Una vecchia amicizia troncata/VI
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Traduzione dal russo di Nicola Festa (1932)
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Capitolo VI
— Era per caso la scrofa nera?
Ma Agafia Fedosejevna che si trovò presente, cominciò ad aggredire daccapo Ivan Nikiforovic.
— E tu che fai, Ivan Nikiforovic? Alle tue spalle si riderà come alle spalle di uno scemo, se tu lasci correre! Che razza di gentiluomo sarai tu in avvenire? Sarai peggio della vecchietta che vende i brigidini, quelli che a te piacciono tanto! — E seguitò a sbraitare senza tregua! Poi trovò non so dove un uomo di mezza età, bruno, con la faccia tutta chiazzata, con un soprabito turchino scuro rattoppato nei gomiti, un perfetto calamaio da cancelleria! Si lustrava le scarpe col catrame, portava tre penne dietro l’orecchio, e sospesa a un bottone mediante una cordicella, un’ampollina di vetro che gli faceva da calamaio; mangiava nove pasticcini in una volta e si nascondeva in tasca il decimo; e in un foglio bollato scarabocchiava tante di quelle calunnie, che nessun lettore riusciva a leggerle tutte d’un fiato, senza interrompere la lettura con un colpo di tosse e uno starnuto. Questo piccolo fac-simile d’uomo frugò, s’affaccendò, scrisse e infine ammanní una carta di questa fatta:
«Al tribunale circondariale di Mirgorod, da parte del gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun:
«Facendo seguito alla mia supplica, che presentata da me, gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun, si trovò coinvolta unitamente al gentiluomo Ivan figlio di Ivan Pererepenko, nell’incidente per cui lo stesso tribunale circondariale di Mirgorod manifestò la sua . E quello stesso sfrontato arbitrio mediante la scrofa nera, sebbene fosse tenuto segreto, è già da persone estranee portato al mio orecchio. Perciocché quella concessione e indulgenza, in quanto malignamente pensata, è soggetta senza indugio a giudizio; perché quella scrofa è una bestia stupida, e perciò particolarmente adatta alla sottrazione del documento. Laonde manifestamente apparisce che la piú volte ricordata scrofa non altrimenti agí se non in quanto fu aizzata a ciò dallo stesso avversario, sedicente gentiluomo, Ivan figlio di Ivan Pererepenko, già segnalatosi in ruberie, attentati alla vita e sacrilegi. Ma il predetto tribunale di Mirgorod con la sua speciale parzialità, mostrò un suo segreto particolare accordo; senza una qualche intesa, la detta scrofa in nessun modo poteva essere lasciata entrare a portar via il foglio, giacché il tribunale circondariale di Mirgorod è ben provvisto di personale subalterno: per questo basta semplicemente nominare il solo soldato sempre presente nella anticamera, il quale soldato, quantunque sia guercio da un occhio e abbia un braccio alquanto rovinato, pur tuttavia per rincorrere una scrofa e percuoterla con un randello, ha sempre un’adeguata capacità. Dalla qual cosa sicuramente risulta l’indulgenza del detto tribunale e indiscutibilmente la spartizione del profitto giudaico derivante, per reciproca complicità. Il surricordato briccone e gentiluomo Ivan figlio d’Ivan Pererepenko, a sua volta, si è rivelato agire da furfante. Per la qual cosa dichiaro al detto tribunale circondariale, io, gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun, per la dovuta informazione, che, se la mentovata querela rapita dalla detta scrofa nera o dal connivente con essa gentiluomo Pererepenko non sarà ricuperata e su d’essa il tribunale non prenderà una decisione secondo giustizia e a mio favore, allora io, gentiluomo Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun, di siffatta illegale indulgenza di quel tribunale presenterò denunzia alla corte di giustizia, con adeguata procedura nella forma richiesta. Il gentiluomo del circondario di Mirgorod Ivan figlio di Niceforo Dovgoc’chun.»
Questa protesta produsse il suo effetto. Il giudice era un uomo, come sono ordinariamente tutte le persone dabbene, di carattere pauroso. Egli si rivolse al segretario. Ma il segretario mandò fuori dalle labbra un grosso «hum!» e mostrò sulla faccia quella indifferente e diabolica cera ambigua, che solamente il diavolo suol prendere, quando vede ai suoi piedi una vittima che corre a lui. Un solo espediente rimaneva: rappaciare i due amici. Ma come accingersi a questo, se tutti i tentativi precedenti erano falliti? Nondimeno si stabilí di fare ancora una prova; ma Ivan Ivanovic dichiarò apertamente di non volerne sapere, e anzi andò su tutte le furie. Ivan Nikiforovic, per tutta risposta, voltò le spalle e non disse nemmeno una parola. Allora il processo andò avanti con la straordinaria rapidità di cui ordinariamente si vantano i tribunali. La carta fu datata, registrata, le applicarono un numero, la cucirono, la bollarono, tutto nello stesso giorno, e poi misero la causa in uno scaffale, dove riposò, riposò, riposò, un anno, due, tre. Una quantità di ragazze nel frattempo si maritarono; in Mirgorod fu aperta una nuova strada; al giudice caddero un dente molare e due incisivi; da Ivan Ivanovic correvano per il cortile piú ragazzini di prima (di dove li prendessero, Dio solo lo sa); Ivan Nikiforovic, per dispetto a Ivan Ivanovic, costruí una nuova stalletta per le oche, sebbene un poco piú lontana dalla precedente, e con costruzioni in muratura si riparò del tutto dalla vista di Ivan Ivanovic, tanto che queste due rispettabili persone non si vedevano quasi piú affatto l’un l’altro faccia a faccia; e intanto la causa giaceva sempre in ottimo ordine nello scaffale, che appariva marmorizzato per effetto delle macchie d’inchiostro.
In questo frattempo capitò un fatto di straordinaria importanza per tutta Mirgorod. Il prefetto diede un ricevimento! Dove prenderò io i pennelli e i colori per rendere la variopinta adunanza e il grandioso banchetto? Prendete un orologio, apritelo, e state a guardare quello che lí dentro avviene! Non è vero che è una complicazione da far paura? Figuratevi adesso che quasi altrettante ruote, se non piú, erano in mezzo al cortile del prefetto. Che sorta di calessi e carrozzini non c’erano? Uno, largo di dietro e stretto davanti; un altro, stretto di dietro e largo davanti. Uno era calesse e carrozzino insieme; un altro né calesse né carrozzino; un altro somigliava a un enorme monte di fieno, o ad una grossa merciaia; un altro a un giudeo scarmigliato, o ad uno scheletro non ancora liberatosi interamente dalla pelle; un altro era, di profilo, una perfetta pipa con la sua canna; un altro non rassomigliava a niente, rappresentando non so qual essere strano, del tutto informe e straordinariamente fantastico. Di mezzo a quel caos di ruote e sedili sorgeva un quid simile di vettura con un finestrino da camera ribattezzato a grosso sportello da vettura. I cocchieri, in camice grigio, o in cappotto con pellegrina, con cappelli di pelle di montone e berretti di vario calibro, con le pipe in mano, guidavano nella corte i cavalli staccati. Che ricevimento diede il prefetto! Permettete che io vi enumeri tutti quelli che c’erano: Taras Tarassovic, Eupl Akinfovic, Eftichij Eftichievic, Ivan Ivanovic (non quello che noi conosciamo, ma un altro), Savva Gavrilovic, il nostro Ivan Ivanovic, Elevferij Elevferievic, Macar Nazarovic, Foma Grigorievic... Non ne posso piú, mi vengon meno le forze. La mano si stanca a scrivere! E poi, quante signore! Brunette e biondine, alte e basse, alcune corpulente come Ivan Nikiforovic, altre cosí sottili da far venire in mente che si potesse nasconderne una nel fodero della spada del prefetto. Quanti cappellini! quanti abiti! rossi, gialli, color caffè, verdi, blu, nuovi, rivoltati, rimodernati... sciarpe, nastri, borsette! Addio, poveri occhi! Voi non servirete piú a niente dopo un siffatto spettacolo. E che tavola lunga fu preparata! E quanto si ciarlò da ogni parte! Quanto baccano! Dove va, al confronto, un mulino con tutte le sue macine, ruote, carrucole, pestelli! Non posso dirvi con certezza di che si parlava, ma si può supporre, di molte cose piacevoli ed utili, come per esempio, del tempo, dei cani, del frumento, di cuffie, di stalloni. Da ultimo, Ivan Ivanovic (non il nostro Ivan Ivanovic, ma un altro che aveva un occhio strambo) disse:
— Per me è molto strano questo fatto, che il mio occhio diritto — lo strambo Ivan Ivanovic parlava sempre di sé in tono burlesco — vede Ivan Nikiforovic, il signor Dovgoc’chun.
— Non ha voluto venire! — disse il prefetto.
— Come mai?
— Ecco, già, per grazia di Dio, sono passati due anni da quando si adirarono tra loro, voglio dire Ivan Ivanovic con Ivan Nikiforovic, e dove va l’uno, non c’è verso di farci andare l’altro!
— Ma che dite! — Qui lo strambo Ivan Ivanovic levò gli occhi in su e giunse insieme le mani. — Che sarà ora? se ormai le persone con gli occhi sani non vivono in pace, come potrò vivere io in armonia col mio occhio strambo?
A queste parole tutti cominciarono a ridere sgangheratamente. Tutti volevano un gran bene a Ivan Ivanovic, per questo egli lanciava sempre dei motti di perfetto gusto moderno. Perfino un uomo alto e secco, in soprabito di panno grezzo, con un cerotto sul naso, il quale fino allora era stato a sedere in un angolo, senza mai cambiare l’atteggiamento del suo volto, neppure quando gli volava sul naso una mosca, perfino quel signore si levò dal suo posto e si accostò al crocchio che circondava Ivan Ivanovic lo strambo.
— State a sentire! — disse Ivan Ivanovic lo strambo, quando si vide attorniato da una società in tutta regola — state a sentire: in cambio di ciò, che voi state a guardare il mio occhio strambo, concedete, in cambio di ciò, che facciamo fare la pace ai due nostri amici! Adesso che Ivan Ivanovic fa conversazione con le donne e con le ragazze, mandiamo chiotti chiotti a chiamare Ivan Nikiforovic, e poi facciamoli urtare l’uno con l’altro.
Fu accolta da tutti all’unanimità la proposta d’Ivan Ivanovic e si stabilí di mandare immediatamente a casa di Ivan Nikiforovic a pregarlo che a qualunque costo venisse dal prefetto a pranzo. Ma ecco una grande questione: a chi affidare questa difficile impresa? essa mise tutti nell’imbarazzo. A lungo si disputò, chi fosse il piú adatto e il piú abile nella parte diplomatica; da ultimo, a voti unanimi, decisero di rimettere ogni cosa nelle mani di Antonio Prokofjevic Golopusij.
Ma prima bisogna un po’ far conoscere al lettore questo importante personaggio. Antonio Prokofjevic era un uomo perfettamente virtuoso in tutta l’estensione del significato di questa parola: se una delle persone notabili di Mirgorod gli dava un fazzoletto da collo o un paio di calzoni, egli ringraziava; ma se qualcuno gli dava dei leggieri buffetti sul naso, egli ringraziava egualmente. Se gli si domandava: «Perché, Antonio Prokofjevic, avete un soprabito color cannella, mentre le maniche sono turchine?», in tal caso egli normalmente rispondeva ogni volta: «Ma voi non avete niente di simile! Aspettate: sbiadirà, diverrà tutto eguale». E puntualmente, il panno turchino, per effetto del sole, cominciava a trasformarsi in color cannella, e ora si adattava in tutto al colore del soprabito. Ma ecco quello che è strano, che Antonio Prokofjevic ha l’abitudine di portare un abito di lana nell’estate, e un abito di tela nell’inverno. Antonio Prokofjevic non ha una casa del suo. Ne aveva una volta una all’estremità della città; ma egli la vendette, e col denaro incassato si comprò una troika di cavalli bai e un piccolo calesse, col quale andava a visitare i signori di campagna. Ma siccome coi cavalli c’erano molti pensieri e inoltre occorrevano denari per la biada, Antonio Prokofjevic li cambiò con un violino e una ragazza di servizio, ricevendo per giunta un biglietto da venticinque rubli. Poi Antonio Prokofjevic vendé il violino e diede la ragazza in cambio di un kiset1 di marocchino con fregi in oro, e adesso egli ha un kiset come non ce l’ha nessuno. Per questa sodisfazione che ebbe, egli non può piú fare delle gite per le campagne, ma è costretto a rimanere in città e pernottare in varie case, specialmente da quei signori che provavano gusto a dargli dei buffetti sul naso. Ad Antonio Prokofjevic piace mangiare bene, ed egli giuoca a carte discretamente. Obbedire in ogni occasione è stato per lui principio elementare, e perciò, preso il bastone e il cappello, senza indugio si mise in cammino.
Ma, strada facendo, cominciò a pensare come avrebbe potuto indurre Ivan Nikiforovic ad andare al ricevimento. Il carattere piuttosto rude di quell’uomo, cosí rispettabile del resto, rendeva quasi impossibile la sua impresa. E poi, francamente, come egli avrebbe potuto risolversi ad andare, se perfino il levarsi dal letto gli costava già una gran fatica? Ma mettiamo pure che si levasse su, come sarebbe andato là dove si trovava — ed egli senza dubbio lo sapeva - il suo irreconciliabile nemico? Quanto piú Antonio Prokofjevic vi rifletteva su, tanto piú trovava ostacoli. La giornata era afosa; il sole ardeva; il sudore gli grondava giú a rivi. Antonio Prokofjevic, quantunque gli dessero dei buffetti sul naso, era un uomo accorto e abile in molte cose. Solo nel fare i cambi non era molto felice. Egli sapeva molto bene quando occorre fare lo scemo, e talora sapeva regolarsi in certe circostanze e in certi frangenti in cui di rado anche un uomo intelligente è in grado di cavarsela.
Intanto che il suo talento inventivo escogitava un mezzo per persuadere Ivan Nikiforovic, e mentre egli già coraggiosamente andava incontro a tutto, una circostanza inattesa lo turbò non poco. Non è male, a questo proposito, avvisare il lettore che Antonio Prokofjevic aveva, tra l’altro, certi pantaloni di cosí strana specialità che quando li portava addosso, i cani sempre correvano a mordergli i polpacci. Come per mala sorte, quel giorno egli indossava appunto quei pantaloni, e perciò, s’era appena abbandonato ai suoi pensieri, quando un pauroso abbaiare da ogni parte colpí i suoi orecchi. Antonio Prokofjevic levò un tale urlo (nessuno sapeva gridare piú forte di lui), che non solo la nota fantesca e il ragazzo alloggiato nello smisurato soprabito gli corsero incontro, ma perfino i ragazzini della corte d’Ivan Ivanovic gli si sparsero attorno, e sebbene i cani riuscissero ad addentarlo in una sola gamba, pure questo fatto scemò la sua baldanza, e non senza una specie di trepidazione egli si avvicinò alla scala.
Note
- ↑ Borsetta da tabacco.