Vera storia di due amanti infelici ovvero Ultime lettere di Iacopo Ortis (1912)/Lettera XXX

Lettera XXX

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LETTERA XXX

29 aprile.

L’anima mia è così piena dell’esistenza, che appena sente di esistere. Cosí, quand’io mi desto dopo un pacifico sonno, se il raggio del sole mi riflette sugli occhi, la mia vista si abbaglia e si perde in un torrente di luce.

Da gran tempo io mi lagno dell’inerzia in cui vivo. Al riaprirsi della primavera mi proponeva di studiar la botanica; e in pochi giorni aveva raccolte alcune centinaia di piante, che adesso non so piú dove esistano. Mi sono assai volte dimenticato il mio Linneo sopra i sedili del giardino o appiè di qualche albero: l’ho finalmente perduto. Ieri Michele me ne [p. 118 modifica] ha recato due fogli tutti umidi di rugiada; e questa mattina mi raccontava che il rimanente era stato stracciato dal cane dell’ortolano.

Teresa mi sgrida: per contentarla mi pongo a scrivere; ma, sebbene incominci con la piú bella disposizione del mondo, non so andar innanzi per piú di tre righe. Mi propongo mille argomenti; mi s’affacciano mille idee: scelgo, rigetto, poi torno a scegliere; scrivo finalmente; straccio, cancello, e perdo qualche volta un’intera giornata: la mente si stanca, le dita abbandonano, loro malgrado, insensibilmente la penna, e mi avveggo d’aver gettato il tempo e la fatica.

La pazza figura ch’io fo, quand’ella siede lavorando ed io leggo! M’interrompo ad ogni tratto, ed ella: — Proseguite! — Torno a leggere; dopo due carte la mia pronunzia diventa piú rapida e termina borbottando in cadenza. Teresa s’affanna: — Leggete un po’ meglio. — Io continuo; ma gli occhi miei, non so come, si sviano poco a poco dal libro e si trovano frattanto immobili su quell’angelico viso. Sto muto: cade il libro e si chiude; perdo il segno, né so piú ritrovarlo.

Ma pure..., se potessi afferrare tutti i pensieri che mi passano per la mente! Mi sono provveduto di un lapis e ne vo tratto tratto segnando qualcuno su le coperte o sui margini del mio Plutarco.

O tu, che disputi tranquillamente su le passioni! se le tue fredde mani non trovassero freddo tutto quello che toccano, se tutto quello ch’entra nel tuo cuore di ghiaccio non divenisse tosto gelato, credi tu che vanteresti con tanta baldanza la tua severa filosofia? Or come puoi ragionare di quello che non conosci? e come, d’altronde, il mio spirito, quand’è agitato, sará responsabile della sua condotta?...

Un suo bacio!...

E allora io le stringo la mano, la bacio, me la pongo sugli occhi, e vi appoggio sopra le guance.

Eterno Padre della natura! ben tu punisti lo stoico, negandogli i piaceri inesausti del sentimento. «Se vedi alcuno addolorato e piangente, non piangere!». Infelice! e non sa che le [p. 119 modifica] lagrime di un uomo compassionevole sono piú dolci degli effluvi della rugiada che fecondano il seno della primavera?

O Lauretta! io piansi con te sul sepolcro del tuo povero amante, e mi ricordo che la mia compassione temprava l’amarezza del tuo dolore. T’abbandonavi sul mio seno, e i tuoi biondi capelli mi coprivano il volto, e il tuo pianto bagnava le mie guance: poi traevi un fazzoletto e m’asciugavi; ed asciugavi le tue lagrime, che tornavano a sgorgarti dagli occhi, e scorrere, e posarsi su le tue labbra sfiorite. — Abbandonata da tutti!... — Ma io no, non ti ho abbandonato mai.

Quando tu erravi fuor di te stessa per le romite spiagge del mare, io seguiva tacitamente i tuoi passi per poterti salvare dalla disperazione del tuo dolore. E ti chiamava a nome, e tu mi stendevi la mano e ti sedevi al mio fianco. Saliva in cielo la luna, e tu, guardandola, cantavi un inno all’Eterno; e le preci del mio cuore accompagnavano la tua mesta armonia: — A Dio sono accetti i voti e i sacrifici delle anime addolorate! — I flutti gemeano con flebile fiotto e i venti, che gl’increspavano, li spingevano a lambir quasi la riva dove noi stavamo seduti. E tu, alzandoti appoggiata al mio braccio, t’indirizzavi a quel sasso, ove ti parea di vedere ancora il tuo Eugenio, e sentir la sua voce e la sua mano e i suoi... baci. — Or che mi resta? — esclamavi; — la guerra mi allontana i fratelli, e la morte mi ha rapito il padre e l’amante. Abbandonata da tutti!... —

O bellezza, genio benefico della natura! ove mostri l’amabile tuo sorriso, scherza la gioia, e si diffonde la voluttá per eternare la vita dell’universo: chi non ti conosce e non ti sente, incresca al mondo e a se stesso. Ma, quando la virtú ti rende piú vereconda e piú cara, e le sventure, togliendoti la baldanza e l’invidia della felicitá, ti mostrano ai mortali coi crini sparsi e spogli delle allegre ghirlande..., chi è colui che può passarti d’innanzi e non altro offrirti che un inutile sguardo di compassione?

Ma io t’offriva, o Lauretta, le mie lagrime e questa capanna dove tu «avresti mangiato del mio pane e bevuto nella mia tazza». Tutto quello ch’io aveva! E meco forse la tua vita, sebbene non [p. 120 modifica] lieta, sarebbe stata libera almeno e pacifica. Il cuore nella solitudine e nella pace va poco a poco obbliando i suoi affanni, perché la libertá regna soltanto in grembo alla semplice e solitaria natura. E dove tu sei, Libertá, le petrose rupi s’ornano d’arbuscelli e Borea frena gl’impetuosi suoi turbini.

Una sera d’autunno, la tacita luna appena si mostrava alla terra, riflettendo i suoi raggi su le nuvole trasparenti, che, accompagnandola, l’andavano tratto tratto coprendo e che, sparse per l’ampiezza del cielo, rapiano al mondo le stelle. Noi stavamo intenti ai lontani fochi de’ pescatori e al canto del gondoliere, che col suo remo rompea il silenzio e la calma della oscura laguna. Ma Lauretta, volgendosi, cercò con gli occhi intorno il suo piccolo cane, ed errò lunga pezza chiamandolo: stanca finalmente, tornò dov’io sedeva e, guardandomi, parea che volesse dirmi: — Anch’egli mi ha giá abbandonato; e tu forse?... —

Io? Chi l’avrebbe mai detto che quella dovesse essere l’ultima sera ch’io la vedeva? Ella era vestita di bianco; un nastro cilestro raccogliea le sue chiome e tre mammole appassite spuntavano in mezzo al lino che copriva il suo seno. Io l’ho accompagnata fino alla porta della sua casa; e sua madre, che venne ad aprirci, mi ringraziava della cura che mi prendeva per l’infelice sua figlia. Quando fui solo, m’accorsi che m’era rimasto fra le mani il suo fazzoletto. — Lo renderò domani — diss’io.

I suoi mali incominciavano giá a mitigarsi, ed io forse... È vero: io non poteva darti il tuo Eugenio; ma ti sarei stato sposo, padre, fratello. La persecuzione de’ tiranni proscrisse improvvisamente il mio nome, né ho potuto, o Lauretta, lasciarti neppure l’ultimo addio.

Quand’io penso all’avvenire e mi chiudo gli occhi per non conoscerlo, e tremo, e mi abbandono colla memoria a’ giorni passati, io vo per lungo tratto vagando sotto gli alberi di queste valli, e mi ricordo le sponde del mare e i fuochi lontani e il canto del gondoliere. M’appoggio ad un tronco... Sto pensando: — Il ciel me l’avea conceduta; ma l’avversa fortuna me l’ha rapita! — Traggo il suo fazzoletto: — Infelice chi ama per [p. 121 modifica] ambizione! Ma il tuo cuore, o Lauretta, è fatto per la schietta natura. — M’asciugo gli occhi e torno, sul far della notte, alla mia casa.

Che fai tu frattanto? Torni errando lungo le spiagge e porgendo inni e lagrime a Dio! Vieni! tu corrai le frutta del mio giardino; «tu berrai nella mia tazza, tu mangerai del mio pane». Se tornerá il tuo piccolo cane, io ne prenderò cura, perché non vada smarrito per le campagne. Quando si risveglierá il tuo tormento, e lo spirito sará vinto dalla passione, io ti verrò dietro per sostenerti in mezzo al cammino e per guidarti, se ti smarrissi, alla mia casa; ma ti verrò dietro nascostamente, per lasciarti libero almeno il conforto del pianto. Io ti sarò padre, fratello...; ma il mio cuore..., se tu sapessi! il mio cuore...

Una lagrima bagna la carta e cancella ciò che vado scrivendo.