Viaggio sentimentale di Yorick (Laterza, 1920)/XL. L'hôtel in Parigi

XL. L'hôtel in Parigi

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Laurence Sterne - Viaggio sentimentale di Yorick (1768)
Traduzione dall'inglese di Ugo Foscolo (1813)
XL. L'hôtel in Parigi
XXXIX. Il passaporto XLI. Il carcerato
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XL

IL PASSAPORTO

L’HÔTEL IN PARIGI

Ma non mi dava il cuore di martoriare l’anima di La Fleur; e però, anziché mostrarmi affannato del mio pericolo, me lo pigliai con disinvoltura: e, per fargli vedere che non mi dava gran che da pensare, tagliai il discorso, e, mentr’ei servivami a cena, io piú piacevolmente del solito chiacchierava e di Parigi e dell ’ Opéra comique. La Fleur v’era stato egli pure, e m’aveva tenuto dietro sino alla bottega del libraio: ma, vedendomi uscire con la giovine fille-de-chambre, e andarcene di compagnia lungo il quai de Conti, gli parve che non importasse di scortarmi un passo piú in là; e, ruminando certe sue riflessioni, prese la scorciatoia, e giunse all’hôtel in tempo da risapere, innanzi ch’io v’arrivassi, la faccenda della police.

Appena quella onesta creatura ebbe sparecchiato e discese a cenare, io mi posi a consigliarmi da senno intorno a’ miei casi. [p. 83 modifica]

Or ti vedo, Eugenio; e tu ghigni, e ripensi al mio breve dialogo teco, quand’io stava lí per partire, e mi giova di riferirlo.

Eugenio, sapendo ch’io non soglio gran fatto patire di strabondanza di danaro e di giudizio, mi chiamò in disparte perch’io lo informassi di che somma mi fossi fornito. Gliel dissi appuntino. Crollò il capo. — Non basta — mi risposagli, e si trasse la borsa per votarla dentro la mia.

— N’ho abbastanza in coscienza, Eugenio — diss’io.

— Credetemi, Yorick, sono pratico della Francia e dell’Italia assai piú di voi — tornò a dire Eugenio: — non basta.

— Ma voi non considerate, Eugenio — risposi ringraziandolo dell’esibizione, — che non mi starò tre giorni in Parigi, e che non m’ingegni di dire o di fare tra bene e male in guisa che io mi trovi custodito nella Bastille, dove almen per due mesi il re di Francia mi farà tutte le spese?

— Scusatemi — disse Eugenio tra’ denti: — infatti io non aveva posto mente a questo sussidio. —

Il caso, ch’io aveva invitato da burla, picchiò al mio uscio davvero.

Or fu egli forse pazzia? spensieratezza? filosofia? pervicacia? che fu egli mai, per cui quando La Fleur mi lasciò solo co’ miei pensieri, non v’era verso che potessi darmi ad intendere ch’io non doveva pensare come io aveva parlato ad Eugenio?

— E quanto alla Bastille! il terrore sta nel vocabolo. Datti anche per disperato — diss’io — la «Bastille» non è se non un vocabolo invece di «torre»; e «torre», un altro invece di «casa donde non hai forza d’uscire». Miserere de’ podagrosi! ci sono due volte l’anno; ma, con nove lire al giorno, carta, penna, calamaio e pazienza, tu puoi ben anche a uscio chiuso passartela ragionevolmente, non foss’altro, per un mese, un mese e mezzo; dopo di che, se tu se’ un uomo dabbene, l’innocenza trionfa; e se entrasti buono e savio, n’esci migliore e savissimo. —

Fatti ch’ebbi questi conti, m’occorse di andare (né mi ricordo perché) nel cortile: so bensí ch’io scendeva per quella scala gloriandomi del vigore del mio raziocinio. — Pèra il tetro [p. 84 modifica] pennello! — diceva io baldanzoso — s’abbia chi vuole, ch’io non l’invidio, l’abilità di dipingere i guai della vita con sí orribile e lugubre colorito: lo spirito si lascia sbigottire dalle cose ch’ei funesta e magnifica da per sé. Riducale alla tinta e alla forma lor naturale, e le guarderà appena. È vero! — dissi io, moderando la proposizione — la Bastille non è disgrazia da riderne; ma tranne quelle sue torri, appiana il fosso, togli le spranghe alle porte, chiamala solamente una «clausura», e poni che tu se’ prigione, non della tirannide, ma d’un’infermità: la disgrazia si dimezza, e tu tolleri in pace l’altra metà. —

Fui, nel fervore del soliloquio, interrotto da una voce che mi parve rammarichio di bambino, e dolevasi che non poteva uscir fuori. Guardai lungo l’andito: non vidi né uomo, né donna, né bambino; e non ci pensai piú che tanto.

Ritornando per l’andito, intesi dire e ridire le stesse parole, e, alzando gli occhi, vidi uno stornello in una gabbietta ivi appesa: — I can’ t get out, I can’ t get out — dicea lo stornello: — Non posso uscire, non posso uscire. —

E stetti a mirarlo; e verso chiunque andava e veniva, quel tapinello, dibattendo l’ali, accorreva, e tuttavia lamentando con le stesse parole la sua schiavitú. — I can’ t get out — dicea lo stornello. — Dio ti accompagni! — esclamai — perch’io ti farò uscire, e costi che può. — Andai attorno la gabbia a trovar lo sportello, ma era tortigliato e ritortigliato a tanti doppi di fil di ferro, che bisognava, ad aprirlo, mandare in pezzi la gabbia, e mi sono provato a due mani.

L’uccello svolazzò dove io m’industriava di liberarlo: sporgeva il capo tra que’ ferretti e premevali, come per impazienza, col petto. — Temo, povera creatura — gli dissi, — ch’io non potrò darti la tua libertà! — No — dicea lo stornello; — I can’t get out, I can’ t get out — dicea lo stornello.

Giuro che gli affetti miei non furono piú teneramente svegliati mai; né mai, né in veruno di quanti accidenti io mi ricordi nella mia vita, gli spiriti traviati, che abusavano della mia ragione, rientrarono con pentimento si volontario in se stessi. Per quanto quelle note fossero materiali, risuonava in esse, a [p. 85 modifica] ogni modo, tal accento di natura e di verità, che in un batter d’occhio disperse tutti i miei sistematici sillogismi su la Bastille. Io risaliva quasi a stento le scale, e fermandomi, per disdirmi d’ogni parola da me proferita scendendole.

— Tu puoi condirti a tua posta, o indolente servaggio! — io diceva — tu sei pur sempre un calice amaro, e, sebbene i mortali nascano di generazione in generazione a migliaia per tracannarti, tu non per tanto non sei men amaro. Te! te, o tre volte dolce e graziosa dea! te, o Libertà! invocano tutti con solenni e con domestiche supplicazioni. Te, che hai sapore gradito, e l’avrai finché natura non rinneghi se stessa; né orpello mai di parole potrà contaminare il tuo candido manto; né forza d’alchimia tramuterà in ferro il tuo scettro. Teco, e se tu gli sorridi, mentr’ei mangia il suo pane, il pastore è piú beato del suo monarca, dalla corte del quale tu se’ sbandita. Dio misericordioso! — esclamai, inginocchiandomi sul penultimo gradino salendo — dispensatore dell’universo! concedimi solamente la sanità: e lasciami per unica mia compagna quest’amabile dea! Piovano poi le tue mitre, se cosí parrà bene alla tua divina provvidenza, su quelle che si curvano di languore aspettandole. —

Note