Una famiglia di topi/Capitolo quarto

Capitolo quarto

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CAPITOLO QUARTO



inchè furono piccini, i figliuoli di Ragù e della Caciotta non ebbero altra voglia e altro bisogno che quello di star tutti d’intorno alla madre per poppare; e s’addormentavano assieme l’uno su l’altro come un mucchiettino di carne. Ogni poco, quando eran liberi, i loro padroncini li andavano a riguardare, pieni di tenerezza per que’ corpiciattoli che di coperti di raso si facevan come coperti di felpa.

— Non ho mai voluto alla mia bambola di Parigi la metà del bene che voglio a queste [p. 46 modifica]creaturine! — dichiarava la Rita, che pure, quand’era più bimba aveva adorata la stupenda puppattola regalatale un giorno di Natale dal babbo; una puppattola che pigiata un po’ sullo stomaco proferiva distintamente: papà e mammà con una vocetta nasale da pappagallo.

Nello, per non essere da meno della sorella, dichiarò che, quanto a lui, da che Ragù e la Caciotta erano entrati in casa, aveva quasi lasciato in un canto quel cavallo meccanico che la mamma gli aveva finalmente concesso l’anno avanti, per la sua festa. E sì che correva così bene per le viottole del giardino, e si poteva guidare come un cavallo vero!

― Gli è, bimbi miei, ― spiegò la contessa ― che al vostro cuore e alla vostra intelligenza, poichè il Signore nella sua bontà vi ha concesso l’uno e l’altra, i poveri cuori e le oscure intelligenze di queste bestiole [p. 47 modifica]rispondono meglio di qualunque bel giocattolo inanimato. Di fatti, guardate come i vostri topini cominciano già a conoscervi e a volervi bene. —

Era vero: i cinque piccolini, vispi come tanti demonietti, che ora si rincorrevano fra loro tirandosi per un orecchio o per una zampina, ora si ruzzolavano facendo capriole sopra i tappeti, non appena udivan la voce di Rita e di Nello, venivano di corsa verso l’uno o l’altro, annusando loro le dita. Moschino, ch’era il più ardito di tutti e anche il più allegro, fu il primo a salire sur una mano di Nello, e dalla mano a dar la scalata al braccio, per andare poi a posarsi su la spalla dove, dalla gran consolazione, batteva i dentini color d’ambra. Poco tempo dopo, tutti i fratelli di Moschino avevan seguito l’esempio suo; e Rita e Nello non potevano accostare una mano alla tavoletta bassa dov’era collocata la canestra che faceva da nido, senza [p. 48 modifica]che subito quell’agile orda topesca non gli assalisse da tutte le parti.

Ma la canestra fu abbandonata dai sorci giovani quando smisero di pigliar latte.

La buona contessa, che voleva tutti felici intorno a sè, uomini e animali, soleva ripetere che le bestie o si tengono bene, o non si tengono. Quell’obbligarle poi a stare in una gabbia o in una paniera le avrebbe fatto l’effetto d’aver imprigionato crudelmente dei poveri esseri, che per loro natura abbisognano d’aria e di libertà.

Stabilì, dunque, che que’ topini potessero girare per la casa a loro agio, purchè, se avessero fatto qualche guaio, fossero puniti con una tiratina d’orecchi: erano anch’essi bambini, nella loro specie, e i bambini, si sa, vanno educati; altrimenti farebbero un monte di male a sè medesimi e agli altri.

Cosicchè i figliuoli di Ragù e della Caciotta, contenti come pasque, presero a scorrazzare [p. 49 modifica]per tutto; ma segnatamente per due stanze che a loro dovevano sembrar delle piazze immense: il salotto da lavoro della contessa e lo studio de’ ragazzi, ch’erano attigui, e nè anche divisi da un uscio, ma solo da una tenda orientale.

Fu allora, che il diverso carattere dei cinque sorcetti ebbe modo di svilupparsi e manifestarsi.

Dodò, uno de’ maschi dal cappuccio nero e tutto il resto del corpo affatto bianco, scelse subito per suo domicilio una scansia nella grande biblioteca della contessa Sernici.

— È un topo di biblioteca! — osservò ridendo la signora; e spiegò a’ suoi ragazzi che si sogliono chiamare topi di biblioteca quegli uomini studiosi i quali passano la vita fra i libri. Soggiunse poi, rivolta all’animaluccio:

— Bada bene, Dodò, di non farmi dei guasti! Se hai voglia di rosicchiare, ti metto qui [p. 50 modifica]de’ giornali vecchi; ma rispetta i libri, sai, bada bene! —

Dodò ascoltava, attento, battendo i dentini dalla gioia d’esser lasciato in quel luogo. Ci eran file di libri assai belli e ben rilegati in marrocchino, in bulgaro, in velluto. Gli autori di quest’opere erano i più famosi di tutto il [p. 51 modifica]mondo civile; giacchè la contessa Sernici aveva un’istruzione molto superiore, e studiava la letteratura con amore straordinario.

Ma non era certo il valore morale di quei volumi che potesse importare a Dodò. A lui piaceva innanzi tutto la mezz’ombra di quella libreria, che gli dava modo di dormire in pace; poi li stava tra un profumo vago di pelli e in mezzo al molle contatto de’ velluti, che gli andava a genio di molto. Era un topo d’un carattere quieto; tendeva a ingrassare come un padre priore; lasciava scherzare chi voleva: quanto a lui, gli bastava d’esser molto carezzato, di dormire come un ghiro e di mangiare. Questi erano gl’ideali della sua vita.

— Fortuna ch’è nato negli agi, quando la nostra infelice esistenza s’è cangiata in un paradiso! — diceva a volte la Caciotta a suo marito, vedendo Dodò placidamente accoccolato dentro la libreria o mangiare a tavola con un appetito formidabile. [p. 52 modifica]

Della loro origine in casa del girovago e dei viaggi zingareschi compiuti con lui, la vecchia topa doveva, a volte, intrattenere i propri figliuoli; perchè Nello e Rita li trovavano certi giorni tutti riuniti su qualche sofà, in atto di conversare, e avevano come un fremito ne’ musetti, e gli occhi ancor più lustri del solito.

Dodò, da filosofo, dopo che i suoi genitori avean richiamate tante dolorose memorie, finiva col ripetere: — Si vede che il buon Dio pensa per tutti. — E con questa saggia sentenza, spiccava un saltino, e su, tornava a rincantucciarsi fra’ suoi libri per dormirvi qualche ora prima di ricominciare a mangiare.

La Lilia, una topina che, se avesse preso marito, sarebbe diventata un’ottima madre di famiglia, girava qua e là spesso e volentieri in traccia di tutto quel che poteva portare nella sua paniera nativa; nè più nè meno [p. 53 modifica]delle formiche, che s’ingegnano tanto per accumulare le loro provviste.

E non soltanto s’impadroniva delle briciole di biscotto inglese rimaste a caso qua e là della merenda dei bimbi; ma se la contessa non chiudeva il proprio tavolino da lavoro, sparivano per incanto anche le matasse di seta e di lana di cui la signora si serviva per i suoi ricami.

— Lilia, Lilia! — brontolava spesso Letizia, spolverando il salotto; se ti vede la padrona, ti gastiga, sai, cattivaccia! Esser previdenti, mettere da parte, è bene; ma sciupar la roba o portarsela via di nascosto, è cosa degna d’un topaccio da fogna! A poco a poco, a furia di tirate d’orecchie, la Lilia capì e si corresse. Ma era sempre d’un naturale un po’ irrequieto; e quando non [p. 54 modifica]poteva far altro, ammucchiava pezzetti di pane, sapendo che per questo non era punita.

Bellino poi, diceva la Rita con frase caratteristica, era il servo sciocco della compagnia. Non intendeva nulla, non si curava di nulla: zuccone come ce n’è pochi, stava delle ore e delle giornate intere sur una poltrona che la padroncina gli aveva data vicino al proprio scrittoio, gli occhi chiusi affatto o imbambolati dal sonno. Si destava appena quando la Rita, che l’aveva preso sotto la sua protezione, lo portava a tavola. Lì mangiucchiava qualcosa, massime il dolce, poi risaliva su la spalla di Rita e tornava a dormire.

― È proprio un grullo il tuo Bellino, bimba mia, ― ripeteva sorridendo la contessa Sernici alla figlia.

― Ma è tanto buono, mamma! ― rispondeva la Rita, scusando la sua bestiola, [p. 55 modifica]mentre baciava Bellino, quasi avesse voluto compensarlo dell’altrui indifferenza.

Il topo bianco rispondeva languidamente, cogli occhietti sempre socchiusi, baciando tre o quattro volte le labbra fresche della sua signorina; poi ricadeva nel torpore abituale. Da quel torpore non era capace di smuoverlo altro che Moschino, quello spiritello di Moschino, tutto brio, tutto anima, con l’argento vivo addosso, un vero pepino.

Non ostante che Ragù e la Caciotta volessero lo stesso bene a tutti i loro figliuoli, un bene più fraterno che altro, da che i piccini eran cresciuti non avevan potuto impedire che Dodò e Moschino, ogni sera che Dio mandava in terra, costringessero Bellino a rifare il letto comune; vale a dire ad accomodare nel miglior modo, per istar tutti più morbidi, la carta e gli stracci di tela, che la Letizia aveva ordine di cambiar tutt’i giorni nella canestra dei topi. [p. 56 modifica]

E se, per caso, Bellino non andava prima degli altri nella paniera a voltarvi e rivoltarvi carta e tela, lacerandone pazientemente i pezzi che gli parean troppo grandi, Dodò e Moschino lo mordicchiavano per chiasso, e gli davan la baia.

— Rifà almeno il letto, buono a niente che sei! — gridava Moschino dopo aver addentato quel fratello tutto mortificazione e paura — Dodò farà il bibliotecario; io me la sbirberò alla meglio; a Lilia daranno marito per riprodurre la razza; di Ninì, quell’uggiosa, non so che ne sarà; e tu rifà almeno il letto, sbuccione che non sei altro! — [p. 57 modifica]

Il buon Bellino, ancor tutto tremante per i morsi e le canzonature, badava a lacerare della carta, a tirare ora qua ora là della tela, rassegnato, ormai, a ubbidire a quell’aristocratico di Dodò, e a quel prepotente di Moschino.

Rita e Nello, a volte, udivano tutto il diavoleto che succedeva nella canestra dove i piccoli gridi di Bellino erano acuti; e, accorrendo a separare i contendenti e a metter la pace, capivano benissimo di che si trattava, pur non intendendo la lingua topesca.

— Picchiano ancora quel povero servo sciocco! — esclamava la contessa commiserando il protetto di Rita, ma divertita e interessata dal diverso carattere di ciascun individuo di quella bizzarra famiglia di topi.

Ninì, fra tutti, era davvero la più seria e malinconica. Fin da piccolina non ischerzava mai di suo, ma si faceva trascinar qualche volta dall’allegria de’ suoi fratelli. Il cappuccio [p. 58 modifica]nero, più grande di quello degli altri, le dava un aspetto di lutto, che colpiva chi la mirava, perch’ella era la più carina di tutti. Aveva il

nasino d’un roseo pallido, ben uniti i dentini corti; ma gli occhi, sopra ogni cosa, eran la sua bellezza: certi occhi lunghi, obliqui come quelli d’una donnina giapponese, di quelle che [p. 59 modifica]si vedon disegnate su’ paraventi, pieni di sentimento, quasi che sempre gliel’inumidisse un leggiero velo di lacrime.

Perchè la Nini era così triste, mentre tutti di casa le volevan bene tanto e la colmavano di cure e di carezze? Era affettuosa quanto mai, ma non dava baci a nessuno, nè pure a Rita, che la trattava ancor più amorosamente degli altri, per via di quel caratterino afflitto che la faceva parere una monachina.

Moschino, lui, era l’idolo di tutti. Perfino il conte Sernici, un grave banchiere, così occupato de’ suoi affari da aver appena tempo di mangiare e di dormire, non tornava a casa una volta che non chiedesse in famiglia:

— O Moschino che fa? Dov’è? Portatemelo. —

Non sempre Moschino si faceva trovare. Era sotto un mobile, sopra un altro, dietro un cuscino, in posti sempre nuovi e [p. 60 modifica]inaspettati. Questo capriccioso d’un topo ora voleva star al caldo e s’andava a cacciar in un angolo, riparato da qualche drapperia che gli faceva come una specie di tenda; ora preferiva accoccolarsi al fresco sotto qualche vaso di fiori dove allungava la pancia; e così godeva il profumo che veniva dal mazzo e la frescura che l’acqua del vaso gli procurava.

Un giorno, dopo aver inutilmente cercato Moschino per tutta la casa, il conte tése l’orecchio a de’ suoni scordati che venivano da un salone lontano.

— Chi tocca così il pianoforte? — domandò maravigliato di quella musica singolare.

Nello corse nel salone. Su la tastiera del piano, rimasto aperto dopo che la Rita vi aveva studiato, Moschino passeggiava lentamente, con aria d’importanza, tutto soddisfatto della propria abilità a far uscir que’ vari suoni dai tasti, soltanto appoggiandovi le zampette. [p. 61 modifica]

Forse pensava: ― Non capisco come la Rita abbia così poca voglia d’imparare il

piano, quando gli è tanto facile ch’io lo suono senza avere imparato mai.... — [p. 62 modifica]

Nello portò trionfalmente Moschino al padre. — Ecco chi sonava, babbo! — diss’egli ridendo come un matto.

— Ma, signor Moschino, lei una ne fa e due ne pensa! — esclamò il conte prendendo in mano il topo, e tenendolo in piedi sur una tavola in atto di fargli una ramanzina co’ fiocchi. E soggiunse, volgendosi a Rita, che era felice di veder il suo grave babbo occuparsi dei sorcetti con tanta bontà:

— Come gli dici tu, Rita, quando lo fai star in piedi? — La bambina ripetè, ridendo:

       Mio Moschino,
          Bel topino,
          Birichino,
          Malandrino,
          Qua un bacino!

Il conte divertendosi quanto i suoi ragazzi, osservava quel musetto malizioso di sorcio [p. 63 modifica]mal avvezzo, che gli piantava in viso i suoi occhiolini furbi, per iscoprire se gli sarebbero capitate delle tirate d’orecchi o delle carezze.

Quando il topino ebbe pensato un po’, parve buttarsi al partito di trattar il conte come trattava la Rita, e subito si mise furiosamente a baciarlo, a baciarlo, senza lasciargli tempo di dire una parola. Con uno zampino gli sollevava un baffo, con l’altro s’attaccava al labbro per meglio fargli sentire la sua linguina....

― Così ― pensava ― non avrà cuore di dirmi nulla.

― È un amore, Moschino! ― dichiarò il conte ridendo. ― Quante marachelle non sono assolte, quando il perdono è chiesto con tanta buona grazia e con tanto spirito! ― E disse alla contessa, che assentiva a quelle parole: ― Questo topo, mia cara, è il più fino diplomatico ch’io abbia conosciuto. ―