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XVI XVIII

Gare di nuoto con le fanciulle della vallata – Una canoa – Effetti del «taboo» – Una gita di piacere sul laghetto – Leggiadro capriccio di Fayaway – Un vestito da signora – Arrivo d’un forestiero – Suo misterioso contegno – Eloquenza indigena – L’intervista – Risultati – Partenza del forestiero.

La salute riacquistata e la serenità dello spirito, rivestivano ogni cosa intorno a me di nuovo interesse. Cercavo di variare ora il mio tempo con tutti i divertimenti possibili. Fare il bagno in compagnia di un gruppo di fanciulle rappresentava uno dei miei passatempi favoriti. Talvolta sceglievamo allo scopo un laghetto in miniatura in cui si riversavano le acque del fiume principale della valle. Questo delizioso specchio d’acqua aveva forma quasi circolare ed era largo quasi trecento metri. Esso era di indescrivibile bellezza. All’intorno sulle sue sponde sorgevano lussureggianti piante tropicali, al di sopra delle quali, qua e là s’innalzavano i fusti alti e simmetrici degli alberi di cocco, sormontati da leggiadri ciuffi di ramoscelli ondeggianti al vento come penne di struzzo.

La disinvoltura e la grazia con cui le fanciulle della vallata si tuffavano nell’acqua, e la loro familiarità con questo elemento, erano davvero meravigliose. Talvolta scivolavano, appena sotto la superficie, senza che apparentemente movessero nè mani nè piedi; poi buttandosi sul fianco, si slanciavano come freccie attraverso l’acqua, rivelando parte delle proprie forme quando, nella rapidità della corsa, per un istante ne balzavano fuori; un momento erano immerse in fondo all’acqua, e il momento dopo si risollevavano con un balzo alla superficie.

Ricordo che una volta, tuffatomi in mezzo a una compagnia di queste ondine, avevo cercato, facendo affidamento sulla mia forza, di attirarne qualcuna sotto acqua. Ma le giovani anfibie, sciamando intorno a me come una frotta di delfini, m’avevano afferrato per le membra, e, attiratomi sotto il pelo dell’acqua, m’avevano fatto rotolare e capitombolare, sinchè per gli strani rumori che mi suonavano nelle orecchie e per le visioni soprannaturali che mi passavano dinanzi agli occhi, avevo davvero creduto di trovarmi nel mondo degli spiriti. M’avevano poi infine lasciato andare, lanciandosi a nuoto in ogni direzione, mentre io, tentando invano di raggiungerle, pensavo che tra loro non avrei mai avuto più fortuna di una grossa balena attaccata da ogni lato da una legione di pesci spada.

Non v’erano altre barche sul laghetto; ma per farmi piacere, alcuni giovani della casa di Marheyo, sotto la direzione dell’infaticabile Kory-Kory, vi avevano portato dal mare una leggera canoa graziosamente intagliata e scolpita. La varammo sulle acque del laghetto dove si dondolava con tutta la grazia d’un cigno. Ma, triste a dirsi, la sua comparsa produsse un effetto che davvero non mi aspettavo. Le gentili ondine, che avevano folleggiato con me sul lago, ora fuggirono tutte lontano. La navicella proibita, salvaguardata dagli editti del «taboo», estendeva il divieto anche alle acque su cui galleggiava.

Per alcuni giorni, Kory-Kory e uno o due altri giovanetti, mi accompagnarono nelle mie escursioni sul lago, e mentre io spingevo avanti colla pagaia la mia leggera imbarcazione, essi nuotavano dietro a me gridando e facendo capriole. Ma ciò era ben lungi dal soddisfarmi. Presto cominciai anzi ad essern- stanco e a desiderare più che mai la piacevole compagnia delle sirene senza le quali ogni divertimento era noioso ed insipido. Una mattina espressi al mio fedele servitore il mio desiderio che tornassero le ondine. L’onest’uomo mi guardò stupito per un istante, poi solennemente scosse il capo, mormorando: «taboo! taboo!», e facendomi capire che se la canoa non veniva allontanata, non potevo sperare nel ritorno delle fanciulle. Ma io invece desideravo che la canoa rimanesse dov’era, e nello stesso tempo assolutamente volevo che la bella Fayaway potesse entrarvi per vogare con me sul lago. Ciò fece inorridire Kory-Kory: un fatto simile non solo urtava contro ogni decoro, ma cozzava addirittura colle regole religiose.

Comunque, sebbene il «taboo» fosse una faccenda assai delicata da trattare, pure decisi di fare il possibile per riuscire nel mio intento. Consultai il capo Mehevi, e questi cercò subito di distogliermene; ma io non mi lasciai persuadere e raddoppiai le mie insistenze. Allora egli prese a fare una lunga e certo assai dotta dissertazione sulla storia e la natura del «taboo» nei riguardi di questo speciale caso. Vi impiegava un gran numero di svariate e straordinarie parole, che, per la loro sonorità e stranezza, ho tutte le ragioni di credere fossero di natura teologica. Tuttavia il suo discorso non perveniva a convincermi, in parte forse perchè non ne comprendevo una sola parola; e massimamente poi perchè, ne andasse anche la vita, non capivo come una donna non avesse lo stesso diritto di un uomo di entrare in una canoa. Sicchè infine Mehevi divenuto alquanto più ragionevole, dichiarò che pel grande amore che mi portava, avrebbe consultato i sacerdoti e veduto ciò che si poteva fare per accontentarmi.

In che modo il clero di Typee mettesse d’accordo la mia richiesta colla propria coscienza, lo ignoro; ma così avvenne, e Favaway fu dispensata da questo articolo del «taboo». Non credo che prima d’allora un fatto simile si fosse mai riscontrato nella vallata; ma dopo tutto era tempo che agli isolani fosse insegnata un poco di galanteria, e spero che la spinta da me data abbia portato buoni frutti. Ridicolo davvero, che le vezzose creature dovessero sguazzare nell’acqua come tante anitre, mentre una turba di tarchiati giovanotti potevano scivolare sulla sua superficie nelle loro canoe!

Il primo giorno dell’emancipazione di Fayway, avemmo una graziosa festicciuola sul lago – la damigella, Kory-Kory ed io. – Il mio zelante servitore aveva portato da casa una calebassa piena di «poee-poee», mezza dozzina di fresche noci di cocco già sgusciate, tre pipe, tre frutti di yam, e aveva voluto portare anche me sulle spalle per un bel tratto di strada. Un peso davvero rispettabile; ma Kory-Kory era un uomo assai forte e certo non fragile di spina dorsale. La giornata trascorse assai piacevolmente. Il mio buon servitore maneggiava la pagaia con rara destrezza e ci sospingeva dolcemente sul margine dell’acqua, all’ombra delle piante. Fayaway e io stavamo mollemente adagiati a poppa della canoa e la mia ninfa gentile si portava di tanto in tanto la pipa alla bocca esalando i miti vapori del tabacco a cui il suo alito profumato di rosa aggiungeva nuova fragranza. Parrà strano, pure non v’è nulla in cui una bella giovane appaia più vezzosa che nell’atto del fumare. Non è, ad esempio, affascinante la Peruviana, mentre cullandosi nella sua graziosa amaca, stesa tra due alberi di arancio, aspira la fragranza di una fine sigaretta? Ma Fayaway, che delicatamente tiene nella bella manina olivastra il lungo stelo della pipa, di tanto in tanto emettendo dalla bocca e dalle narici leggere nubi di fumo, è più seducente ancora!

Vagammo così all’intorno per parecchie ore, talvolta alzando gli occhi verso il caldo e rutilante cielo tropicale, e tal altra abbassandoli verso le trasparenti profondità; e quando i miei sguardi si distoglievano dall’incantevole paesaggio e si posavano sulle membra grottescamente tatuate di Kory-Kory o incontravano lo sguardo pensoso di Fayaway, mi pareva di essere stato trasportato in qualche regione fiabesca tanto ogni cosa mi sembrava irreale.

Questo bellissimo specchio d’acqua era il luogo più fresco della vallata, e ora io ne feci la mia usuale residenza nel periodo più caldo della giornata. Un lato di esso giaceva vicino al termine di una lunga gola gradatamente allargantesi e saliente verso le alture circostanti la valle. Il vento impetuoso, ostacolato nella propria corsa da queste alture, turbinava sulle alte vette, scendendo talvolta pel precipitoso burrone e irrompendo nella vallata dove increspava al suo passaggio le acque immote del laghetto.

Un giorno, dopo aver vogato per qualche tempo sul lago, sbarcai Kory-Kory, e aiutandomi colla pagaia, diressi la canoa sopravento. Quando voltai la canoa da quel lato, Fayaway, che era con me, parve colpita da una bella idea. Con un grido di esultanza, sciolse dalla sua persona l’ampio manto di tappa annodato sull’omero, e spiegatolo a guisa di vela, restò eretta colle braccia tese sulla poppa della canoa. Noi americani ci vantiamo degli alberi delle nostre navi, così diritti, ma un albero di maestra più leggiadro della figurina eretta di Fayaway, che teneva spiegata l’improvvisata vela sulle braccia protese, certo non si vide mai a bordo di qualsiasi naviglio.

Ben presto il manto di tappa fu investito e steso dalla brezza – le lunghe trecce nere di Fayaway ondeggiavano al vento – mentre la canoa scivolava rapida sull’acqua e si avviava alla riva. Seduto a poppa, ne diressi la corsa colla pagaia fino alla sponda verdeggiante, dove KoryKory, che aveva osservato con grande ammirazione le nostre manovre, batteva le mani con entusiasmo e gridava come un pazzo.

Se il lettore non si è accorto prima d’ora come io fossi dichiarato ammiratore della bella Fayaway, debbo pensare che egli è ben poco pratico degli affari di cuore, nè perderò quindi tempo a rischiarargli le idee. Dalla cotonina che avevo portato dalla nave, fu ricavato un vestito per la fanciulla, la quale, a dir la verità, in questo suo nuovo costume che principiava dalla cintura e terminava abbastanza lontano da terra da lasciar scorgere le più incantevoli caviglie dell’universo, assomigliava non poco a una ballerina dell’Opera.

Il giorno mi cui per la prima volta Fayaway indossò questo vestito, restò anche memorabile per una nuova conoscenza che feci. In quel pomeriggio stavo coricato in casa sulle stuoie, allorchè udii fuori un gran chiasso; ma poichè ero ormai abituato alle selvaggia grida che si udivano continuamente nella vallata, non vi posi molta attenzione, sinchè il vecchio Marheyo, che pareva in preda a una strana eccitazione, accorse in mia presenza e mi comunicò la sorprendente notizia: «Marnoo pemi!», il che voleva dire che un individuo di nome Marnoo stava avvicinandosi. Il mio vecchio amico evidentemente si attendeva che questa notizia producesse un grande effetto su di me, e stette un bel po’ ad osservare in qual modo mi sarei comportato, ma siccome rimasi perfettamente indifferente, si slanciò di nuovo fuori di casa colla stessa fretta con cui v’era entrato.

«Marmoo, Marmoo», pensavo intanto io, «non ho mai udito quel nome e m’immagino che sarà qualche distinto personaggio, se debbo giudicare dal frastuono che fanno gli indigeni; il clamore ora si avvicinava, e la parola «Marnoo! Marnoo!», pareva essere ripetuta da tutti.

Ne conclusi che qualche selvaggio di gran merito, che non aveva ancora l’onore di conoscermi, desiderava probabilmente presentarmi i suoi ossequi. Ero divenuto così vanitoso, in seguito alle sperticate attenzioni alle quali mi avevano abituato, che mi sentivo propenso a ricevere freddamente questo «Marnoo» per punirlo della sua negligenza, quando la folla rumorosa irruppe nella stanza spingendo avanti a sè il più sorprendente campione umano ch’io m’avessi mai veduto.

Lo straniero non poteva avere più di venticinque anni ed era alquanto più alto del normale; se fosse stato appena un centimetro più alto, la perfetta simmetria e proporzione del suo corpo sarebbe stata distrutta. Le sue membra ignude erano magnificamente modellate; e l’elegante figura, insieme con le guancie del tutto rasate, avrebbero potuto dargli il diritto di raffigurare l’Apollo Polinesiano. In verità, il perfetto ovale del suo viso e la regolarità di ogni suo tratto, mi ricordavano un busto antico; ma qui l’immobilità del marmo artistico era rimpiazzata da un tale calore di vita e da una sì vivida espressione, quali soltanto si ritrovano negli isolani dei mari tropicali, che vivono nella più favorevole espansione della primitiva natura. I capelli di Marnoo, color castagno scuro, erano ricciuti e aggiustati intorno alle tempie e al collo in piccole buccole che si muovevano ogni qualvolta egli si animava nella conversazione. Le guancie avevano una morbidezza femminea, il viso era completamente scevro di tatuaggio, quantunque il resto del suo bel corpo fosse tutto un intrico di fantastiche figure, le quali tuttavia, a diversità dei disegni senza nesso che deturpano gli isolani, parevano essere state eseguite su un disegno prestabilito.

Attrasse sopratutto la mia attenzione il tatuaggio del suo dorso, e pensai che chi l’aveva fatto, dovesse eccellere nella propria arte. Tracciato lungo la spina dorsale si vedeva delineato con cura il fusto snello e affusolato del bellissimo albero noto sotto il nome di «artu». Stendentisi dal sottile tronco erano i graziosi rami ricchi di foglie, tutte correttamente disegnate e curate nei minimi particolari. In verità questo tatuaggio era certo il migliore esemplare delle Arti Belle ch’io avessi veduto a Typee. Guardato per di dietro, questo disegno si sarebbe potuto interpretare come una vite stesa contro il muro di un giardino. Sul petto, sulle braccia e sulle gambe erano tracciate un’infinità di figure, ognuna delle quali, però, pareva connettersi col disegno generale. Il tatuaggio che ho descritto, era del più vivido azzurro, e contrastando col colore leggermente olivastro della pelle, produceva un effetto sorprendente, direi quasi elegante.

Una leggera cintura di tappa bianca, non più larga di cinque centimetri, ma che pendeva davanti e dietro in un gran numero di fiocchi, componeva tutto l’abbigliamento del forestiero.

Egli si avanzava attorniato dagli isolani, portando sotto un braccio un piccolo rotolo di stoffa indigena e nell’altra mano una lunga lancia riccamente decorata. I suoi modi erano quelli di un viaggiatore che sa di essere giunto a una piacevole sosta nel proprio viaggio. Di tratto in tratto con fare allegro si voltava verso la folla che lo circondava, e rispondeva con brio alle numerose domande che gli erano rivolte; e le sue risposte dovevano certo essere comiche, perchè grandi erano le risate che suscitavano.

Colpito dal suo contegno e dalla singolarità del suo aspetto, così diverso da quello degli indigeni, involontariamente mi alzai quando egli entrò in casa, e gli offersi di accomodarsi sulle stuoie vicino a me. Ma senza degnarsi d’un cenno di ringraziamento pel mio atto cortese, ed anzi non mostrando neppure di avvedersi della mia presenza, lo straniero passò oltre andandosi a sdraiare all’estremità opposta del lungo divano traversante l’abitazione di Marheyo.

La cosa naturalmente mi sdegnò, poichè la condotta dei selvaggi verso di me mi aveva indotto ad attendere da ogni nuovo arrivato le stesse stravaganti espressioni di curiosità e di simpatia. Ciononostante, la singolarità del fatto non fece che accrescere il mio desiderio di sapere chi mai fosse questo importante personaggio.

Tinor gli pose dinanzi una calabassa di poee-poee; che lo straniero parve gradire assai, e cominciò subito a mangiare, alternando ogni boccone con qualche breve esclamazione, che era ripetuta con gran vivacità dalla folla che riempiva la sala. Notando la straordinaria devozione degli indigeni verso di lui e la loro temporanea noncuranza per la mia persona, sentii crescere il mio risentimento. «La gloria di Tommo è tramontata», pensavo, «e più presto se n’andrà dalla vallata, tanto meglio sarà». Erano questi i miei sentimenti in quel momento, certo ispirati da quel glorioso principio, innato in tutti i caratteri eroici: la radicata determinazione di appropriarci la parte più cospicua della torta, oppure di rinunciare ad averne affatto.

L’interessantissimo Marnoo, dopo aver soddisfatto il proprio appetito e tirato qualche buffata di fumo dalla pipa che gli avevano accesa, si lanciò ora in un discorso che incatenò completamente l’attenzione del suo uditorio.

Comprendevo ben poco di quel linguaggio, ma dai suoi gesti animati e dalla mobile espressione dei suoi tratti – che si riflettevano come in altrettanti specchi sui volti dei presenti – mi riuscì tuttavia capire di qual natura fossero le passioni che egli tentava di destare. Dalla frequente ripetizione delle parole «Nukuheva» e Franee» (Francese), e di alcune altre che conoscevo, egli doveva narrare gli eventi che avevano avuto luogo recentemente nelle baie circostanti. Ma non mi riusciva comprendere come mai gli fosse possibile conoscere questi fatti, a meno che egli arrivasse allora da Nukuheva, cosa che pareva avvalorata dall’aspetto di viaggiatore. Ma, se era un indigeno di quel paese, come mai si spiegava un sì amichevole ricevimento da parte dei Typees?

Mai non mi era stato dato di presenziare a una tale dimostrazione di eloquenza naturale come quella spiegata da Marnoo nella propria orazione. L’eleganza delle attitudini che assumeva, i gesti vivi ed animati delle braccia, e sopratutto il lampeggiare dei lucidi occhi, impartivano una tale espressione ai mutevoli accenti della sua voce, da poter fare onore a un oratore dei più rinomati. Un momento, sdraiato su di un fianco sulla stuoia e appoggiato tranquillamente sul braccio ripiegato, raccontava con ricchezza di particolari l’aggressione dei francesi, le loro visite ostili nelle rade circostanti, enumerandole tutte: Happar, Puerka, Nukuheva, Tior; il momento dopo balzando in piedi e precipitandosi in avanti coi pugni stretti e il viso contraffatto dallo sdegno sferrava una serie di contumelie e di ingiurie. Quindi, raddrizandosi maestosamente in un’attitudine di comando, esortava i Typees a resistere a questi tentativi di conquista, ricordando loro, con un fiero sguardo di esultanza, che fino allora li aveva preservati da un attacco, il terrore che incuteva il loro nome. Assumendo poscia un’espressione di schiacciante ironia, parlava della meravigliosa intrepidità dei Francesi, i quali, con cinque canoe da guerra e centinaia d’uomini, non avevano ardito assalire i nudi guerrieri della loro vallata.

L’effetto prodotto sull’uditorio da questa arringa fu addirittura elettrizzante; tutti stavano con occhi lucenti ad ammirare l’oratore, le membra tremanti, quasi ascoltassero la voce ispirata d’un profeta.

Non appena ebbe finito la violenta sua diatriba, Marnoo si adagiò di bel nuovo sulle stuoie, e cominciò a dirigere la parola a uno per uno, chiamandolo per nome, in modo certo assai comico poichè ciò destava nell’assemblea la più schietta ilarità.

Aveva una parola per tutti, e non solo si rivolgeva agli uomini, ma anche alle donne. Dio sa che cosa diceva a quest’ultime, ma certo è che le sue parole destavano il sorriso sulle loro labbra e il rossore sull’ingenuo viso. Anzi, a dire il vero, c’era da credere che Marnoo col suo magnifico personale e i suoi modi affascinanti, fosse una bella birba con le semplici fanciulle dell’Isola.

In tutto questo tempo egli non mi aveva degnato d’uno sguardo, e in verità pareva ignorare la mia presenza. Nè io riuscivo a comprenderne la ragione. M’ero accorto facilmente che era un personaggio assai autorevole tra gli isolani, che possedeva talento non comune ed era dotato di una istruzione superiore a quella degli abitanti della vallata. Per queste ragioni io quindi temevo che, essendo, per chi sa quale ragione, animato da ostili sentimenti verso di me, egli avrebbe potuto far uso della sua potente influenza per farmi del male.

Era evidente che egli non abitava in permanenza nella vallata, ma, allora, da dove poteva essere venuto? I Typees erano attorniati da ogni lato da tribù ostili, e come poteva essere possibile che appartenendo egli a qualcuna di queste, lo ricevessero qui con tanta cordialità?

Persino l’aspetto esteriore di cotesto enigmatico forestiero faceva restar perplessi. Il viso, privo di tatuaggio e il capo non tosato, erano caratteristiche che io non avevo mai notato in alcuna parte dell’Isola, mentre sapevo che l’opposto veniva considerato speciale distinzione del guerriero delle Marchesi. La cosa mi riusciva perciò incomprensibile e attendevo con ansietà la soluzione dell’enigma.

Finalmente, da certi indizi, sospettai di essere ora l’oggetto della sua attenzione, per quanto egli evitasse sia di pronunciare il mio nome che di guardare dalla mia parte. A un tratto si alzò dalle stuoie e continuando a discorrere cogli astanti mosse verso di me, senza tuttavia guardarmi, sedendosi poscia a circa un metro dal posto dove ero seduto io. Non m’ero ancora riavuto dallo stupore, allorchè si voltò di colpo e benevolmente mi stese la mano. Quindi, non appena le nostre destre si furono incontrate, si chinò verso di me, e con voce assai gentile mi domandò in inglese:

— Come stai? Da quanto sei in questa vallata? Ti piace?

Fossi stato ferito simultaneamente da tre lancie Happars, non avrei potuto rimanere più colpito di quanto lo fui a queste semplici parole. Per un istante, sopraffatto dallo stupore, non so che cosa risposi; ma poi, ripreso il mio sangue freddo, compresi che forse avrei potuto sapere da questo individuo qualche cosa di Toby. Lo interrogai perciò sulla sparizione del mio compagno, ma egli negò di averne il minimo sentore. Allora gli chiesi da dove proveniva. Rispose, da Nukuheva. Quando gliene espressi la mia sorpresa, mi fissò per un istante come se godesse della mia perplessità, quindi, colla sua strana vivacità esclamò:

— Ah! io taboo, – io andare Nukuheva, io andare Tior, – io andare Typee, – io andare dappertutto – nessuno fare male a me – io taboo.

Questa spiegazione mi sarebbe riuscita incomprensibile, se non mi fossi ricordato ciò che avevo udito su un uso singolare vigente tra queste popolazioni. Sebbene il paese sia abitato, da varie tribù, la cui mutua ostilità preclude ogni rapporto tra loro, vi sono però dei casi in cui un individuo, che ha contratto amichevoli relazioni con qualche altro individuo appartenente a una regione i cui abitanti sono in guerra colla sua, può per la speciale concessione del «taboo», introdursi con impunità nel paese del proprio amico, laddove in altre circostanze sarebbe trattato da nemico. E l’individuo così protetto è chiamato «taboo», la sua persona essendo tenuta come sacra. Ora Marnoo aveva appunto libero accesso in tutte le valli dell’Isola.

Curioso di sapere in qual modo egli avesse acquistato la conoscenza dell’inglese, lo interrogai al riguardo. A tutta prima, per qualche sua speciale ragione, evase la domanda; ma poi finì col dire che nella sua fanciullezza s’era imbarcato sopra una nave mercantile ed era rimasto tre anni con quel capitano, vivendo un po’ di tempo con lui a Sidney, dopo di che, ritornati all’Isola, egli gli aveva concesso di rimanere tra i propri compaesani. La pronta intelligenza del selvaggio si era di molto sviluppata nei suoi rapporti coi bianchi, e la conoscenza di un idioma forestiero gli dava un grande ascendente sui compatrioti.

Allorchè chiesi all’amabile Marnoo perchè non mi avesse subito indirizzata la parola, egli volle prima sapere ciò che io avevo pensato di questo suo contegno. Gli risposi che l’avevo preso per un grande Capo, il quale, avendo già visto moltissimi bianchi, non aveva creduto che valesse la pena di interessarsi di un povero marinaio. Sentita l’alta opinione che avevo di lui, Marnoo apparve molto soddisfatto, e mi fece comprendere che aveva agito così allo scopo di aumentare il mio stupore non appena avesse creduto giunto il momento di rivolgermi la parola.

Ora Marnoo volle sapere in che modo ero divenuto ospite dei Typees; e con palese interessamento ascoltò la narrazione delle circostanze che avevano accompagnato l’arrivo mio e di Toby nella valle; tuttavia quando accennai alla misteriosa scomparsa del mio compagno, cercò di cambiare discorso come se fosse cosa che egli non volesse indagare. In verità sembrava che ogni cosa che si riferiva a Toby fosse destinata a gettare diffidenza e preoccupazione nell’animo mio. Ad onta delle proteste di Marnoo, che diceva di nulla sapere della di lui sorte, non potevo togliermi l’idea che egli mi ingannasse; e tal sospetto ravvivò le spaventose apprensioni riguardo alla mia medesima sorte che, da un certo tempo a quella parte, si erano alquanto calmate.

Sotto, l’influenza di questi sentimenti, provavo ora un ardente desiderio di profittare della protezione dello straniero per ritornare con lui a Nukuheva. Ma non appena ebbi accennato a questo progetto, egli dichiarò senza esitazione che non era praticabile, poichè i Typees non avrebbero mai permesso ch’io abbandonassi la vallata. Ciononostante, sebbene tale diniego non facesse che confermare la mia prima impressione, accrebbe pure la mia ansietà di fuggire da una prigionia che, se sopportabile e sotto certi aspetti anche piacevole, pur tuttavia presagiva la possibilità di un fato pauroso.

Non potevo togliermi dalla mente che pure Toby era stato trattato colla medesima bontà con cui ero stato trattato io, ma che ciò non aveva impedito la sua misteriosa sparizione. Non mi attendeva per avventura lo stesso tremendo destino, su cui il pensiero non osava neppure soffermarsi? Stimolato da queste considerazioni, rinnovai insistentemente la mia richiesta a Marnoo, ma egli non fece che ribadire le sue proteste per le difficoltà che si frapponevano alla realizzazione del mio progetto e l’impossibilità che i Typees mi lasciassero partire.

Quando poi cercai di sapere da lui i motivi che potevano indurli a tenermi prigioniero, Marnoo assunse di nuovo quel tono misterioso che aveva destato le mie apprensioni, allorchè gli avevo chiesto notizie del mio compagno.

Lo scongiurai allora di intercedere almeno presso gli indigeni onde mi accordassero la libertà. Da principio egli pareva decisamente contrario anche a ciò; ma poi vinto dalle mie insistenze, si mise a parlarne con alcuni capi che insieme agli altri ci avevano attentamente osservati durante la nostra conversazione. Ma la sua richiesta incontrò subito la più violenta disapprovazione, manifestantesi con sguardi e gesti ostili e con un torrente di parole sdegnate, dirette sia a lui che a me. Allora Marnoo, evidentemente pentito del passo fatto, cercò di dissipare il risentimento della folla, e dopo qualche istante riuscì a calmare i clamori che aveva suscitato con la sua proposta.

Avevo atteso col più vivo interesse di vedere come sarebbe stata accolta la sua intercessione, e un amaro senso di angoscia mi colse a questa nuova prova della irrevocabile decisione dei selvaggi di trattenermi presso di loro. Marnoo mi fece capire, con evidente timore, che sebbene, come amico degli abitanti, ammesso nella vallata, non poteva però intromettersi nei loro affari privati, poichè così facendo avrebbe sciolti i Typees dall’impegno del «taboo», e non sarebbe più stato protetto contro l’ostilità da essi risentita verso la sua tribù.

In questo momento Mehevi, che si trovava presente, lo interruppe con ira; e le parole che pronunciò in tono di comando, significavano evidentemente che egli doveva cessar subito di discorrere meco, e ritirarsi all’altro capo della stanza. Marnoo balzò immediatamente in piedi, e ingiungendomi in fretta di non parlargli, e di astenermi, se mi era cara la mia salvezza, da qualsiasi allusione al riguardo della mia partenza, si decise ad obbedire ai reiterati comandi dell’inflessibile Capo.

Intanto io osservavo, con non lieve sgomento, che dal volto degli isolani trapelava la stessa selvaggia espressione che tanto mi aveva spaventato durante la scena del Ti. Essi giravano sospettosamente i propri occhi da Marnoo a me, quasi diffidassero di una conversazione che si svolgeva in un idioma a loro sconosciuto, e credessero che avessimo già combinato qualche progetto per eludere la loro vigilanza.

Non esitai a convincermi, da quel che osservavo, che il consiglio di Marnoo non era da trascurarsi; e perciò, per quanto grande fosse lo sforzo necessario a soffocare i miei sentimenti, mi avvicinai a Mehevi e cercai con fare allegro di cancellare ogni cattiva impressione che gli fosse rimasta. Ma l’irato e scontroso Capo non si placava così facilmente; egli respinse le mie profferte con quell’aria severa che già gli conoscevo, non solo, ma nulla trascurò per dimostrarmi il suo dispiacere e il suo risentimento.

Intanto Marnoo all’altra estremità della casa, nell’intento di creare una diversione in mio favore, si adoperava con scherzi e barzellette a divertire la folla circostante; ma i suoi giocondi tentativi evidentemente non ottenevano più quel successo che avevano prima ottenuto, sicchè, vedendo vani i propri sforzi, gravemente egli si alzò per partire. Nessuno però parve dolersene, e allora, afferrato il rotolo di tappa con una mano e la lancia coll’altra, egli s’avviò verso l’uscita del phi-phi; qui fece un saluto circolare alla folla silenziosa, e lanciatomi uno sguardo misto di pietà e di rimprovero, a rapidi passi, s’incamminò pel sentiero. Io lo guardai allontanarsi sinchè fu scomparso nella oscurità della boscaglia, dopo di che mi abbandonai ai più tristi pensieri.