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Miglioramento nella salute e nello spirito – Felicità dei Typees – Una scaramuccia sulla montagna coi guerrieri di Happar.

Passarono i giorni, e ancora non si notava alcun mutamento nella condotta degli isolani verso di me. Smarrii così a poco a poco ogni nozione del tempo, e insensibilmente caddi in quella specie di apatia che segue sempre ogni violento accesso di disperazione. La mia gamba improvvisamente si risanò, il gonfiore scomparve e con esso la sofferenza, e ormai credevo che sarei tosto guarito completamente.

Appena fui in grado di girare per la valle insieme agli indigeni, frotte dei quali mi seguivano ogni qual volta uscivo di casa, mi sentii rasserenato e non ebbi più quei tristi presentimenti di cui ero stato preda. Ricevuto ovunque colla più deferente bontà, nutrito sempre coi frutti più deliziosi, servito da gentili fanciulle dai grandi occhi neri, e godendo oltre tutto dei servigi del devoto Kory-Kory, davvero non potevo fare a meno di pensare che, per un soggiorno tra cannibali, non avrei potuto trovare niente di più gradevole.

È vero che vi erano dei limiti alle mie peregrinazioni. La via del mare, ad esempio, m’era interdetta da una severa proibizione dei selvaggi; e dopo aver fatto due o tre inutili tentativi per arrivarvi, dovetti abbandonarne l’idea, chè gli indigeni mi seguivano dovunque e non mi lasciavano mai solo un momento.

Le ripide e verdi alture innalzantisi intorno alla testata della valle, dove era situata l’abitazione di Marheyo, precludevano del tutto ogni speranza di fuga da quel lato, anche se avessi potuto sfuggire alle migliaia di occhi dei selvaggi.

Ma queste riflessioni ormai si facevano raramente strada nella mia niente: mi abbandonavo all’ora che fugge, e se talvolta pensieri tristi mi assalivano, li scacciavo lontano. Allorchè guardavo intorno a me il verdeggiante recesso in cui ero prigioniero, e alzavo lo sguardo verso le maestose vette che mi circondavano, mi sentivo disposto a pensare che mi trovavo nella «Valle della Felicità», e che oltre quelle montagne altro non vi fosse se non un mondo di preoccupazioni e di guai.

In tale disposizione del mio spirito, ogni oggetto che vedevo mi colpiva sotto nuova luce, e le opportunità che avevo ormai di osservare gli usi e costumi degli indigeni, tendevano a rafforzare sempre più la mia impressione favorevole. Una delle cose che più ammiravo, era la perpetua letizia che regnava in tutta la vallata. Si sarebbe detto che in tutto Typee non esistessero dispiaceri, pensieri e guai di sorta; e che la vita dovesse trascorrere sempre egualmente gaia e spensierata.

Non esisteva in Typee alcuna di quelle infinite cause d’irritazione che l’ingegnosità dell’uomo civilizzato ha creato per guastare la sua felicità. Non vi erano nè ipoteche, nè protesti cambiari; non conti da saldare; non debiti d’onore; nulla di tutto ciò in Typee. Nè v’era sarto o calzolaio tanto perverso da voler esser pagato; non esistevano uscieri di tribunale, e nemmeno avvocati e procuratori a fomentare le discordie tra i loro clienti, anzichè a placarle; non parenti o noiose conoscenze che si stabiliscono in casa vostra e alla vostra tavola; non vedove senza mezzi, che con la loro numerosa figliolanza muoiono di fame ad onta della fredda carità del prossimo; nessun mendicante; niente prigione per debiti; e meno ancora, nessun orgoglioso e spietato Nababbo; no, nessuna di queste magagne della civiltà esisteva a Typee. O per dirla in poche parole: non esisteva il danaro! Questa «sorgente d’ogni male» non si trovava nella vallata.

In questa remota dimora della felicità non vi erano povere vecchierelle piene di malanni, non crudeli matrigne, non zitelle appassite, non fanciulle malate d’amore, non vecchi scapoli brontoloni, non mariti trascurati, non giovinotti malinconici, non marmocchi piagnucolosi e schiamazzanti. L’ipocondria, la malinconia, il cattivo umore, si erano celate nelle fenditure e negli angoli delle roccie e non apparivano mai alla luce gaia del sole.

Qui brigate di bimbi allegramente giuocavano l’intera giornata senza questionare e contendersi: lo stesso numero di bimbi nei nostri paesi non avrebbe potuto giuocare un’ora senza graffiarsi e battersi. Là gruppi di giovani donne conversavano tra loro, senza provare invidia alcuna per la bellezza dell’una o dell’altra, e senza ostentare ridicole affettazioni d’etichetta; ma, gaie, libere, felici, esenti da ogni artificiosità e falso ritegno.

Vi erano alcuni luoghi nella valle, in cui queste giovani creature solevano spesso recarsi per adornarsi di ghirlande di fiori. A vederle sdraiate all’ombra di quei bellissimi alberi, in mezzo all’erba tutta cosparsa di fiori appena colti, intente ad intrecciare serti e monili, si sarebbe potuto credere che tutta la corte di Flora si fosse data convegno per celebrare un qualche rito in onore della loro regina.

I giovanotti avevano naturalmente altri modi di essere occupati; ma sia che pescassero o lavorassero d’intaglio sul legno delle loro canoe, oppure lucidassero i propri ornamenti, mai non davano alcun segno di litigio o di malanimo.

Quanto ai guerrieri, avevano un contegno pieno di tranquilla dignità; si recavano ogni tanto di casa in casa ove erano certi di essere ricevuti con tutto il rispetto dovuto ad ospiti di riguardo. I vegliardi poi, di cui vi era un buon numero nella vallata, difficilmente si muovevano dallo loro stuoie, dove solevano star sdraiati per ore ed ore, fumando e chiacchierando incessantemente.

Ma la felicità inalterata che, da quanto potevo giudicare, regnava nella valle, dipendeva principalmente da quella sensazione intima che Rousseau ci narra aver sperimentato in vita sua, ossia il puro e fresco senso di un’esistenza fisica libera e sana. E in verità sotto questo aspetto i Typees avevano tutte le ragioni di congratularsi con sè stessi, poichè le malattie erano tra loro quasi sconosciute. Durante tutto il periodo che vi rimasi, non vidi che un solo infermo; nè sulla loro pelle, chiara e liscia, mai non scorsi macchia o segni denotanti qualche malattia.

La generale serenità, della quale ho parlato poc’anzi, fu però una volta interrotta da un avvenimento che mi provò come gli isolani non fossero del tutto immuni da quelle contingenze che disturbano la tranquillità delle comunità più civilizzate.

Trovandomi nella vallata già da parecchio tempo, ero un po’ stupito che la violenta ostilità tra i suoi abitanti e quelli della limitrofa baia di Happar, non si fosse mai manifestata in qualche scontro guerresco. Per quanto i valorosi Typees dichiarassero spesso a gran gesti il loro odio invincibile contro i nemici e il disgusto che provavano per le loro disposizioni cannibalesche; per quanto si dilungassero ad enumerare le ingiurie che avevano ricevuto da loro; pure, con una tolleranza davvero encomiabile, si sarebbe detto che dimenticassero le offese ricevute e si astenessero dal far rappresaglie. Gli Happars, trincerati dietro le loro montagne, e non mostrandosi neppure sulle vette, non pareva d’altronde dessero sufficiente appiglio all’eccesso di animosità nutrito verso di loro da gli eroici abitanti della nostra vallata, ed io m’ero persuaso che i fatti di sangue attribuiti a questa popolazione, fossero assai esagerati.

Perciò, siccome i clamori della guerra non avevano finora disturbata la serenità della tribù, cominciai a diffidare sulla verità di quei rapporti che ascrivevano sentimenti così truci e bellicosi alla nazione Typee. Certamente, pensavo, tutti quei terribili racconti uditi sull’implacabilità del dissidio, sul loro odio mortale e sulla malizia diabolica con cui si vendicavano sui corpi inanimati degli uccisi, non erano altro che favole; e debbo confessare che provavo quasi un senso di delusione nel vedere la mia odiosa previsione in tal modo delusa. Mi succedeva proprio come a quel ragazzo che va a teatro coll’idea di vedervi rappresentata una sanguinosa tragedia, e che giunge a versar lagrime di disappunto vedendo invece recitare una graziosa commedia.

Ma gli avvenimenti che seguirono provarono che ero stato troppo prematuro nei miei giudizi. Un pomeriggio mi trovavo nel Ti, con alcuni capi, e m’ero lasciato vincere dal sonno, quend’ecco un tremendo frastuono mi destò; balzato in piedi, vidi gli indigeni afferrare le proprie lancie e correre fuori, mentre i capi più autorevoli, armatisi dei moschetti appoggiati alle pareti di bambù, si davano a seguirli, tosto scomparendo nella boscaglia. Questi movimenti erano accompagnati da grida selvaggie, tra cui predominava la parola «Happar, Happar». Tutti gli isolani ora passavano di corsa innanzi al Ti dirigendosi attraverso la vallata verso le terre degli Happars. A un tratto udii un colpo di moschetto proveniente dalla montagna vicina, e poi uno schiamazzo di voci nella stessa direzione. A ciò le donne, che s’erano adunate nelle piantagioni, si misero a urlare disperatamente, cosa del resto che esse non mancano mai di fare, qui o altrove, in ogni occasione di allarme o di parapiglia. In questa speciale circostanza esse facevano un chiasso così straordinario e lo continuavano con tale perseveranza, che se anche nelle adiacenti montagne avessero sparato intere cariche di moschetti non avrei certo potuto udirle.

Quando infine si furono un po’ calmate mi misi ansiosamente in ascolto per avere qualche ulteriore notizia. Poco dopo risuonò un nuovo colpo seguito da un secondo scoppio di urla proveniente dai monti. Poi, tutto si acquietò, e questa tranquillità durò tanto che cominciavo a credere che le parti belligeranti si fossero accordate per una sospensione delle ostilità. Quand’ecco rimbomba un nuovo colpo di fucile, seguito come prima da grandi urli. Dopo di che, per circa due ore, non si sentì più nulla, tranne qualche grido disperso qua e là sulle montagne.

Durante tutto questo tempo ero rimasto sul piazzale del «Ti» fronteggiante la montagna degli Happars, e non avevo nessuno vicino a me, tranne Kory-Kory e i soliti decrepiti vegliardi, i quali non si erano neppur mossi dalle stuoie, apparendo del tutto indifferenti a quanto avveniva di inusitato intorno a loro.

Circa a Kory-Kory, egli pensava che si trattava di avvenimenti grandiosi, e tentava con gran calore di persuadermi della loro importanza. Ogni suono che ci perveniva, conteneva per lui una notevole informazione. Allora, come se fosse dotato di seconda vista, egli si abbandonava a una serie di illustrazioni pantomimiche, intese a dimostrarmi il preciso modo con cui i temuti Typees stavano proprio in quel momento castigando l’insolenza del nemico. — Mehevi hanna pippee nuee Happar — esclamava ogni cinque minuti, volendomi con ciò far capire che i guerrieri della sua tribù stavano facendo prodigi di valore, sotto il comando del prode capitano Mehevi.

Siccome non avevo udito che quattro colpi di moschetto, cominciai a credere che queste armi fossero usate dagli isolani nello stesso modo delle pesanti artiglierie del Sultano Solimano all’assedio di Bisanzio, in cui ci voleva un’ora o due per caricare e tirare un singolo pezzo. Finalmente siccome non si udiva più alcun suono dalla montagna, ne conclusi che o in un modo o nell’altro la contestazione era stata risolta. Doveva infatti esser così, poichè ora sopraggiunse al «Ti» una staffetta quasi senza fiato pel gran correre, che ci comunicò la notizia di una grande vittoria ottenuta dai suoi compaesani.

— Happar poo arva! (i codardi Happars sono fuggiti!).

Kory-Kory era in estasi, e si diede a pronunciare un violento discorso che, a quanto potei comprendere, significava che tale splendido risultato corrispondeva esattamente a ciò ch’egli aveva preveduto, e che doveva convincermi che sarebbe vana impresa anche da parte di un esercito di mangiatori di fuoco, di muovere guerra agli irresistibili eroi della nostra vallata. Naturalmente io fui pienamente d’accordo con lui, ed attesi con impazienza il ritorno dei conquistatori, la cui vittoria temevo non potesse essere avvenuta senza perdite.

Ma anche qui mi sbagliavo; poichè Mehevi, conducendo le operazioni belliche, parteggiava più per la tattica Fabiana che per quella Napoleonica, ossia economizzava le sue riserve e non esponeva le proprie truppe a inutili rischi. Le perdite totali avute dai vincitori in questo scontro furono, – tra morti, feriti e dispersi – un dito indice e un frammento di unghia del pollice (che il legittimo proprietario portava in mano quale trofeo), un braccio gravemente contuso, ed una copiosa effusione di sangue dalla coscia di un capo che aveva ricevuto un brutto colpo da una lancia Happar. Delle perdite del nemico non mi riuscì saper nulla, ma sono certo che riuscirono a portarsi via con loro i corpi dei propri caduti.

Questa era dunque la conclusione della battaglia, a giudicare dai risultati da me osservati; e siccome pareva la considerassero un evento di grandissima importanza, ne dedussi che le guerre degli indigeni non fossero poi tanto sanguinose. Appresi in seguito quale era stata l’origine della schermaglia. Un buon numero di Happars erano stati scoperti mentre sul versante della montagna appartenente ai Typees, andavano in busca per scopi non troppo leciti; fu dato l’allarme, e gli invasori, dopo strenua resistenza, erano stati ricacciati al di là della frontiera. Ma come mai l’intrepido Mehevi non aveva continuato la guerra in Happar? Perchè non era disceso nella vallata nemica per riportarne qualche trofeo – qualche pezzo forte del festino cannibalesco con cui, a quanto mi era stato detto, terminava ogni scontro bellico? Dopo tutto, era da pensare che tali orrendi festini avessero luogo ben raramente, se non mai, tra quegli isolani.

Per lo spazio di due o tre giorni quest’ultimo avvenimento formò il tema di ogni discorso; poi l’eccitazione a poco a poco decrebbe, e la vallata ritornò alla sua abituale tranquillità.