Tre libri dell'educatione christiana dei figliuoli/Libro III/Capitolo 39
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De lo studio del parlar et scriver latino. Cap. XXXIX.
Temo di non trappassare i termini, di quell’offitio che io ho preso à fare, mentre vado ricordando al maestro diverse cose, pertinenti al modo dell’insegnare, et dubito che alcuno non dica, che questo è un voler fare il maestro, de gli istessi maestri. Tuttavia à me pare che questa consideratione, sia molto congiunta co’l nostro fine principale della educatione, perilche non restarò di soggiungere anchora alcune altre cose nel medesimo proposito.
Sono alcuni maestri che esercitano assai i putti nella poesia, et nel verso et poco nella prosa. Io per me non nego esser giovevole il leggere alcun poeta, massime Virgilio, et pochi altri di quel secolo; rende la poesia et il poetare, l’intelletto più svegliato et vivace; s’impara il numero, et la quantità delle sillabe, che molto giova à pronuntiar rettamente et cose tali; ma questo studio de i versi, hà da esser s’io non m’inganno non come il cibo principale, ma come un condimento del cibo, perche all’ultimo, applicando poi questa cose all’uso della vita humana, à nostri tempi, per non dir sempre, poco altro si cava della poesia, che il diletto; perilche colui diceva, che i poeti mediocri non si possono patire, la dove nelle cose veramente utili et necessarie si admette facilmente la mediocrità. Ha un’altro incommodo la poesia, che se altrui vi si immerge troppo, è come un vischio che ritiene, et disvia molte volte da i studii più gravi, et troppo i giovani se ne invaghiscono, et si danno à scrivere amori, et cose vanissime; per tanto si ha da attendere principalmente à lo stile con l’imitatione di Cicerone, et de gli altri pochi, più lodati, anzi un valent’huomo solea dire, che non si doveano i putti introdurre subito nel verso, ma nella prosa; percioche, dicea egli, il verseggiare è simile à chi fa salti, et si lieva in aria, dove la prosa è simile à chi và di passo, et camina, il che prima ci vien dato dalla natura, che il saltare. Adunque attenda il maestro ad instruire il fanciullo nella intelligenza delle lingue, che molto servono poi alle scienze, et lo eserciti nella lettione di Cicerone, facciagliene imparare à mente quanto più si può, et nel dare il dettato, ò suggetto che vogliamo dire, à i putti, per spiegarlo in latino, lo prendano dal medesimo Cicerone; onde seguiranno due buoni effetti, l’uno che si fuggiranno certi concetti bassi, et vili, che per il più si sogliono dare da maestri non cosi avveduti, et per contrario s’avvezzaranno i putti à sentenze gravi, che hanno poi à servire loro ne i commertii civili, et ne i maneggi publici, de i quali Cicerone è pieno; l’altra utilità sarà, che si correggerà il latino del giovanetto, con quello di Cicerone medesimo, et comparando l’uno con l’altro, havrà il maestro occasione di meglio dare ad intendere à lo scolare la differenza del numero più dolce, et armonioso, delle parole più latine, delle elocutioni più scelte, et simili. Non è anco da riprendere, per mio parere, qualche studio della nostra lingua volgare, la quale si ha da esercitare cotidianamente quanto ogniun sa, et è gran vergogna veder tal’hora un gentil’huomo, che non sa se non inettamente spiegare i suoi concetti nelle lettere famigliari, et commodamente si può congiungere l’esercitio di queste due lingue, et non senza giovamento, traducendo luoghi di buoni autori, dell’una nell’altra.