetto puro dell’intelletto, a priori, […] non fa altro che determinare in generale, in una intuizione, il modo in cui essa possa servire a dei giudizi» (P 300); quindi l’applicazione di un concetto puro dell’intelletto in un giudizio sintetico non richiede altra legittimazione se non quella che le è fornita dal fatto di rendere possibile la scienza che in effetti è data, e quindi un giudizio sintetico di questo tipo è per noi oggetto di conoscenza a priori perché con esso l’intelletto non trae dalla natura alcuna informazione, ma le prescrive le proprie leggi. Scrive Kant: «Giudizi, che siano considerati semplicemente come la condizione della unione di date rappresentazioni in una coscienza, sono regole. Queste regole, in quanto rappresentano l’unione come necessaria, sono regole a priori, e in quanto al di là di esse non ve ne sono altre da cui esse sian tratte, sono princìpi. Or siccome riguardo alla possibilità di ogni esperienza, quando vi si consideri soltanto la forma del pensare, non vi sono condizioni di giudizi di esperienza oltre quella che subordina i fenomeni, secondo la varia forma della loro intuizione, ai concetti intellettivi puri, i quali rendono il giudizio empirico oggettivamente valido, così son questi i princìpi a priori della esperienza possibile. Ora i princìpi della esperienza possibile sono nel tempo stesso leggi universali della natura che possono essere conosciute a priori» (P 305-306).

Il punto di vista di Wittgenstein, al di là dell’abbandono del dualismo che è implicito o esplicito nella presentazione kantiana del modo in cui sensibilità e intelletto concorrerebbero a dar luogo a una vera e propria esperienza, è molto simile a questo. Vorrei dire, concedendomi una piccola licenza, che Kant si avvicina molto a Wittgenstein nel parlare di «regole» con riferimento ai giudizi che sono condizione della sintesi delle rappresentazioni. Diviene così chiaro che la tesi di Kant circa la possibilità dei giudizi sintetici a priori è, in breve, questa: una regola è sintetica, perché consente l’unione di più rappresentazioni sotto un concetto comune, ma è anche nota a noi a priori, perché è la condizione delle descrizioni anziché essere essa stessa una descrizione basata sull’esperienza. Tale è precisamente il caso di «nulla avviene senza una causa» (cfr. P 295). Ciò su cui però, credo, Wittgenstein avrebbe da obiettare è che l’espressione di una regola, un giudizio con cui noi prescriviamo qualcosa anziché descrivere qualcosa, e che come tale si potrebbe tranquillamente caratterizzare come a priori (cfr. UW p. 12), non è per noi oggetto di conoscenza. Non vi sono giudizi sintetici che noi conosciamo a priori: vi sono giudizi sintetici, che come tali sono descrizioni, e come tali sono a posteriori, e vi sono giudizi analitici, che come tali sono prescrizioni, e come tali sono a priori. Che qualcosa sia noto, conosciuto, implica il suo essere a posteriori; che qualcosa sia a priori implica il suo avere un valore normativo, il suo fungere come un’istruzione. Kant confonde il fatto che la regola sia condizione della sintesi con il suo essere sintetica, oppure il suo essere prescrittiva con il fatto di esserci nota a priori.

Per Wittgenstein la possibilità della conoscenza non dipende dalla possibilità di giudizi sintetici a priori: essa dipende dalla nostra capacità di seguire le regole grammaticali del nostro linguaggio, ma nel seguire una regola non v’è niente che permetta di parlare di giudizi sintetici a priori. Può sembrare che il fatto che nel seguire una regola si debba, a ogni nuova applicazione, compensare un’indeterminazione per mezzo di una scelta significhi che, in quanto meno determinata a monte che a valle, l’operazione è sintetica, e che al contempo il fatto che la spontaneità del soggetto55 decida inappellabilmente, o almeno al di là delle argomentazioni possibili, per il sì o per il no, significhi che essa è a priori. Questo è rilevante perché svela un’equivocità del termine «sintetico» per come l’ho usato in questo paragrafo: dire che un linguaggio concepito come prassi regolare è un linguaggio sintetico significa che i termini sono il risultato mai definitivo di un conflitto tra la loro intensione e la loro estensione, e che insomma la logica è una coperta corta, e questo è importante perché dà luogo a una concezione delle teorie scientifiche come rappresentazioni condensate assai diversa (e, credo, assai più interessante e feconda) rispetto alla concezione delle descrizioni scientifiche come rappresentazioni equinumerose tipica del Tractatus; ma ciò non ha niente a che fare con la distinzione dei giudizi tra sintetici e analitici (distinzione che, per inciso, era operativa anche nel Tractatus). «Qui c’è una mano» può essere una prescrizione o una descrizione, ora una proposizione logica e ora una proposizione empirica, ma non le due cose insieme: nel primo caso sarà l’istituzione di una regola, la fissazione di un paletto la cui stabilità condizionerà il movimento di altre cose fino a che non decideremo di svellerlo, e cioè sarà analitica, necessaria, nella misura in cui assume un ruolo tale per cui la sua fondatezza non è in questione; nel secondo caso sarà l’applicazione di una regola, l’accomodarsi di qualcosa sulla base di qualcos’altro, e cioè sarà sintetica, contingente, nella misura in cui a seconda che sia meglio o peggio giustificata potrà resistere o meno a tentativi di confutazione.

Il risultato di questa equivocità è che non si può parlare, in Wittgenstein, di giudizi sintetici a priori. Se si può dire che il seguire una regola è un’operazione sintetica a priori, nella misura in cui fornisce una determinazione non già contenuta in qualcosa di dato in precedenza e nella misura in cui tale determinazione non è oggetto di dispute possibili, ma solo di possibili decisioni (di abbracciarla o di respingerla), ciò segna già una certa distanza dal precedente kantiano, e in realtà non mi sembra aggiungere granché, dal punto di vista speculativo, a ciò che abbiamo detto finora. Non stiamo infatti sostenendo che il seguire una regola dipende da un’operazione sintetica a priori, ma che consiste in un’operazione del genere, e insomma ciò che resta inspiegabile in quanto condizione di ogni spiegazione è, come da principio, il seguire una regola stesso. È tuttavia possibile che, con tutto ciò, abbiamo guadagnato qualcosa in termini di chiarezza.

Resta solamente da rispondere alla domanda: il ruolo dei giudizi sintetici a priori in Kant è davvero tale da far sì che lasciarseli alle spalle equivalga a lasciarsi alle spalle la stessa filosofia trascendentale? Credo di aver già mostrato una via percorribile verso la risposta «no». Kant si chiede come sia possibile una conoscenza oggettiva, scientifica, i cui giudizi cioè hanno validità universale e necessaria, e osserva che se tali giudizi non devono né essere mere tautologie, né constatazioni che in quanto basate sulla sola percezione sono l’anticamera dello scetticismo humeano, allora devono esservi giudizi sintetici a priori, ed è di questi che dobbiamo rendere chiara la possibilità. Wittgenstein si pone la stessa domanda circa le condizioni che rendono possibile una conoscenza oggettiva, scientifica, ma l’universalità che egli ha di mira non si spinge oltre il requisito dell’accessibilità intersoggettiva delle proposizioni in quanto sensate, e la necessità che pertiene ai nostri giudizi in quanto veri non può essere, a suo avviso, più solida di quanto lo è una giustificazione in seno a un sistema di usi linguistici all’interno del quale ciò che si riteneva vero può rivelarsi falso sulla base di argomenti nuovi, e anche gli stessi criteri della verità e della falsità, ossia le regole dell’argomentazione, non sono affatto immutabili. Il fatto che egli, come, in fondo, anche Kant, trovi le condizioni di possibilità della conoscenza scientifica nell’insieme di regole fondanti e infondate del gioco linguistico, in un insieme di principi che non possono essere spiegati o giustificati perché sono presupposti da ogni spiegazione e da ogni giustificazione, e che non possono essere trascesi senza cadere nella metafisica dogmatica o nello scetticismo, nel rumore o nel silenzio, che valgono lo stesso, cioè niente, questo è quanto basta per dire di Wittgenstein che egli è, come Kant, un filosofo trascendentale. Le proposizioni sintetiche a priori sono una parte della dottrina kantiana del giudizio che a Wittgenstein è estranea, ma che a Kant serve tuttalpiù per garantire a certi giudizi un carattere di intangibilità e immutabilità che nessun giudizio, secondo Wittgenstein, possiede, e che quindi può essere abbandonata senza cedere di un passo sul caposaldo della prospettiva trascendentale: ciò che dev’essere è ciò che la nostra grammatica concettuale ci impedisce di negare sensatamente, e i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo.

  1. B. Russell, “Introduzione”, in L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, tr. it e cura di A.G. Conte, Einaudi, Torino 2009, p. 17.
  2. Nelle pagine del libro di Ray Monk sulla vita di Wittgenstein le vicende di questo periodo sono tratteggiate con precisione, insieme alle loro implicazioni filosofiche ipotizzabili. Cfr. R. Monk, Ludwig Wittgenstein. The Duty of Genius, cit., parte III, pp. 255-428.
  3. Ho rimosso dalla traduzione italiana una virgola che, credo, rischiava unicamente di creare confusione.
  4. La Prefazione di Wittgenstein insiste su questo punto, spiegandone anche, in una certa misura, le ragioni.
  5. L’ha fatto A.R. White con The Language of Imagination, Blackwell, Oxford 1990.
  6. «Denk nicht, sondern schau!». Ho modificato la traduzione per restituire il senso in modo più diretto.
  7. Non si può non essere colpiti dal modo in cui la scelta da parte di Wittgenstein di parlare a questo proposito, benché non sistematicamente, di «essenze» (cfr. di nuovo PU 371) avvicina il suo progetto filosofico a quello di Husserl.
  8. Cfr. anche ÜG 467: «Siedo in giardino con un filosofo. Quello dice ripetute volte: “Io so che questo è un albero”, e così dicendo indica un albero nelle nostre vicinanze. Poi qualcuno arriva e sente queste parole, e io gli dico: “Quest’uomo non è pazzo, stiamo solo facendo filosofia”». Chi afferma ovvietà ci sembra pazzo, ma la filosofia non consiste nell’affermare ovvietà, bensì nell’affermare qualcosa a proposito di quelle dovrebbero essere ovvietà (cioè sulle regole della nostra grammatica) e che tuttavia non lo sono fino in fondo (a causa dei conflitti tra le diverse regole del nostro complicatissimo uso) per restituirle alla loro piena chiarezza, che è la loro piena vuotezza.
  9. J. Letourneur, “Pertinence, légitimité, justesse : Goldfarb et la critique de la fixité”, in A. Moreno e A. Soulez (a cura di), Grammatical ou transcendantal ?, cit., pp. 153-154, fa valere la differenza tecnica tra un precipitato e una sedimentazione per argomentare, in modo a mio avviso convincente, che non si dovrebbe cercare nelle proposizioni delle Ricerche filosofiche una stratificazione cronologica o una scansione tematica rigida.
  10. G. Kahane, E. Kanterian e O. Kuusela, “Introduction”, in G. Kahane, E. Kanterian, O. Kuusela (a cura di), Wittgenstein and His Interpreters, cit., pp. 24-25, offrono una panoramica delle interpretazioni di cui è stata oggetto la presenza di più «voci» nelle Ricerche filosofiche, tra cui quelle di Stanley Cavell, di David Stern, di Alois Pichler, e forniscono rimandi bibliografici ulteriori.
  11. Può essere vero che pochissime delle proposizioni contenute nei testi tardi di Wittgenstein sono giudizi nei quali egli esprime direttamente la propria concezione del linguaggio. Tuttavia un filosofo può ben scegliere di non presentare le proprie tesi nella forma letteraria del trattato, il cui campione e capostipite può forse essere identificato in Aristotele. Si può ad esempio, al contrario, lasciar emergere le proprie teorie dal processo euristico nel quale si sviluppano, senza per questo che esse siano meno sensate o meno impegnative dal punto di vista dell’affermazione di qualcosa di vero. L’esempio più illustre ne è evidentemente Platone, la cui dottrina non viene asserita in alcuno dei testi che ci sono pervenuti, ma traspare nel gioco dialogico in cui essi consistono. Cfr. F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 2009, pp. 16-19.
  12. Cfr. G.E. Moore, Proof of an External World e A Defence of Common Sense, in Id., Selected Writings, a cura di T. Baldwin, Routledge, Londra 1993, pp. 106-133, 147-170.
  13. Il testo più rilevante in cui è avanzata questa proposta è probabilmente Danièle Moyal-Sharrock (a cura di), The Third Wittgenstein. The Post-Investigations Works, Ashgate, Londra 2004. Per una voce critica nei confronti di tale approccio storiografico cfr. N. Venturinha, “Against the Idea of a ‘Third’ Wittgenstein”, in Papers of the 30th International Wittgenstein Symposium 5-11 August 2007. Philosophie der Informationsgesellschaft – Philosophy of the Information Society, a cura di H. Hrachovec, A. Pichler, J. Wang, ALWS, Kirchberg am Wechsel 2007, pp. 231-233.
  14. In favore dell’unità dei testi wittgensteiniani post-Tractatus, N. Venturinha, “Against the Idea of a ‘Third’ Wittgenstein”, cit., p. 232, adduce anche considerazioni filologiche che mostrano, per esempio, come alcune intuizioni caratteristiche di Della certezza sono già presenti nelle note del 1937-1938 pubblicate postume col titolo Causa ed effetto, o come Wittgenstein continuò a lavorare per mettere a punto le Ricerche filosofiche in vista della pubblicazione fino a poco prima della sua morte. I testi che ho qui elencato dunque andrebbero considerati non come una successione lineare di opere autonome, ma come un insieme di pensieri che si comprendono tanto meglio quanto più vengono avvicinati gli uni agli altri.
  15. Cfr. G.E. Moore, Proof of an External World, cit., p. 166 (tr. it. mia).
  16. Ibid. (tr. it. mia).
  17. Cfr. in proposito le interessanti considerazioni di P. Spinicci, Lezioni sulle “Ricerche filosofiche” di Ludwig Wittgenstein, cit., pp. 260-262.
  18. Cfr. ÜG 257: «Se un tizio mi dicesse che dubita di avere un corpo, lo riterrei pazzo. Però, non saprei che cosa voglia dire: convincerlo che ha un corpo. E se gli avessi detto qualcosa, e se quello che gli ho detto avesse tolto di mezzo il suo dubbio, io non saprei come e perché l’ha fatto». Cfr. anche supra, nota 73 e il già citato passo ÜG 467.
  19. Cfr. anche ÜG 243 «“Io so…” si dice quando si è pronti a dare ragioni cogenti. “Io so” si riferisce a una possibilità di provare la verità. Se un tizio sappia qualcosa, può mostrarsi, posto che quello ne sia convinto. Se però quello che crede è d’una specie tale che le ragioni che può darne non sono più sicure della sua asserzione, allora non può dire di sapere quello che crede».
  20. Cfr. le considerazioni sulla «completezza del gioco» di P. Spinicci, Lezioni sulle “Ricerche filosofiche” di Ludwig Wittgenstein, cit., p. 41 e segg.
  21. Cfr. ivi, pp. 185-186: «Usare una regola significa crearla passo dopo passo […]. Dire che la comprensione di una regola non implica che sia stata abbracciata, sia pur solo idealmente, la totalità delle applicazioni possibili, vuol dire allora rammentare che nessuna regola può racchiudere, come un’accidentalità già contemplata, il caso particolare cui debbo cercare ora di applicarla e quindi anche il modo in cui debbo ora concretamente comportarmi. La regola che permette questo gioco linguistico e che da questi esempi traggo non contiene in sé, come un’individualità già permeata dalla sua appartenenza al concetto, questo caso specifico. Qui, in un certo senso, sono chiamato ad una nuova intuizione della regola, ad una nuova comprensione del suo senso. O più precisamente, sono chiamato a decidere che cosa voglia dire, in questo caso, fare ciò che la regola chiede, poiché non è affatto detto che abbia argomenti per motivare la mia scelta». Per una discussione approfondita di questa tematica importante, alla quale io qui non posso dedicarmi approfonditamente, cfr. ivi, pp. 150-209.
  22. Il primo caso sembra potersi dare in quel laboratorio del pensiero che è la matematica, dove ad esempio si può pensare di negare il quinto postulato di Euclide, anche senza bisogno di buone ragioni per farlo, allo scopo di vedere che gioco risulta da una simile modifica delle regole (anche se lo sviluppo storico reale, da Saccheri a Riemann, fu assai meno lineare di così). Il secondo è più tipico della scienza, intrecciata come sempre è alla vita umana, e trova un’esemplificazione nel modo in cui l’idea di una natura non isotropa dello spazio, che non aveva certo la forma di un’osservazione, e anzi costituiva uno dei punti fermi della grammatica della fisica e della metafisica aristotelica, cominciò a essere giocata sul piano empirico, dove quelle che erano effettivamente osservazioni sperimentali (cioè per esempio i dati raccolti da Tycho Brahe e da Galileo Galilei) potevano contraddirla, e quindi finì per essere abbandonata in favore della nozione newtoniana di spazio, poi a sua volta grammaticalizzata.
  23. Qui e nel prosieguo del discorso non potrò evitare una certa oscillazione terminologica: nel titolo di questo capitolo scrivo che il «linguaggio» è la condizione di possibilità della conoscenza, mentre ora dico la stessa cosa della «grammatica». Ma il linguaggio e la grammatica non sono la stessa cosa: una grammatica si compone delle proposizioni che in un linguaggio, che le comprende e che comprende anche un gran numero di proposizioni empiriche, vengono tenute ferme come punto d’appoggio per la valutazione e per la variazione delle altre. L’oscillazione nel qualificare come condizioni di possibilità della conoscenza ora la grammatica, ora il linguaggio è, dicevo, inevitabile perché grammatica e linguaggio sono inseparabili, e nessuno dei due può sussistere senza l’altro. Le regole si determinano come tali, e quindi anche come ciò che è presupposto da ogni giudizio che conti come conoscenza (di cui sono quindi condizioni di possibilità) solo all’interno di un linguaggio di cui fanno parte anche proposizioni empiriche, e precisamente in relazione a queste. Quindi propriamente la condizione di possibilità della conoscenza è la grammatica in quanto è la regolarità di un uso concreto, ed è il linguaggio in quanto è un uso conforme a regolarità irriducibili.
  24. In questo senso per esempio è illegittima la generalizzazione con cui Cartesio proponeva a suo tempo di passare dal dubbio circa l’attendibilità di una sensazione a una diffidenza indiscriminata verso le sensazioni in generale (cfr. R. Descartes, Discorso sul metodo, a cura di G. Gori, BUR, Milano 2010, pp. 77-79): è sempre solo perché ci fidiamo di alcune sensazioni (e per esempio siamo convinti che la matita che abbiamo appena toccato sia rigida) che possiamo dubitare di altre (e dunque diffidare dell’apparenza di flessibilità che la matita assume quando qualcuno la agita in un certo modo davanti ai nostri occhi).
  25. Cfr. quanto afferma Jonathan Lear in J. Lear e B. Stroud, “The Disappearing ‘We’”, in Proceedings of the Aristotelian Society, vol. suppl. 58, 1984, p. 230: «[Wittgenstein’s] inquiry is broadly transcendental: we find ourselves as speakers and understanders of language that is used both as a means of thought and of communication, and ask “what must be the case for this to be possible?”».
  26. Un pregnante parallelo tra Wittgenstein e Kant è tracciato, con sorprendente noncuranza, in J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna, tr. it. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 2008, p. 73: il «discorso scientifico», afferma l’autore richiamandosi esplicitamente a Wittgenstein, «è un gioco linguistico dotato di proprie regole (le condizioni a priori della conoscenza in Kant ne sono un primo accenno)».
  27. Cfr. P 318: «[…] come sia possibile questa stessa speciale proprietà [sintetica e schematizzante] della nostra sensitività o quella del nostro intelletto e della appercezione necessaria che sta a fondamento di questo e di ogni pensiero, è quistione a cui non si può più dare soluzione né risposta: perché per ogni risposta e per ogni pensiero degli oggetti, abbiam sempre di nuovo bisogno di ricorrere a quella proprietà stessa».
  28. Cfr. M. Ouelbani, “Le sens comme respect des règles logiques et/ou grammaticales”, in A. Moreno e A. Soulez (a cura di), Grammatical ou transcendantal ?, cit., pp. 129-145.
  29. Cfr. A. Moreno, “La description grammaticale et sa fonction transcendantale”, cit., pp. 58-63, 69-70.
  30. Kant è piuttosto unilaterale nella sua difesa della possibilità di un indice o inventario completo dei concetti: «Le categorie, collegate coi modi della sensibilità pura, o anche tra loro, dànno un grande numero di concetti a priori derivati Sarebbe una fatica utile e tutt’altro che spiacevole quella vòlta a rintracciarli, e se fosse possibile, ad elencarli in modo completo; ma qui se ne può fare a meno. […] Dal poco che ne ho finora detto, risulta tuttavia chiaramente che non solo è possibile, ma addirittura facile dare un dizionario completo di questi concetti, con tutte le spiegazioni richieste» (KrV B108-109). Ora la mia tesi, come ho avuto modo di chiarire già nell’Introduzione, non è che Wittgenstein sia un kantiano, ma che la sua filosofia possa essere interpretata in modo storicamente plausibile e filosoficamente fecondo come una filosofia trascendentale. È però interessante che uno dei punti su cui i neokantiani della scuola di Marburgo si scostavano dalla posizione di Kant stesso aveva a che fare precisamente con la possibilità di concepire i concetti, e le stesse categorie, come un insieme aperto, e non chiuso. Cfr. P. Natorp, “Kant e la scuola di Marburgo”, cit., pp. 127-128.
  31. Cfr. Zhang, Q. e X. Chen, “Wittgenstein’s Reconsideration of the Transcendental Problem – With Some Remarks on the Relation between Wittgenstein’s ‘Phenomenology’ and Husserl’s Phenomenology”, in Frontiers of Philosophy in China, vol. 3, n. 1, 2008, pp. 126-129.
  32. K.-O. Apel, “The Problem of Philosophical Fundamental-Grounding in Light of a Transcendental Pragmatics of Language”, tr. inglese di K.R. Pavlovic, in Man and World, vol. 8, n. 3, 1975, pp. 239-275 propone una soluzione al problema filosofico del fondamento della conoscenza, basata su una considerazione trascendentale dell’attività linguistica, alla quale mi sento molto vicino. Egli fa esplicitamente riferimento a Wittgenstein per le nozioni di «gioco linguistico» e di «forma di vita» e per la correlazione che esse consentono di stabilire tra la certezza e la conoscenza in termini di regole intersoggettive dell’argomentazione (cfr. ivi, p. 250). Apel arriva a parlare di «gioco linguistico trascendentale» (ivi, pp. 262, 267), ma attribuisce ai giochi linguistici e alle forme di vita di cui parla il secondo Wittgenstein una convenzionalità e una contingenza (cfr. ivi, pp. 267-268) che nelle intenzioni di costui, credo, non appartengono loro.
  33. Kant scrive (KrV B38, 46) che è possibile farsi una rappresentazione dello spazio vuoto e del tempo vuoto, ma non di un oggetto in assenza di spazio o in assenza di tempo; tuttavia lo spazio e il tempo sono a priori condizioni di possibilità dei fenomeni e solo in quanto tali si può averne una rappresentazione qualsiasi; quanto l’intuizione di un contenuto è possibile solo secondo lo spazio e il tempo, tanto è impossibile l’intuizione dello spazio e del tempo senza un contenuto almeno possibile.
  34. Così si esprime R. Egidi, “Pessimismo epistemologico e certezza”, in M. De Caro e E. Spinelli (a cura di), Scetticismo. Una vicenda filosofica, Carocci, Roma 2007, pp. 178-183. Ciò che è insoddisfacente nell’analisi di Egidi è che, dopo una ricostruzione molto precisa della distinzione wittgensteiniana tra la funzione normativa e quella empirica delle proposizioni, si pretende che la categoria del «fondamento», che non può essere impiegata con riferimento alle proposizioni grammaticali se la si declina come «fondamento epistemico», ammette tuttavia una declinazione come «fondamento pragmatico» che, secondo Egidi, si applica appropriatamente alle proposizioni grammaticali: «La certezza è epistemicamente infondata in quanto è pragmaticamente fondata» (ivi, p. 183). Ma un fondamento o è epistemico o non è un fondamento. La prassi non è, come vuole Egidi (cfr. ivi, p. 178), la garanzia delle nostre regole: la regolarità della prassi è la logica stessa. Tra prassi e certezza non c’è un rapporto come quello tra il fondamento e il fondato, ma un rapporto di semplice identità. Diventa così evidente anche in che senso la prassi deve essere regolare: se non lo è, semplicemente, cessa il gioco linguistico. Benché non si soffermi sul tema della giustificazione e del fondamento, ma solo su quello del significato in rapporto all’uso, mi sembra che l’etichettatura di Wittgenstein come pragmatista (e del pragmatismo come naturalismo) a opera di R. Haack, “Wittgenstein’s Pragmatism”, in American Philosophical Quarterly, vol. 19, n. 2, 1982, pp. 163-164, sia su posizioni analoghe a quelle di Egidi. Lo è invece sicuramente S. Laugier, “Langage, scepticisme et argument transcendantal”, in La querelle des arguments transcendantaux, cit., pp. 11-34 e in part. p. 17.
  35. A proposito dell’eventuale naturalismo di Wittgenstein, bisogna forse notare anche che lo stesso Hume, al quale egli a volte viene avvicinato (cfr. p.e. ivi, p. 164), non ritiene che la «natura umana» fornisca una giustificazione della nostra credenza, ad esempio, nella realtà delle connessioni causali, ma solo che essa renda impossibile il nostro dubbio a proposito di essa. La natura umana non è il fondamento delle nostre credenze, ma ciò che rende superfluo un fondamento che di per sé è impossibile. Cfr. p.e. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., pp. 90, 197, o Id., Dialoghi sulla religione naturale, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 125. Cfr. anche E. Lecaldano, “Hume, i limiti dello scetticismo e le radici del naturalismo”, in M. De Caro e E. Spinelli (a cura di), Scetticismo. Una vicenda filosofica, cit., pp. 111-113.
  36. Cfr. P. Hadot, Wittgenstein et les limites du langage, cit., p. 33: «Le langage est en quelque sorte à lui-même sa propre limite».
  37. Cfr. D. Hume, Trattato sulla natura umana, cit., pp. 91-95, 100-105.
  38. Una suggestione letteraria circa un mondo di questo tipo si trova nel racconto “Funes, o della memoria” di J.L. Borges, in Finzioni, tr. it. di F. Lucentini, Einaudi, Torino 2014, pp. 97-106. Un’elaborazione filosofica dello scenario della Weltvernichtung è fornita da Husserl in Idee, cit., § 49 pp. 120-123. In Borges si immagina un universo del tutto ordinario, la cui oggettività è solida dal punto di vista delle abituali vicende intersoggettive, nel quale vive una persona (che oggi forse immagineremmo affetta da una forma estrema di autismo) incapace di dimenticare alcunché, e cioè incapace di trascurare le differenze per far emergere le somiglianze, incapace di riconoscere unità nelle molteplicità, e dunque incapace di nominare gli oggetti e, in breve, di pensare. In Husserl, in modo quasi simmetrico, si immagina che sia il mondo a sciogliersi in una molteplicità indomabile nella quale non emergono più concordanze sufficienti a dar luogo alla posizione di cose, e che tuttavia la vita di coscienza, per ciò che vi è in essa di immanente (e cioè di essenziale a quanto appunto è coscienza) prosegua relativamente indisturbata. Ritengo che da una prospettiva wittgensteiniana sia più difficile separare soggetto e oggetto: se venisse meno la regolarità del mondo, ovviamente verrebbe meno anche la regolarità delle nostre azioni, che sono comunque parte del mondo; se venisse meno la regolarità delle nostre azioni, la regolarità del resto del mondo potrebbe indifferentemente proseguire o interrompersi a sua volta, ma sarebbe logicamente lo stesso, perché non ci sarebbe più alcuna logica e sul mondo non potremmo né affermare né negare alcunché.
  39. Cfr. la sintesi proposta da D.D. Hutto, “Was the Later Wittgenstein a Transcendental Idealist?”, in P. Coates e D.D. Hutto (a cura di), Current Issues in Idealism, Thoemmes Press, Bristol 1996, pp. 121, della tesi di B. Williams, “Wittgenstein and Idealism”, cit., secondo cui Wittgenstein può essere considerato un idealista trascendentale: «By this he roughly meant that Wittgenstein’s later position was idealistic to the extent that it disallowed the possibility of there being any independent reality that was not contaminated by our view things. And he thought it was transcendental in the sense that “our view of things” is not something that we can explain or can locate in the world».
  40. Benché con riferimento specifico alla filosofia della matematica del Wittgenstein maturo, Steve Gerrard scrive: «The history of philosophy can partially be characterized by what Hilary Putnam has called the recoil phenomenon: an oscillation between two extreme positions, with each camp reacting to the untenable part of the other, resulting, finally, in two untenable positions. […] On one side there are those who deny objectivity in all fields in all ways; there are only incommensurable narratives. On the other side are those who attempt to secure objective validity, but do so at the cost of clothing it in metaphysical mystery. […] Wittgenstein argued against both sides»; S. Gerrard, “A Philosophy of Mathematics Between Two Camps”, in The Cambridge Companion to Wittgenstein, a cura di H. Sluga e D. Stern, Cambridge University Press, 1996, p. 171. Commentando la posizione di Gerrard, ed estendendola a una considerazione complessiva della riflessione wittgensteiniana, John M. Wyles scrive: «The “devastating scrutiny” to which Wittgenstein subjected subjectivist and objectivist ideas alike smacks of Kant»; J.M. Weyls, “Wittgenstein: Transcendental Idealist?”, in Sorites: An International Electronic Magazine of Analytical Philosophy, n. 14, 2002, pp. 117-121.
  41. Queste considerazioni sono svolte con acume da D.D. Hutto, “Was the Later Wittgenstein a Transcendental Idealist?”, cit. Egli cita come caratteristica della posizione wittgensteiniana in proposito questa osservazione del Libro blu: «L’uomo del senso comune [è] tanto lontano dal realismo quanto dall’idealismo» (BBB p. 67, con una modifica della traduzione).
  42. Cfr. B. Williams, “Wittgenstein and Idealism”, cit., p. 82: «If the idea that the limits of my language mean the limits of my world can point to transcendental solipsism, then perhaps there is a form of transcendental idealism which is suggested, not indeed by the confused idea that the limits of each man’s language mean the limits of each man’s world, but by the idea that the limits of our language mean the limits of our world». Nel suo articolo egli sostiene, in modo per me del tutto condivisibile, che il passaggio dalla preminenza dell’Io nel Tractatus a quella del Noi nei testi tardi non comporta un abbandono dell’idealismo trascendentale, ma solo una sua riformulazione; soprattutto nella seconda sezione del suo articolo egli svolge in modo molto accurato le considerazioni che qui ripropongo.
  43. Ivi, p. 83 (tr. it. mia).
  44. Cfr. ciò che scrive a questo proposito Jonathan Lear in J. Lear e B. Stroud, “The Disappearing ‘We’”, cit., pp. 227-228: «Let us call any act of speaking or using a language with understanding a representation. This is not a mere play on words. Representations for Kant were (mental) acts. And, he argued, they were quasi-linguistic performances: one of the intended lessons of the Transcendental Deduction is that intuitive experience is conceptually saturated. Here I am asking that we append the term, by analogy, to explicitly linguistic performances».
  45. Cfr. A.W. Moore, “Wittgenstein and Transcendental Idealism”, cit., p. 191.
  46. Cfr. di nuovo E. Husserl, La crisi delle scienze europee, cit., pp. 205-212, per un approfondimento pertinente circa il rapporto tra costituito e costituente, tra soggetto empirico e trascendentale.
  47. Qui non posso offrire che un superficialissimo accenno alle conclusioni che Wittgenstein trae da un insieme di ragionamenti molto articolati. Per maggiori dettagli, cfr. P. Spinicci, Lezioni sulle “Ricerche filosofiche” di Ludwig Wittgenstein, cit., pp. 205-209, 231 e segg.
  48. J. Lear e B. Stroud, “The Disappearing ‘We’”, cit., p. 234 (tr. it. mia). A Jonathan Lear sono debitore per l’impostazione di queste riflessioni e delle seguenti.
  49. B. Williams, “Wittgenstein and Idealism”, cit., p. 84 (tr. it. mia).
  50. J. Lear e B. Stroud, “The Disappearing ‘We’”, cit., p. 234 (tr. it. mia).
  51. Cfr. ivi, pp. 233, 237-238.
  52. P. Spinicci, Lezioni sulle “Ricerche filosofiche” di Ludwig Wittgenstein, cit., p. 163.
  53. Cfr. ivi, pp. 182-192, le considerazioni dedicate alla distanza che separa Wittgenstein da qualunque modello platonico di metessi.
  54. Kant scrive: «Si può dire che l’intera filosofia trascendentale, che necessariamente precede ogni metafisica, non sia altro che la piena soluzione della quistione qui proposta» (P 279), ossia: «Come sono possibili proposizioni sintetiche a priori?» (P 276). Del resto altrove (cfr. p.e. KrV B25) egli caratterizza la filosofia trascendentale come indagine sulle condizioni di possibilità della conoscenza indipendentemente dal fatto che esse siano identificate con le condizioni di possibilità di proposizioni sintetiche a priori. Se potrò argomentare con successo che è possibile una filosofia trascendentale senza proposizioni sintetiche a priori ciò vorrà dire semplicemente che questa seconda maniera di intendere il termine «trascendentale» può essere considerata accettabile in generale, e che la prima ne è invece la declinazione specificamente kantiana. In effetti alcune delle argomentazioni contrarie all’interpretazione di Wittgenstein come filosofo trascendentale sono basate proprio sull’idea che la nozione di «sintetico a priori» dovrebbe essere la chiave di volta di ogni filosofia che possa chiamarsi «trascendentale», mentre in Wittgenstein si constata la sua completa latitanza. Cfr. p.e. quanto scrive, commentando J. Lear e B. Stroud, “The Disappearing ‘We’”, cit., J.M. Weyls, “Wittgenstein: Transcendental Idealist?”, cit., pp. 120-121: «Any substantive comparison [between Kant and Wittgenstein] must take into account whether, and the sense in which, Wittgenstein holds the synthetic a priori. Neither Lear nor Stroud address this issue squarely».
  55. Vale la pena di notare incidentalmente che se, nella rielaborazione tardo-wittgensteiniana della tematica del soggetto trascendentale, qualcosa si salva dell’attività (spontaneità) che Kant attribuiva all’intelletto in opposizione alla passività (ricettività) della sensibilità (cfr. KrV B74-75), essa, al di là del dualismo, si riduce a questo: che nel concetto c’è meno di quanto servirebbe per decidere von vornherein di tutti gli oggetti che possono o non possono cadere sotto di esso, che nella regola non sono già determinate tutte le sue applicazioni.