Una lettera di Carlo V al Cardinale Giovanni Salviati
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UNA LETTERA DI CARLO V
AL CARDINALE GIOVANNI SALVIATI
Molti discordi sono i giudizii pronunziati dagli storici intorno alla parte avuta da Carlo V nella funesta spedizione, che devastò parecchie terre d’Italia e si compì col sacco di Roma e la prigionia del Pontefice. A ciò hanno pôrto argomento più che altro le reticenze e le ambagi, che l’Imperatore stesso usò nelle sue lettere. Ossia che temesse i giudizii degli uomini, o che gli strazii e le profanazioni, commesse in Roma, gli pesassero sull’animo; certo è, che quante volte gli si offerse il destro, altrettante non lasciò di scagionarsi di quell’orrendo misfatto. Il 2 agosto del 1527 scriveva al re d’Inghilterra e con lui agli altri monarchi della cristianità, che l’esercito imperiale avea presa la via di Roma senza suo «parere et comandamento» e «contro il volere dei capitani»1. Nell’aprile del 1529 scrivendo a Clemente VII dichiarava, che ad altri e non a lui dovevasi ascrivere il sacco di Roma: «ny ay ne tuns culpe»2. Uguali sentimenti sono espressi in un dispaccio del Navagero, dov’è riferito, che Carlo, intesa la lega di Cognac, disse all’ambasciatore francese in presenza del nunzio pontificio «essere stato il re Francesco, che a lui propose di scendere ambidue insieme in Italia, e, sciolto il pontificio dominio, di rendersene padroni»3.
E nei Commentari di Carlo V, pubblicati dal barone di Herwyn de Lettenhove, si legge: «doversi fare delle detenzioni di Sua Santità un rimprovero meno all’Imperatore, che a coloro, che lo avevano costretto ad assoldare per sua difesa tanta gente d’arme, da cui non era stato ben ubbidito»4.
La presente lettera, indirizzata dall’Imperatore al cardinale Giovanni Salviati, e che si ha tutto il motivo di credere inedita, nulla porge di nuovo. I rimproveri, che si esprimono in essa, consuonano per intero con quanto si è detto di sopra. Nondimeno mi parve non inutile il farla di pubblica ragione e perchè di quelle, che si conoscono, è la prima, che quell’Imperatore dettasse in proposito, e perchè si allunga in maggiori particolari, che non forse le altre.
L’esemplare, da cui io l’ho tolta, non è l’originale, ma una copia. Il cardinale Giovanni Salviati, nipote di Leone X e messo di Clemente VII a Carlo V e a Francesco I di Francia, era legato d’intima amicizia a Giovangiorgio Trissino; a cui fin dal 1519 indirizzava una lettera, pregandolo a trasmettergli una copia corretta della Sofonisba5. Assunto al pontificato il cardinale Giuliano de’ Medici, fu anzi il Salviati, che rese partecipe il Trissino del desiderio, che Sua Santità avea di vederlo, e che gliene trasmise un Breve d’invito6. Io reputo che a siffatta amicizia debbasi la copia di questa lettera. Il Trissino, dopo la elezione di Clemente VII, non tardò molto a muovere a Roma. Nel 1525 fu anzi inviato dalla Santa Sede alla Repubblica di Venezia a trattare di non so qual negozio. Al momento, in cui si consumava il sacco di Roma, si era già da più di sei masi licenziato dal papa, dopo avere previste e ragionate, insieme col Cardinale Niccolò Ridolfi, suo amicissimo, le gravi miserie che doveano accadere7. Ora qual maraviglia, che il Salviati informandolo dell’avvenuto in Roma durante il memorabile sacco, gli facesse aperta ad un tempo la mente dell’Imperatore, trasmettendogli copia della lettera allora allora ricevuta? E certo che l’esemplare, da cui io l’ho tratta, è del tempo: tanto è vero, che Giovangiorgio vi scrisse a tergo di suo pugno: Copia literarum Cesaris ad cardinalem Salviatum. Si conserva con un’altra lettera di Carlo al Bannisio, concernente alcuni affari privati di Vicentini, nell’archivio del conte Giorgio Trissino dal Vello d’Oro; alla cui cavalleresca cortesia io debbo la facoltà di frugare in quelle carte e di trar copia, come di questo, così di tutti i documenti, che mi sembrassero di qualche giovamento alla storia letteraria o politica.
B. Morsolin. |
AL CARDINALE SALVIATI.
(1527)
- Carolus etc.
Reverendissime in Christo pater amice carissime salutem. Cum augumento omnis felicitatis discesserat Petrus a Verey camerarius noster, quem ad summum Pontificem misimus, ut nostro nomine eum salutaret, quantoque animi dolore affecti fuimus ob ea, quae in Urbe preter spem voluntatemque nostram acta sunt, exponeret, atque mutuam inter nos benevolentiam restaurare curaret, nostramque illi obedientiam atque filialem pietatem, si alias unquam, nunc certe paratissimam promptissimamque ostenderet, cum nuntius Reverendissimae D. V. eiusdem ad nos litteras detulit, quas una cum hiis, quae Apostolicae sedis nuntius, qui apud nos agit, ipseque nobis retulere, et grato animo vidimus et quam libentissime audivimus. Ea enim omnia R. Paternitatis vrae. in Ro. Pont, et Apostolicam Sedem animum nostro similem testantur; licet sit quo iure merito mirari debeamus liane summi pontificis et religionis causam ita nobis comendari, ac si inviti subsepturi esse videremur, cum nostrum in re hac animum voluntatemque evidentioribus argumentis comprobaverimus, quam ut de ipsa in presentia dubitandum esse videatur. Nam de his, quae nuper Romae acta sunt, tametsi, quae est iniquorum hominum protervitas, fuerint qui ea nomini nostro ascribere presumant, adeo a probis cordatisque viris nullam prorsus fidem impetraturos arbitramur, ut, dum nos Apostolicae Sedis adversarium efficere conati fuerint, eorum malitiam impudentissimamque sycophantiam apperiant necesse est. Nemo enim sanae mentis homo apertissime non videt nos ab hac culpa quam longissime abesse, utpote qui semel atque iterum ad arma provocati fuimus, qui inviti arma capere, qui subditos nostros, qui nostram et Romani Imperii dignitatem defendere, qui novas copias ad Italiam mittere prò compescenda hostium insolentia coacti fuimus: veruntamen hoc crimen, haec culpa, hic denique insultus iis certe ascribendus erit, qui pontificem vanis policitationibus, improbissimis et plus quam iniquis erroribus seduxerunt impuleruntque, ut in nos eius et Apostolicae sedis protectorem arma caperet, nosque etiam ad arma provocaret; quorum denique malitia tantum apud suam Beatitudinem valuit, ut firmatas cum Duce Ugone de Moncada inducias violaret, magnamque regni nostri neapolitani partem occuparet; qua fama nostri impulsi milites, nobis inconsultis, recte ad Urbem tendere coacti sunt, firmatisque denuo induciis, qui nui)er alias violatas viderant, fidere noluerunt, sed ad summam hanc impietatem insano quodam furore, vel Dei potius iuditio ducti fuerunt iis, qui pontificem seduxerant, non modo auxilium non prestantibus, sed quasi a longe credulum pontificis animum, qui se se falsissima spe ab eis illudi passus est, irridentibus. Quos tametsi in presentia nobis ascribere non pudeat quod sua culpa patratum est, speramus tamen, favente Deo optimo maximo, in quo uno totam spem nostram colocavimus, nos ita pontificis atque Apostolicae Sedis, necnon et universae christianae religionis causam subscepturos, ut hostium iniquitate vel espulsa vel prostrata, romanae sedis dignitas cum amplissima Christi et religionis gloria ac reip. chistianae salute et gloriosissime floreat, et amplissime propagetur; ita ut, hostium sycophantia detecta, nec R. P. vestra, nec quivis alius ea, quam de nostro in remp. animo conceperant, spe frustrati esse videantur; prout haec latius cum ab Apostolicae Sedis nuntio, tum a Iacobo Hieronymo, quibus mentem nostram ore proprio explicuimus R. P. vestra accipiet, quamdiu etc.
Dat. Vallisoleti, Die xxviii iulii mdxxvii
Io Cl. Rey. |
Tergo |
Note
- ↑ Ruscelli, Lettere di Principi, ec. tom. II, pag. 77 e 78
- ↑ Lanz, Correspond. Carlo V. vol. I, pag. 590.
- ↑ De Leva, Storia di Carlo V, vol. II, pag. 439.
- ↑ V. Archivio Storico, Nuova Serie, vol. XVI.
- ↑ Trissino, Opere, vol. I, pag. 47. Verona, 17.9
- ↑ Trissino. ibidem.
- ↑ Lettera inedita del Ridolfi, ms. nell’Archivio Trissino, in data 17 giugno 1527.