XVIII

../XVII ../XIX IncludiIntestazione 19 novembre 2016 75% Da definire

XVII XIX

Riflessioni dopo la partenza di Marnoo – Battaglia con armi ad aria – Strana eleganza di Marheyo – Fabbricazione della tappa.

La sicurezza che ormai avevo, circa le intenzioni dei selvaggi, mi turbava profondamente.

Mi ero accorto che Marnoo, a cagione delle sue doti superiori, e della conoscenza che aveva di tutti gli avvenimenti che avevano luogo nelle diverse baie dell’Isola, era tenuto in altissimo conto dagli abitatori della vallata. Egli era stato ricevuto con grandi dimostrazioni di cordialità e di rispetto. I selvaggi pendevano dalle sue labbra e dagli accenti della sua voce, dimostrandosi fieri di essere notati personalmente da lui. Eppure, ad onta di tutto questo, poche parole pronunciate in mio favore allo scopo di ottenere la mia liberazione, erano bastate, non solo per bandire ogni buona armonia e benevolenza, ma, se mi era lecito credere a ciò che mi aveva detto, avevano quasi messo in pericolo la sua stessa incolumità.

Come doveva dunque essere tenace la determinazione dei Typees ai miei riguardi, e come inaspettatamente potevano essi manifestare le loro strane passioni! Un solo accenno alla mia possibile partenza mi aveva alienato, almeno pel momento, l’animo di Mehevi che, tra tutti i capi, era il più influente e non mi era mai stato avaro dell’espressione della sua benevolenza. Anche gli altri selvaggi avevano dimostrato la più decisa avversione ai miei desideri, e perfino Kory-Kory pareva dividesse la disapprovazione generale verso di me.

In vano mi almanaccavo il cervello per scoprire qualche motivo atto a spiegare lo strano desiderio di questa gente di trattenermi tra loro: non ne potevo scoprire alcuno.

Comunque, la scena cui avevo assistito poc’anzi, mi ammoniva del pericolo di prendere alla leggera i loro sentimenti appassionati e volubili contro i quali lottare era vano, e poteva anzi portare a conseguenze fatali. La mia sola speranza stava nell’indurre gli indigeni a credere che mi ero adattato a restar nella vallata, e con un contegno tranquillo e sereno, sopire i sospetti che per mia sfortuna avevo destati. Rinata la loro fiducia, chi sa che dopo un poco essi non rallentassero la loro sorveglianza di ogni mio movimento, e che io allora potessi con maggiore probabilità di riuscita valermi della prima occasione per fuggirmene. Risolsi quindi di far buon viso a cattivo giuoco e di sopportare coraggiosamente quanto potesse accadermi. E in questo tentativo riuscii più che non osassi sperare. Quando era avvenuta la visita di Marnoo, da quel che potevo congetturare, mi trovavo nella valle da circa due mesi. Per quanto non completamente guarito dalla strana infermità di cui ancora risentivo i postumi, pure non ne avevo più sofferenze ed ero in grado di rimettermi presto in forza col vivere all’aperto; in breve tutto mi faceva sperare una pronta guarigione. E pertanto, deciso di guardare l’avvenire senza timore, mi buttai di nuovo in tutti i piaceri sociali della vallata, cercando di dimenticare in essi ogni rimpianto e ogni rimembranza della mia precedente esistenza.

Nelle mie varie peregrinazioni attraverso la valle, e a misura che conoscevo meglio il carattere dei suoi abitanti, rimanevo sempre più colpito dalla loro spensierata giocondità. Scevri da qualsiasi grave preoccupazione, essi sapevano ritrarre un godimento anche da cose e circostanze minime, che certo sarebbero passate inosservate in comunità più intellettuali. E in vero, tutti i loro piaceri parevano derivare dai minuti avvenimenti dell’ora che passa, ma tutti questi piccolissimi avvenimenti messi assieme, formavano una somma di felicità ben di rado provata da individui maggiormente evoluti, i cui piaceri derivano da sorgenti più elevate, ma assai più rare.

Quale comunità, ad esempio, di gente raffinata e intellettuale, ritrarrebbe la minima soddisfazione dallo sparare uno schioppetto a aria compressa? Il solo supporre in essi un tale piacere ecciterebbe anzi il loro sdegno, mentre invece l’intera popolazione di Typee non si occupò d’altro per dieci giorni consecutivi se non di questo gioco da bambini, cui si abbandonava con grandi e rumorose manifestazioni di gioia.

Un giorno mi trastullavo con un vivace fanciullino di circa sei anni, che mi inseguiva con una canna di bambù, colla quale di tanto in tanto mi percuoteva per gioco. Afferrando la canna, mi venne a un tratto l’idea che con quel leggero fusto avrei potuto fabbricare pel bimbo uno di quegli schioppetti coi quali tante volte avevo veduto trastullarsi i fanciulli. Col mio coltello feci quindi sulla canna due piccole fenditure parallele e tagliando da un lato l’elastica strisciolina tra le due fenditure, la piegai e ne infissi la punta in una breve tacca. Così, col semplice scatto di tale strisciolina, qualsiasi piccolo oggetto posto contro la tacca poteva essere proiettato con forza grandissima attraverso il tubo.

Se avessi avuto la minima idea della sensazione che questo pezzo d’artiglieria era destinato a produrre, ne avrei certo preso il brevetto d’invenzione. Il ragazzetto se ne fuggì pazzo di gioia, col suo ordigno, e venti minuti dopo mi si poteva vedere circondato da una folla rumorosa barbuti vecchioni, padri carichi di famiglia, valorosi guerrieri, matrone, giovanotti, fanciulle e bambini, tutti con in mano pezzi di canna di bambù, che a gran voce imploravano di essere serviti per primi.

Per tre o quattro ore fui impegnato nel manifatturare schioppetti ad aria, finchè stanco cedetti la privativa a un giovanetto assai intelligente e svelto, che iniziai nell’arte e nel segreto.

Dei grandi pop, pop, pop, si sentivano risuonare in tutta la vallata. Dapertutto avevano luogo duelli, scaramucce, battaglie campali e mischie. Qui, mentre procedevi in un sentiero in mezzo alla boscaglia, cadevi in un agguato e divenivi bersaglio di un corpo di moschettieri di cui appena scorgevi le membra tatuate attraverso il fitto fogliame. Là invece ti vedevi assalito dalla intrepida guarnigione di una casa, che ti mirava coi suoi fucili di bambù attraverso la paratia di canne che ne componeva i fianchi. Più innanzi, ti sentivi sparare addosso, da un distaccamento di franchi tiratori appostati al sommo di un phi-phi.

Pop, pop, pop, pop! frutti acerbi di guava, semi e bacche volavano in ogni senso e durante questo pericoloso stato di cose quasi temevo che, come l’uomo e il suo bue di ottone, sarei caduto vittima della mia ingegnosità. Come avviene però per tutte le cose di questo mondo, l’eccitazione gradatamente si calmò, quantunque di tanto in tanto si udisse ancora il crepitio di quella fucileria.

E fu appunto verso la fine di questa guerra incruenta, che una nuova stravaganza di Marheyo mi divertì infinitamente.

Quando avevo abbandonato la nave, indossavo un paio di robusti stivali, i quali dopo aver traversati tanti precipizi, abissi e letti di fiume erano divenuti talmente scalcagnati da non poter più servire a nessuno. Ma se un oggetto non serve più per un dato uso, non è detto che non possa servire per un altro, se però si è abbastanza geniali per scoprirlo. E questa genialità Marheyo la possedeva certamente, come dimostrò dall’uso a cui adibì le mie vecchie scarpe scalcagnate.

Gli isolani solevano riguardare qual cosa sacra ogni oggetto che mi appartenesse, ed avevo osservato che per varii giorni dopo il mio arrivo, quelle mie calzature erano rimaste nel luogo ove le avevo buttate togliendomele. Ricordavo però, che dopo qualche tempo non le avevo più vedute nel posto abituale; ma non vi avevo fatto caso, supponendo che Tinor – da brava massaia – avesse buttato fuor di casa quelle inutili cose. Ma tosto dovetti ricredermi.

Un giorno osservai che il vecchio Marheyo si affaccendava intorno a me con insolita vivacità, sì da sorpassare perfino Kory-Kory nelle sue funzioni. A un certo punto si offerse di portarmi sulle spalle fino al fiume, e quando rifiutai, nient’affatto scoraggiato, continuò a scodinzolarmi intorno come un cane. Non potevo immaginarmi cosa avesse il buon vecchio, finchè approfittando della tempestiva assenza degli altri casigliani, tutto a un tratto si produsse in svariati atteggiamenti di pantomima, accennando vivacemente ai miei piedi, e quindi in alto al fardello che si bilanciava dal trave soprastante. Finalmente mi balenò il significato dei suoi gesti, e gli feci cenno di abbassare l’involto. In un batter d’occhio eseguì l’ordine, e svolgendo un pezzo di tappa, espose ai miei occhi stupefatti le famose scarpe che ritenevo fossero state buttate via.

Compresi allora il suo desiderio, e generosamente gli donai le scarpe, che erano divenute perfino ammuffite, chiedendomi che cosa mai intendesse farne.

Quello stesso pomeriggio, vidi il venerabile guerriero avvicinarsi alla casa con passo maestoso e solenne, gli orecchini agli orecchi, la lancia in resta, e con quelle mie elegantissime scarpe sospese al collo, a guisa d’ornamento, mediante una striscia di corteccia d’albero. E da allora in poi quei pendagli di pelle di vitello, formarono l’ornamento più caratteristico del costume di gala del vecchio Marheyo.

Ma è tempo che io accenni a qualche cosa di più importante. Per quanto l’intera esistenza degli abitanti della vallata sembrasse passare esente da ogni travaglio, v’erano però alcune leggere occupazioni più divertenti che laboriose, che contribuivano al loro benessere. Tra esse la più importante era certamente la manifattura del tessuto indigeno «tappa», ben noto, se pur con varie modificazioni, in tutto l’Arcipelago Polinesiano. Come si sa, questo articolo così utile e talvolta anche elegante, viene fabbricato colla corteccia di varie piante. Ma, siccome ritengo che non esistano descrizioni della sua manifattura, dirò qui quel che io ne ho appreso.

Per la manifattura della bellissima tappa bianca che generalmente si usa nelle Isole Marchesi, l’operazione preliminare consiste nella raccolta di una certa quantità di giovani rami dell’albero comunemente chiamato pianta del panno1. Spogliati questi rami della verde corteccia esterna che non serve, rimane una tenue sostanza fibrosa che è tolta con cura dal legno cui aderisce. Quando se ne è raccolta una quantità sufficiente, le varie listerelle sono ravvolte dentro capaci foglie che gli indigeni usano come noi usiamo la carta da imballo, e sono legate con una tenue cordicella passata all’intorno. Il pacco ora viene messo nel letto di un ruscello, e perchè non venga trasportato via dalla corrente vi ci si pone sopra una grossa pietra. Dopo averlo lasciato così per lo spazio di due o tre giorni lo si tira fuori e lo si espone per breve tempo all’azione dell’aria, esaminandone però prima ogni singola parte per accertarsi che l’operazione sia ben riuscita. Questo si ripete più e più volte, fino a che si raggiunga il desiderato effetto.

Quando poi questo materiale mostra i segni di un’incipiente decomposizione, e le sue fibre, ormai rilasciate e molli, sono completamente malleabili, è giunto il momento di sottoporlo a un nuovo processo. Le listerelle sono ora stese una ad una, a strati successivi, sopra una superficie levigata – generalmente il tronco abbattuto di un albero di cocco – ed il mucchio così formato è soggetto ad ogni nuova aggiunta di listerelle, ad una battitura moderata a mezzo di una specie di mazza di legno. Essa è costruita con un legno duro e pesante che somiglia all’ebano, e ha un manico rotondo all’estremità. Le superfici piatte dello strumento sono addentellate con dentature parallele e vuote, che variano di profondità a seconda dei lati, sì da adattarsi ai varii stadi dell’operazione. Queste dentature producono le striscie a costa che si osservano nella tappa quando è nel suo state di finitura. Dopo di essere stato battuto nel modo da me descritta, il materiale si fonde in una sola massa che, inumidita di tanto in tanto, continua ad essere martellata ad intervalli, (un processo simile al battiloro), finchè ha raggiunta la finezza richiesta. A questo modo è facile far assumere alla stoffa vari gradi di resistenza e di spessore, così da adattarla ai numerasi scopi cui viene destinata.

Quando quest’ultima operazione è finita, la tappa è stesa sull’erba, ad imbianchire ed asciugare e ben presto assume un abbagliante candore. Talvolta, nei primi stadi della manifattura, la sostanza in lavorazione viene impregnata da un succo vegetale che le dà un colore permanente. Il marrone scuro e il vivo giallo sono tinte abbastanza comuni, ma il gusto semplice degli abitanti di Typee, porta questi a preferire la tinta naturale.

La famosa moglie di Kammahammaha, il rinomato conquistatore delle Isole Sandwich, soleva vantare la propria abilità nel tingere la tappa di svariati colori, disposti a regolari disegni; e anche in mezzo alle innovazioni del tempo, la si considerava come una signora della vecchia scuola perchè rimaneva affezionata alla stoffa nazionale, preferendola alle brutte cotonine europee. Ma l’arte di imprimere la tappa è sconosciuta nelle Isole Marchesi.

Passeggiando nella valle, ero sovente attratto dal rumore della mazza, la quale, quando la si usa per la manifattura della stoffa, suscita, ad ogni colpo del suo legno duro e pesante, un suono chiaro, squillante e armonioso che si può udire a grande distanza. Quando vari di questi ordigni, vengono usati contemporaneamente e non lontani l’uno dall’altro, l’effetto, ad una certa distanza, è davvero incantevole.

  1. Artocarpus integrifolia, delle regioni tropicali. (N. d. T.).