Una famiglia di topi/Capitolo quinto

Capitolo quinto

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CAPITOLO QUINTO



quattro mesi Dodò pareva già un vecchio topo di tre anni, tanto era serio e ordinato in tutte le sue faccende. In uno scaffale della libreria s’era fatta una cuccia di giornali vecchi, dove andava a sonnecchiare dopo la colazione fino all’ora del pranzo. Fin da’ primi giorni aveva dimostrato più intelligenza degli altri topi, e a poco a poco, sapendo che il suo linguaggio non poteva essere inteso da’ bambini, se n’era fatto uno di gesti, per manifestare ogni suo desiderio o bisogno. [p. 66 modifica]

Quando Dodò aveva fame, scendeva bel bello dalla biblioteca, andava fiutando dove si trovava qualcuno di casa, gli s’arrampicava addosso, e gli mordicchiava una mano, ma senza far male, alzando la testa e accennando come per dire: — Guarda che mi sento cascar lo stomaco! — Quando aveva sete, cominciava a leccar le labbra a qualcuno de’ suoi padroni, per far sentire la lingua arida; o, se vedeva un bicchiere o una tazza, si levava su le zampine e tendeva le braccia con tanta insistenza, che bisognava per forza voltarsi da quella parte, e dargli quel che desiderava. Ma non per questo dimostrava minore affetto o minore riconoscenza ai suoi padroni, specie al conte, che aveva preso a volergli bene, perchè lo vedeva così giudizioso, un vero sennino d’oro.

― Dodò ― diceva il conte alle volte ― Dodò non è un topo, è un amico. ―

In fatti, tutte le mattine, dopo aver preso [p. 67 modifica]il caffè con gli altri, Dodò, a furia di cenni, si faceva metter per terra, e correva nello studio del conte. Lì s’arrampicava su la spalliera di una poltrona, e annusando l’aria, guardando attorno, preso dall’inquietudine, aspettava che il padrone entrasse a carezzarlo e a dargli il buon giorno. Allora scivolava, grave e soddisfatto, e se n’andava tranquillamente a schiacciare un pisolino nella biblioteca della contessa.

Spesso il conte non rientrava in casa fino alla sera; e allora Dodò non si moveva per nessuna ragione al mondo. Ma se per caso il conte tornava, Dodò era il primo a sentirne la voce, e giù di corsa da quella parte; gli andava incontro, s’arrampicava su la sedia più vicina, e di lì, spiccando un salto, pan! si trovava su le spalle del signore; con le zampine gli tirava la barba per farsi baciare, e gli faceva ogni sorta di feste, meglio d’un cane. Il conte si commoveva fino alle lagrime [p. 68 modifica]per l’affetto di quel topino, e ne lo ricompensava con qualche chicca o con qualche biscotto che aveva sempre in tasca per lui.

Un’altra buona qualità di Dodò era l’amore dell’ordine e della pulizia.

La sera, quando tutta la famiglia Sernici si trovava a pranzo, anche ai topi era permesso di venir su la tavola, a patto che non imbrattassero la tovaglia, trascinando i cibi fuori del vassoio. Dodò aveva imparato; e non c’era caso che si facesse dar su la voce: appoggiava le sue brave zampine su l’orlo del piatto, e mangiava piano, gustando bene ogni cosa, proprio col fare d’una persona a modo: a segno che persino Ragù e la Caciotta guardavano il loro figliuolo con grande ammirazione, come s’ei fosse il figliuolo d’un principe.

Ma gli altri topini, particolarmente quello zuccone di Bellino, qualche volta per ingordigia trascuravano le regole della buona educazione; e, non ostante i rabbuffi e le tirate [p. 69 modifica]d’orecchi, si buttavano come affamati su gli spaghetti al sugo o su la carne in umido; ne pigliavano quanto più potevano, e correndo via per la tavola come saette, insudiciavano ogni cosa. Allora il conte ordinava che i colpevoli fossero mandati in cucina: restava Dodò, il quale pazientemente raccattava gli

avanzi dispersi di quella strage, li rimetteva a uno a uno nel piattello destinato ai sorci e poi, quando aveva finito, sedeva sul didietro e abbadava a ripulirsi, a strofinarsi, a ravviarsi, a leccarsi, che non la finiva più.

— Bravo Dodo! — esclamava il conte, mentre la Rita e Nello, vedendo quell’armeggio, si tenevano i fianchi dal ridere. [p. 70 modifica]

Forse un solo vizio aveva Dodò; ma glielo perdonavano in grazia della sua molta saggezza e del molto grasso che gli era venuto, da farlo parere un padre guardiano. Era un po’ pigro, e amava i comodi e il benestare: oh quello sì! Specialmente dopo che una volta, per fare un salto da una sedia su la tavola da pranzo, era ruzzolato per terra e s’era mezzo slogata una gamba, non c’era più verso di farlo muovere altro che su’ tappeti.

Ora, quando voleva scender di tavola, s’accostava al padrone e si levava su le zampine e lo spingeva con tutto il corpo come per dirgli: — Andiamo, via! — E siccome il conte, dopo pranzo, si spassava a fare un solitario con le carte da giuoco, Dodò, che aveva sonno, ne pensò un’altra. Quando le carte erano tutte disposte in tre o quattro file, e il conte calcolava la riuscita del giuoco, Dodò s’accostava piano, prendeva una carta tra’ denti e l’andava a riporre nel piatto. Le carte [p. 71 modifica]restavano scompigliate; e il padrone che non poteva stizzirsi e non aveva pazienza di ricominciare, rideva ammirando l’intelligenza del suo topino, e presolo sul braccio, lo contentava portandolo a dormire.

La Caciotta e Ragù si tenevano assai di quel loro figliuolo; e mentre punivano gli altri con un morso o con un graffio per cagione di qualche discoleria, non s’arrischiavano di far altro che carezze a Dodò; il quale viveva circondato dall’amore e dalla considerazione di tutti. Egli portava rispetto al babbo e alla mamma; voleva bene, ma stando su le sue, a’ fratellini e alle sorelline, e aveva un debole per quello sventato di Moschino, ch’era riuscito, con le sue buone grazie, a vincer persino la serietà del fratello filosofo. Soltanto a Moschino era permesso d’andar qualche volta a trovare Dodò nella biblioteca; Moschino gli si metteva a torno a grattargli il collo e la testa co’ denti: Dodò, con gli [p. 72 modifica]occhi socchiusi sornionamente, lo lasciava fare, e gli dava de’ buoni consigli.

— Zì, zì, tu sei un cattivo soggetto, Moschino! A me non lo dài a intendere, zì, zì. Il primo dovere d’un topo onesto è quello di non rubare, e il tuo fiato sa d’olio.... Zì, zì, chi ti ha dato l’olio, Moschino?

— Se n’è bell’e accorto: che naso! — pensava Moschino; e soggiungeva a voce alta:

— Oh, Dodò, un poco d’olio trovato in cucina per terra! L’avrà versato il cuoco, per caso.

— Tu se’ bugiardo più d’un gallo, [p. 73 modifica]Moschino. Zì, zì, se l’olio fosse stato per terra, tu ti saresti unte le mani, e le tue mani in vece sanno di zucchero....

— Ah corpo d’un foglio di cartastraccia! sta’ a vedere che scopre anche questa pensava Moschino; e tanto per cambiar discorso, domandava al fratello:

— Ma non ti secchi tu a star sempre rinchiuso qua dentro?

— Zì, zì, lo studio e la meditazione son più dolci dell’olio e dello zucchero — sentenziava Dodò.

— Questione di gusti — mormorava Moschino, ridendo in cuor suo della dabbenaggine del fratello. E ripigliava:

— E cosa impari, di bello, ne’ libri?

— Imparo, zì, zì, la storia de’ topi che son vissuti prima di noi: una storia piena di buoni insegnamenti, che m’impedisce di fare troppi spropositi.

— Oh bravo! — esclamava Moschino, che [p. 74 modifica]sapeva di stuzzicare così l’amor proprio del perchè tu, che sei tanto istruito, fratello, non me la racconti?

― Volentieri, se stai buono. Speriamo che almeno ti serva a qualcosa. Ma bada, è tutta in versi, centocinquantamila versi....

― Signore Iddio benedetto!... E i versi che cosa sono?

― È un po’ difficile a dirsi; ma ti porto un esempio. A te che piace di più: quando la signora contessa parla come al solito, o quando parla accompagnata da’ suoni del pianoforte?

― Oh quando parla co’ suoni, è più dolce!

― Bravo: fa’ conto che tutt’i giorni parli in prosa, e quelle volte parli in versi. I versi sono delle parole come la prosa, ma combinate più armoniosamente.

― Ho inteso, via! come la farina e i cialdoni: la farina è in prosa, i cialdoni sono in versi. [p. 75 modifica]

— Tu non sei così ignorante come sembri — disse placidamente Dodò.

— Grazie, troppo buono! — rispose Moschino. — O dunque, cotesta storia?

— Ti racconterò qualcosa che ho letto oggi per l’appunto. Ma sta’ bene attento, veh!

— Non dubitare. — Zì, zì, cominciamo.

  — Un topolino di testa leggiera
     Trovando troppo piccola
     La tana ov’era cresciuto, una sera
     Insieme a una combriccola
     D’amici, prese la strada del vizio.
     Lo zio tentò, ma invano,
     Di ricondurlo a’ suoi. «Siete un supplizio»
     Rispondeva quell’altro, e in un momento
     Gli sguisciava di mano,
     E andava a sbizzarrirsi a suo talento
     Ora al biliardo ed ora all’osteria,
     Sempre con quella bella compagnia.
   Ma il gatto arrivò piano sul più bello,
     E, senza un soffio o un fremito,

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     Gli saltò addosso. «Zì» grida il monello,
     «Zì» con un lungo gemito.
     Lo zio l’udì gridare, ebbe una stretta,
     E se n’afflisse assai,
     Ma disse: «Eh sì! dovevi darmi retta
     Pria di pigliare la cattiva via.
     Ora che se’ne’ guai,
     Sconta per quando andavi all’osteria.»
   ― Chi, quando ha tempo, ricusa l’aiuto,
     Lo chiede invano, se il tempo è perduto.

― Che ne dici? ― conchiudeva Dodò aprendo a mezzo gli occhi, e guardando il fratello.

― Dico che non è molto allegra, la storia ― rispondeva Moschino, divenuto a un tratto pensoso. Poi soggiunse:

― Eppure, vedi, il mondo ha da esser qualcosa di bello, se c’è de’ topi che rischiano di incappare nell’unghie del gatto per la smania di girare.

― E tu gira! ― diceva Dodò filosoficamente. [p. 77 modifica]

― Oh, io no! Non voglio mica morire di mala morte, io.... Brrr.... quando ci penso, mi s’accappona la pelle.

― E tu non girare ― diceva Dodò con la solita calma.

― Oh, sai che c’è? ― prorompeva Moschino, il quale non amava que’ discorsi ― sarà quel che Dio vuole; intanto andiamo a desinare, che sento la voce del padrone. ―

Dodò rizzava le orecchie, e balzava in piedi; Moschino andava avanti, e tutti e due scivolavano dalla libreria e correvano balzellon balzelloni nella stanza da pranzo.

Ma una sera, i due topi trovaron la stanza al buio, e aspettarono un pezzo prima che il conte venisse a tavola. Nel salotto della contessa s’udiron de’ passi, delle voci concitate, poi de’ singhiozzi, e i bambini che gridavano:

— Papà mio! povero papà mio!

― Che sarà? ― pensava Dodò, mentre [p. 78 modifica]Moschino, un po’ spaurito, gli si serrava accosto, e anche gli altri topini gli eran da torno per avere spiegazioni.

In quella s’aprì l’uscio e fu visto il conte uscire a braccetto della contessa, tenendo la mano sul capo de’ suoi bambini.

― Siamo poveri ― disse il bravo signore, rattenendo a stento le lagrime, ― ma almeno avremo sempre la pace e l’affetto che aiutano a sopportare qualunque sventura.

― Oh sì, papà! ― disse Rita aggrappandosi con le due mani al braccio del padre, mentre Nello gli abbracciava le gambe.

― E poi ― soggiunse questi io divento grande, lavoro, e riguadagno tutto quello che abbiamo perduto.

― Ecco un ragazzo che ha più coraggio di me ― disse il conte, pigliando il figliuolo in braccio, e baciandolo. ― Ma ― soggiunse ― che dirai tu, quando i tuoi compagni di scuola ti domanderanno perchè non hai più la tua [p. 79 modifica]carrozza, e i tuoi be’ vestitini eleganti e.... — La voce del conte tremava.

— Dirò rispose il fanciullo a testa alta e con accento vibrato — come hai detto tu: che siamo diventati poveri perchè abbiamo voluto salvare prima di tutto l’onore; e l’onore non si compra a quattrini.

— Bravo ragazzo! — conchiuse il padre rasciugando ancora una lagrima, e dando un bacio alla moglie; — ora andiamo a desinare. —

A punto la Letizia stava apparecchiando. In quel frattempo, i topini domandavano tutti a Dodò:

― Ebbene, hai capito niente tu?

— Sì, ho capito che il padrone ha perduto tutto quello che aveva.

— Oh povero signore! e come l’avrà perduto? — chiese la Caciotta.

— Non lo so, mamma, ― rispose gravemente Dodò. [p. 80 modifica]

― Sicchè, ora i topi dovranno sgomberare? ― domandò Moschino grattandosi un orecchio.

― Speriamo di no, Dio mio! ― esclamò il povero Ragù, che aveva una paura estrema di capitare un’altra volta nelle mani dell’antico padrone.

― Intanto bisogna esser buoni ― conchiuse Dodò ― e mangiar quel che si trova, senza cercare le leccornie, che non si possono più avere. ―

Tutti si misero a tavola. Il conte mangiava di mala voglia; la moglie e i figliuoli lo guardavano e stavano zitti: nessuno pensava ai topini. Ma i topini, che avevano udite le raccomandazioni di Dodò, non osavano domandar nulla, per paura di contristare il padrone. Eppure avevano fame: da sei ore non mangiavano.

Allora Dodò prese una risoluzione. Aspettò che fosse diviso il formaggio portato in [p. 81 modifica]tavola dalla Letizia su due pampini in un tovagliolo, e impadronitosi pian pianino d’una di quelle foglie, la portò di trotto nel piatto destinato a’ suoi; e tutti i topi si misero subito ad addentarla di gusto.

Il conte vide tutto, e fu preso da una gran tenerezza.

― Oh Dodò! ― esclamò — tu pure vuoi dirmi che sopporterai la miseria senza lagnarti. Povera bestia! povera bestia! ― E preso in mano il topino, lo coprì di baci. Dodò lasciava fare e, quando il conte l’ebbe posato di nuovo su la tavola, ei gli prese un dito con le manine, e cominciò a leccarlo furiosamente, alzando la testa e guardando il padrone, come per attestargli la devozione sua e di tutta la piccola famiglia de’ topi.

Da quella sera, Dodò non ebbe più altro pensiero che quello di confortare il padrone; il quale passava la maggior parte della giornata in casa a lavorare nel suo studio o in [p. 82 modifica]quello della contessa, facendo conti, ricevendo creditori, scrivendo lettere, gettando su la carta progetti di nuove speculazioni. Delle volte, mentre si torturava il cervello a trovar qualche accomodamento, d’un tratto sentiva un balzo su le ginocchia: era Dodò, che dal piano inferiore della scrivania saliva a fargli una visita, a carezzarlo e a baciarlo. Allora il povero signore si distraeva per un po’ da’ suoi pensieracci, e tutto commosso delle premure del suo topino, gli diceva tante cose affettuose, come a un altro figliuolo.

Dodò doveva aver imparato a conoscere i creditori del conte da’ modi sgarbati con cui entravano in casa; e bisogna dire che, non ostante la sua grande pazienza, proprio non li poteva vedere. Quando ce n’era qualcuno in salotto, ei v’andava di corsa, gli girava in torno e s’industriava di salire alla chetichella sul divano, per potere appiccicargli un morso da lasciargli il segno. Il conte sorrideva [p. 83 modifica]tristemente, se lo pigliava in braccio e lo metteva sur un’altra sedia, dicendogli:

— Via, Dodò, sta’ fermo, sta’ buono, povera bestia! —

Ma Dodò non si chetava, e testardo come un mulo, tornava all’assalto, senza mai darsi pace fin che quell’altro non fosse andato via. Allora il padrone se lo pigliava su le ginocchia, e carezzandogli il dorso, gli diceva:

— Povero Dodò! hai paura che ci portino via la roba di casa, eh, povera bestia? Ma non la porteranno via, no, Dodò: non aver paura, povero vecchio! — E il topino che intendeva, si struggeva in cuor suo di non potere rispondere, e badava solo a leccare, a leccare le mani del conte. Ah, se gli fosse riuscito d’acchiappare il dito a uno di quei brutti uomini, che venivano a tormentare il padrone!

Una volta, alla fine, se ne potè cavare la voglia. Sonnecchiava, dopo colazione, nella [p. 84 modifica]solita libreria, dietro una bella fila di libri rilegati; quando gli parve d’udir delle voci. Tende gli orecchi; la Letizia diceva:

— S’accomodi! passi! vado ad avvisare il padrone.

― Bene, bene! — rispondeva una voce burbera.

Dodò fiutò l’aria: quell’odore non gli era nuovo. Appoggiò le mani a un libro, sporse il musetto: — Ah pezzo di brigante! l’aveva riconosciuto. — Era uno che un’altra volta, essendo venuto in casa, visto Moschino sur una sedia, gli aveva gridato: — Va’ via, brutta bestiaccia! — e aveva afferrato il bastone. Ma sì! Moschino con le sue gambe da grillo, in tre salti era scappato sotto un armadio, di dove non lo avrebbe snidato neppure il diavolo.

Stava giusto pensando a codesto, quando gli parve di sentire uno stropiccio su’ libri, dall’altra parte; si mette in ascolto, annusa l’aria: — è lui, è lui che vuol rubare — [p. 85 modifica]pensava Dodò ― i libri a’ padroni. Ora ti concio io! ― Pian pianino, ritirando le unghie, senza pur toccare il legno con le zampe, Dodò striscia da quella parte dove il rumore si facea più distinto, e arriva in tempo per vedere una manaccia pelosa che pendeva sopra un volume. Fece un balzo di quelli come non ne aveva fatti più da molti mesi, e i suoi quattro dentini, lunghi e acuti come aghi, si ficcarono fino all’osso in un dito del malcapitato.

― Ahi! ahi! ― si mise a gridare colui ― ma che tengono qui dentro? che cos’è quella bestia? ―

Il conte entrava appunto in quel momento.

― Che ha? che le accade? ― gridò subito al visitatore.

― Ma guardi un po’ che m’ha fatto quella bestiaccia! Un cane, proprio un canaccio di strada! O che pare un morso di un topo questo? Guardi come fila il sangue....

― Mi dispiace, mi dispiace davvero.... ― [p. 86 modifica]riprese il conte. — Ah Dodò, Dodò! ti punirò — soggiunse facendo un atto di minaccia verso la libreria.

L’altro seguitava a raccontare:

— Stavo aspettandola.... guardavo in tanto la libreria.... faccio per pigliare un libro.... e [p. 87 modifica]mi sento lacerare il dito a questo modo.... Ma guardi, ma guardi! Bisogna che vada a farmi medicare alla farmacia. E, dica un po’, non c’è pericolo che quella bestiaccia sia arrabbiata?... perchè ho sempre sentito dire che a’ topi viene la rabbia istantanea come aʼ gatti....

— No, non abbia paura dichiarò il conte che non sapeva come fare, non ostante i suoi guai, per tenersi dal ridere.

Frattanto Dodò, seduto pacificamente nella libreria, si ripuliva i baffi e la testa; e ascoltando quei lamenti che non finivano mai, diceva fra sè:

— Strilla, strilla pure quanto ti piace; per questa volta hai avuto quel che ti meritavi, pezzo di birba che non sei altro! E con che furia veniva a portarsi via i libri de’ padroni!... Tu credevi che Dodò non se n’avvedesse e ti lasciasse fare, eh, canaglia?... Capisco che adesso mi toccherà una tirata d’orecchi, perchè il padrone non vuole ch’io morda [p. 88 modifica]nessuno; ma me la piglio di cuore; com’è vero che sono un topo, me la piglio di cuore!... —

Infatti, il conte, dopo aver chiamata la moglie e averle narrato l’accaduto, mise la mano nella scansia per impadronirsi del topo e punirlo. Ma la contessa fu più lesta; Dodò corse da lei, che lo prese ridendo e se lo mise nel petto, scappando subito via per risparmiargli la tirata d’orecchi.

Il conte, che non doveva avere una gran voglia di dar quel gastigo, si contentò di gridare:

― Ah Dodò, se lo fai un’altra volta!...

― Magàri ― pensava Dodò, ora che si sentiva al sicuro; e quando la contessa se lo trasse dal petto, egli le diè tanti baci, tanti baci, per dirle che proprio era contento d’aver morso quel soggettaccio, che tormentava gli uomini e trattava male le povere bestie.