Una politica agraria nel segno di Pulcinella/V
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Sul territorio italiano dilaga il cemento: la causa un autentico processo di patologia finanziario-territoriale: convertire campi arati in aree residenziali è stato eretto, da una politica ottusa, a prima fonte di finanziamento dei bilanci comunali, che prosperano quanto siano più numerosi gli ettari sottratti alla coltivazione. In un paese che in cinque decenni ha sacrificato un terzo dei propri suoli di pianura il processo è destinato a strangolare l’agricoltura
“Incapaci di ridurre il numero dei dipendenti pubblici, abbiamo fatto quadrare i conti tagliando i trasferimenti ai comuni, e questi, per sopravvivere, hanno usato il solo strumento di cui dispongono: le licenze edilizie e la possibilità di monetizzare le aree verdi, cioè chiedere a chi costruisce contanti, anziché standard. Il risultato è un uso estensivo del territorio e forse anche qualche transazione non propriamente trasparente tra immobiliaristi e amministratori pubblici.”
In un’enunciazione di Francesco Giavazzi pubblicata in prima pagina del Corriere della sera del 13 maggio l’essenza dei fenomeni che coinvolgono il territorio nazionale: la dilatazione incontenibile del cemento sospinta da urgenze di bilancio che impongono quello che Giavazzi definisce, con precisione, un uso estensivo del territorio. I comuni sono costretti a dilatare il cemento perché dilatare il cemento è l’unica strada per sostenere le entrate. Un paese che disponeva, a metà del Novecento, di sei milioni di ettari di pianure ne ha ricoperte di cemento, secondo un calcolo che è difficile operare con esattezza ma che non è probabilmente lontano dal vero, due milioni: un terzo del patrimonio di suoli di pianura conquistato in duemila anni di dissodamenti e di bonifiche. Nella storia di una nazione sacrificare un terzo del proprio patrimonio di terra in cinque decenni non è, si deve rilevare, evento irrilevante: nelle vicende di un popolo cinque decenni sono arco di tempo breve, un terzo delle pianure di cui quel popolo dispone è entità ingente.
I comuni italiani realizzano un uso estensivo del territorio siccome il cemento è la più efficace fonte di entrate. Il giudizio di Giavazzi implica che si potrebbe realizzare un uso diverso, intensivo, del territorio. Si potrebbe costruire secondo standard diversi: meno villini e più condomini a più piani, i parcheggi sotto le fabbriche anziché ettari di piazzali attorno ai capannoni, quell’uso intensivo che imporrebbe la consapevolezza che di pianura al paese non restano che quattro milioni di ettari, che tra cento anni, continuando a praticare un uso estensivo del territorio, saranno interamente ricoperti di cemento.
Per penetrare l’atteggiamento degli enti locali nei confronti del proprio territorio propone una lettura illuminante l’ultimo numero del periodico con cui la Provincia di Modena illustra ai cittadini elettori le proprie benemerenze: a fianco dell’articolo di prima pagina dell’assessore che spiega che la provincia pratica un modello di sviluppo sostenibile, campeggia l’articolo che informa che nel territorio provinciale vengono sottratti all’agricoltura 350 ettari all’anno, che possono apparire entità modesta a chi dimentichi che gli anni si succedono agli anni, e che sottrarre all’agricoltura di una piccola provincia 3.500 ettari ogni dici anni significa destinarne l’agricoltura, in pochi decenni, all’estinzione. Singolarmente, pure dichiarando che la dilatazione del cemento è ingente, nessuna riflessione il periodico modenese propone sui criteri di uso del territorio degli enti locali di cui è espressione: le strade sono necessarie, le aree industriali sono necessarie, i parcheggi debbono essere sconfinati, la gente preferisce le villette ai condomini. Pare che non si possa fare diversamente. L’assessore che proclama con tanta sicurezza la “sostenibilità” del “modello modenese” dovrebbe spiegare se sia “sostenibile” un modello che tra cinquant’anni avrà ricoperto di cemento e asfalto uno dei lembi di pianura più fertili d’Italia. E chi percorra la provincia emiliana su una qualsiasi delle strade che la intersecano rivolgendo qualche attenzione al numero delle gru disseminate nella pianura non può respingere l’impressione che la dilatazione del cemento si stia intensificando. Modena conta più di un settore economico in crisi, basta ricordare il crollo della maglieria di Carpi e la crisi delle mattonelle di Sassuolo, e date le incertezze della borsa il denaro che si ritira dall’industria, e non si tratta di cifre esigue, si riversa nell’edilizia, un’attività che negli anni scorsi ha assicurato utili consistenti, esondando sui campi coltivati e moltiplicando un patrimonio di costruzioni che, se non ci sarà ripresa industriale, è inevitabile varrà, domani, assai meno di quanto spera chi investe, oggi, in cemento. Un immane processo di disinvestimento industriale che si traduce in distruzione di ricchezza agraria per accrescere le villette che domani nessuno sarà in grado di pagare. O che potranno pagare solo gli amministratori pubblici che, suppone Giavazzi, non hanno mancato di trarre qualche beneficio dalla conversione dei campi in aree residenziali.
Avere ricoperto di cemento, in cinque decenni, un terzo delle nostre pianure significa avere sacrificato le capacità della nostra agricoltura in misura eguale alla somma del fabbisogno nazionale di frumento panificabile e di quello di mais. Del frumento che trasformiamo in pane, vale la pena ricordare, i due terzi sono importati, mentre la produzione di mais, un autentico vanto dell’agricoltura italiana, è la diga contro le importazioni dei prodotti dell’allevamento. Non dimentichiamo che importiamo 20 milioni di quintali di latte e 5 milioni di quintali di derivati, 3 milioni di quintali di carne bovina e 4 milioni di quintali di bovini vivi, 8 milioni di quintali di carne suina, oltre a 1 milione di quintali di suini vivi, un’entità complessivamente non molto lontana ad un terzo dei consumi di prodotti dell’allevamento bovino e suino. I due terzi che produciamo nelle nostre campagne sono, essenzialmente, il prodotto della trasformazione del mais che produciamo ancora nelle nostre pianure.
Sta crescendo con prepotenza, da qualche tempo, il numero dei pessimisti sul futuro dell’Europa. Chi scrive non crede che l’Italia abbia un futuro fuori dal sodalizio dell’Unione europea. Trascurando i convincimenti personali ricorda a chi nutre scetticismo sul futuro dell’Europa unita che un paese che dipende, ormai, dalle importazioni per una quota ingente dei consumi alimentari essenziali, quelli fondati sul frumento e sul mais, dovrebbe provare qualche inquietudini immaginando che l’Italia possa rescindere i legami con paesi che, qualsiasi siano le incongruenze della politica dell’Unione, garantiscono gli approvvigionamenti essenziali. Chi nutre scetticismo sul futuro europeo dovrebbe preoccuparsi, per obbligo di coerenza, delle capacità dell’agricoltura nazionale: un uso meno estensivo del territorio è una delle condizioni per conservare nel tempo le capacità produttive che in cinque decenni abbiamo tanto drasticamente decurtato. Antonio Saltini
Spazio rurale, L, n. 11, nov 2005