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XIV XVI

Tristi pensieri – Ciò che accadde al Ti – Un gran piacere reso a Marheyo – Tosatura della testa d’un guerriero.

Riandando col pensiero a quel periodo della mia vita, e ricordando le innumerevoli prove di bontà e di rispetto di cui mi facevano segno gli indigeni della vallata, non comprendo come in mezzo a tante confortanti circostanze, l’animo mio si consumasse di malinconia, e io potessi essere assillato dalle più tetre previsioni. È vero, però, che le circostanze sospette in cui era avvenuta la sparizione di Toby, erano sufficienti a giustificare la mia diffidenza verso i selvaggi, in potere dei quali sentivo ormai di essere completamente, sopratutto se si considera che questi stessi individui, tanto buoni e rispettosi verso di me, non erano, dopo tutto, che una tribù di cannibali.

Ma la causa principale della mia ansietà, che avvelenava ogni mio godimento, era la misteriosa infermità che aveva colpita la mia gamba e che ancora non accennava a guarire. Tutte le applicazioni erboristiche di Tinor, unite ai farmaci più severi del vecchio cerusico e alle cure affettuose di Kory-Kory, non erano riuscite ad alleviare il mio male. Ormai ero quasi storpio, e i dolori che talvolta mi assalivano erano addirittura insostenibili. La strana malattia non dava segno di miglioramento; anzi la sua virulenza aumentava giorno per giorno, minacciando fatali conseguenze se non si fosse provveduto seriamente a debellarla. Sembrava ormai che il mio destino fosse di soccombere sotto questo terribile male, o che, per lo meno, esso mi avrebbe impedito di fuggire dalla vallata.

Un incidente capitato, se ben ricordo, circa tre settimane dopo la sparizione di Toby, mi convinse che gli indigeni, per qualche loro singolare ragione, frapporrebbero ogni possibile ostacolo alla mia partenza.

Una mattina notai una grande eccitazione tra i miei vicini di casa, e tosto scopersi che esso era stato provocato dalla notizia che delle barche erano state avvistate a grande distanza, dirette verso la rada. Ora in quel giorno essendo di umore più sereno, anche perchè i dolori alla gamba parevano darmi un po’ di tregua, avevo acconsentito all’invito di Kory-Kory di recarci a far visita al capo Mehevi nella residenza chiamata «Ti», già da me descritta, e situata nei boschi Taboo. Questi sacri recessi non erano gran che lontani dall’abitazione di Marheyo, trovandosi tra questa e il mare; mentre il sentiero che conduceva alla spiaggia passava in linea retta dinanzi al Ti, donde costeggiava il bosco.

Stavo riposando sulle stuoie, nell’interno della sacra residenza, insieme a Mehevi e ad altri capi, allorchè ci pervenne tale annuncio. Ne ebbi come un brivido di gioia – forse, chi sa, Toby sarebbe tornato. Balzai subito in piedi, con l’impulso di correre verso la baia senza badare nè alla distanza nè alla mia invalidità. Non appena però Mehevi ebbe notato l’effetto che la notizia aveva prodotto su di me, e la mia impazienza di raggiungere la spiaggia, il suo aspetto assunse quella espressione inflessibilmente rigida che tanto mi aveva atterrito in quel pomeriggio del nostro arrivo da Marheyo. Mentre stavo per lasciare il Ti, mi posò una mano sulla spalla e disse con voce grave: — Abo, abo (aspetta, aspetta). — Soltanto preso dal mio desiderio e senza fare attenzione alle sue parole, stavo per proseguire il mio cammino, allorchè egli di nuovo mi chiamò e con improvviso tono di autorità mi ingiunse — Moee (siediti). — Ma per quanto colpito dal mutamento del suo contegno, l’emozione che mi possedeva era troppo forte per consentirmi di obbedire all’ordine inatteso, e continuai a zoppicare verso l’orlo del phi-phi, con Kory-Kory attaccato al mio braccio che cercava trattenermi, allorchè i selvaggi che erano lì presso, balzarono in piedi, si allinearono davanti all’edificio, mentre Mehevi guardandomi con aria minacciosa, reiterava l’ordine con voce ancor più severa.

Fu in quel momento, di fronte a quei cinquanta volti di selvaggi che mi fissavano intensamente, che per la prima volta sentii di essere veramente prigioniero. Tale convinzione mi afferrò con fulminea rapidità e io mi sentii sopraffatto da questa conferma dei miei peggiori timori. Compresi subito che era inutile lottare; e mi ributtai sulle stuoie in preda alla disperazione.

I selvaggi intanto passavano in fretta dinanzi al «Ti», correndo verso la spiaggia. Quei selvaggi, – pensavo, –saranno tra breve in comunicazione con qualche mio compatriota che, sapendo la mia situazione, potrebbe facilmente farmi liberare. In quel momento il mio dolore era indescrivibile, e nell’amarezza dell’anima mia, imprecavo contro il perfido Toby che mi aveva abbandonato alla morte. Invano Kory-Kory cercava di distrarmi offrendomi delle leccornie, accendendomi la pipa, o eseguendo quelle originali capriole che talvolta mi avevano divertito. Tutto era inutile: ero assolutamente accasciato dalla mia sorte.

Di nulla curandomi, se non della mia angoscia, rimasi nel «Ti» per parecchie ore, finchè dei clamori dietro la casa, non mi ebbero annunciato il ritorno dei selvaggi dalla spiaggia.

Se delle barche avessero o no approdato nella baia quella mattina, non potei mai saperlo. I selvaggi mi assicurarono di no; ma forse coll’ingannarmi su questo fatto, essi credettero di diminuire il mio dolore. Comunque, quest’incidente mi dimostrò chiaramente che i Typees mi consideravano come prigioniero. Siccome però continuavano a trattarmi colle stesse premurose attenzioni di prima, non riuscivo a capacitarmi quale ragione avessero per agire in simile guisa. Se fossi stato in grado di istruirli nei rudimenti della meccanica, o avessi cercato di rendermi utile in qualche modo, la loro condotta sarebbe stata ancora spiegabile, ma come invece stavano le cose il fatto mi pareva inesplicabile.

In tutto il periodo che rimasi nell’isola, non vi furono che due o tre casi in cui gli isolani si rivolsero a me allo scopo di valersi delle mie superiori cognizioni, ed essi sono così buffi, che non posso tenermi dal narrarle.

I pochi oggetti recati da Nukuheva erano da noi stati raccolti in un piccolo fardello e, la prima notte del nostro arrivo, io me ne ero servito per cuscino. Avendolo poi aperto, il giorno dopo, gli indigeni s’erano incantati a esaminarne il contenuto come se fosse stato uno scrigno di gioielli, e avevano insistito perchè un tesoro così prezioso fosse posto al sicuro. Assicuratolo, quindi ad una cordicella, e fatto passare l’altro capo sopra al trave del tetto, l’involto venne sollevato sino al soffitto donde pendeva direttamente sopra le stuoie sulle quali solevo riposare. Se mi occorreva qualche oggetto non avevo che da tirare la cordicella verso di me e l’involto si abbassava. Questo procedimento era praticissimo, e io m’ero congratulato con gli isolani per la loro comoda invenzione. I principali oggetti contenuti nell’involto erano un rasoio col suo astuccio, una o due libbre di tabacco, e alcuni metri di cotonina a tinte sgargianti.

Avrei dovuto dir prima che, poco dopo la sparizione di Toby, incerto sul tempo che avrei dovuto ancora rimanere nella vallata – dato che ne potessi fuggire – e considerando che tutto il mio guardaroba consisteva di una camicia e di un paio di pantaloni, mi ero deciso a rinunciare a questi indumenti sì da poterli ritrovare in buono stato nel caso che la mia sorte fosse di tornare un giorno fra la gente civile. Fui perciò costretto ad assumere il costume Typee, a dire il vero alquanto adattato ai miei principii di decenza, e in esso dovevo certo far la figura di un senatore dell’antica Roma avvolto nelle pieghe della toga. Usualmente, per casa, portavo una specie di gonna di tappa che dalla vita mi scendeva in lunghe pieghe sino ai piedi. Ma quando dovevo uscire, rimpiazzavo tale abbigliamento con un’ampia veste del medesimo tessuto, che mi avviluppava completamente la persona e la difendeva dai raggi del sole.

Una mattina mi feci uno strappo in questo mio costume; e per far vedere agli isolani con quale facilità potevo riparare il danno, tirai fuori dal mio fagotto un ago e del filo, e mi misi a ricucirlo. Essi osservavano questa meravigliosa applicazione di scienza ’pratica con grandissima ammirazione; mentre ero intento a cucire, il vecchio Marheyo a un tratto si battè la fronte con una mano e recatosi in un angolo della casa, ne trasse un pezzo di cotonina sudicio e sdruscito – certo frutto d’un baratto sulla spiaggia – sul quale mi pregò di esercitare l’arte mia. Acconsentii volentieri, per quanto il mio ago spuntato non si prestasse che a punti giganteschi. Avendo completata la riparazione, il vecchio Marheyo mi diede un abbraccio paterno; e toltosi il «maro» (cintura), s’avvolse la cotonina intorno alle reni; dopo di che s’infilzò nelle orecchie il prediletto ornamento, afferrò la lancia e uscì pomposamente dalla casa, simile a un valoroso Templaro rivestito di nuova e ricca armatura.

Non ebbi mai ad usare il rasoio durante il mio soggiorno nell’isola, ma, per quanto oggetto da poco, esso era molto ammirato dai Typees; e Narmonee, che tra loro era un gran personaggio, rinomato pure per la meticolosa cura che poneva nella propria toilette personale, e altresì per essere l’individuo più tatuato della valle, pensò che il rasoio avrebbe potuto essergli assai utile pel suo cranio già rasato.

L’istrumento usato comunemente da quei selvaggi, è un dente di pescecane, la cui efficacia a dire il vero è assai problematica. Non è quindi da stupirsi che il furbo Narmonee avvedutosi della superiorità del mio rasoio un giorno mi chiedesse come favore personale, di passarglielo sulla testa. Cercai di fargli comprendere che esso era divenuto troppo ottuso, e che non sarebbe stato possibile usarlo senza prima arrotarlo. Per spiegare la cosa, eseguii una’arrotatura immaginaria sul palmo della mia mano; Narmonee comprese, e balzando fuori di casa, ritornò poco dopo con un pezzo di roccia grosso come un paracarro, dicendomi che era proprio ciò che ci voleva. Naturalmente non mi rimaneva altro che mettermi all’opera, e incominciai, dopo aver affilato il rasoio, a radere a gran velocità. Narmonee si dimenava e rabbrividiva sotto la tortura, ma convinto pienamente della mia abilità, sopportò quella pena come un martire.

Per quanto io non abbia mai veduto Narmonee in una battaglia, pure garantirei colla mia vita del suo coraggio e del suo valore. Prima di tale operazione, la sua testa presentava una superficie irta di peli corti ed ispidi; dopo, somigliava singolarmente a un campo di stoppie quando l’erpice c’è passato sopra. Comunque, siccome il Capo esprimeva la più viva soddisfazione del risultato, pensai fosse saggio di non contraddire la sua opinione.