Trattato dei governi/Libro secondo/II

Libro secondo - Capitolo II: Riprovazione di tal republica

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro secondo - Capitolo II: Riprovazione di tal republica
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Ma posto, che ei fosse cosa ottima, che la città si riducesse ad unità per quanto si puote il più, non però, dico, questo apparirci per il detto di Socrate: cioè che ella si fa una, quando tutti i cittadini insieme dicono: questo è mio, e questo non è mio. E tal detto stimò Socrate, che fosse inizio della grande, e perfetta unità della sua città. Ma questo nome di tutti si piglia in due significati. Ora se e’ si piglia nel significato d’un solo, forse accadrà meglio l’intento di Socrate; perchè ciascuno può dire del suo figliuolo, che egli sia suo, e così della moglie, e delle facoltà: e il simile di ciascun’altra cosa, che occorra.

Ma nel modo, che intende Socrate, non lo potranno già dire quei, che usano le donne a comune, ed i figliuoli; ma lo diranno come tutti, e non come un solo; ed il medesimo diranno della roba. È manifesto adunque, che con questo nome di tutti si può incorrere in fallacia, perchè tal nome, e quello, che vuol dire l’uno e l’altro, per potersi pigliare in due significati, comprende insieme, e il pari, e il caffo; e nei discorsi fa il sillogismo sofistico. Onde che tutti dichino questo concordantemente è bene, ma non è già possibile, e nell’altro modo preso, non è cosa verisimile.

Oltra di questo alla posizione di Socrate conseguita un altro incommodo, imperocchè l’accomunar troppo ogni cosa, genera straccurataggine; conciossiachè la diligenza si abbia delle cose proprie: e delle comuni se ne abbia manco, che non avrebbe ciascuno, se elle fussino sue. Che in vero delle altrui cose non si tien conto, come se altri di loro ne avesse la cura; siccome si usa di fare dove sono assai servidori, che vi servono molte volte peggio, che non fanno i pochi.

Ma nel modo detto può un cittadino aver mille figliuoli, ma non già come se fussin suoi proprî; ma di qual un si voglia: onde avverrà che di tutti ugualmente non se ne sia tenuto alcun conto. Ancora nel modo detto ciascun cittadino potrà dir di uno che abbia operato bene, egli è mio figliuolo; e così di uno che abbia operato male, o di quanti un si voglia, come è dire: egli è mio, quando e’ sia d’un altro; in cotal modo dicendo di ciascuno di quei mille, o di quanti la città ne abbia. E questo ancor dubitando per essere incerto a chi si abbia data la sorte di generare dei figliuoli, o che gli avuti sien vivi.

Ma non sarebbe ei meglio, che si dicesse: il mio, e il non mio dei figliuoli, come si usa oggidì? piuttosto, che in questo modo di Socrate nominare mio, e non mio, qualsisia infra due o infra dieci migliaja? Nel qual modo d’oggi si può chiamare un figliuolo, e nipote, secondo la strettezza, e lontananza dei gradi del parentado: o suo, o di quegli, che son discesi da lui. E così si può chiamare un altro compagno, e un altro della medesima tribù; chè, a dire il vero, nel modo che si usa è meglio essere nipote proprio di uno, che in quel di Socrate figliuolo.

Nè con tutto questo ordine è però possibile di sfuggirsi, che certi non sospettino, che quei sien loro figliuoli, e quei fratelli, e quei padri, e quelle madri, conciossiachè per via delle similitudini, che i figliuoli hanno coi padri, egli è di necessità che nasca infra loro una tal credenza: siccome dicono avvenir certi di questi, che sono iti descrivendo il mondo; i quali affermano nella Libia superiore ritrovarsi una gente che ha le donne comuni; dove i figliuoli, che nascono, vi si distribuiscono fra loro secondo la similitudine. Trovasi ancora fra i bruti delle femmine, come è dire cavalle, e vacche, che rendono i parti molto simili ai generanti; siccome si dice di quella cavalla di Farsalia, che per tal cagione ebbe il soprannome di giusta.

Ancora non è possibile a chi mette un tal ordine di schifare queste difficoltà; come sono, verbigrazia, le battiture, e le morti, e sì le fatte contro tua voglia, come le volontarie; ed i combattimenti, e le villanie, che sono cose scellerate da farsi dai padri verso i figliuoli, e verso le madri, ed i consanguinei più che in verso gli stranieri: anzi è di necessità, che tali intervenghino molto più spesso qui, dove gli uomini non si riconoscono per quello, che ei sono.

E sebbene elle seguono nei luoghi, dove e’ si riconoscono, è lecito con tutto ciò d’andarle espurgando coi modi debiti: e qui non ci è verso alcuno. È ancor disconvenevole agli introduttori di questa simil comunità, l’aver proibito solamente il concubito infra gli innamorati; e l’amor venereo non aver proibito, nè le altre sorta d’intrattenimenti, che sono brutte ad esser fatte dai padri inverso i figliuoli; e dai fratelli inverso i fratelli: essendo cosa nefanda il permettere infra di loro solamente l’amor venereo. Ed è disconvenevole quella cagione, che vieta infra di costoro il concubito; la quale è, perchè non intervenga loro troppo gran piacere: e di poi non tener alcun conto, che uno sia o padre, o figliuolo, o fratello, o altrimenti congiunto per parentado. E se tal comunità della moglie, e dei figliuoli sta bene a persona, ella sta meglio ai contadini, che ai custodi. E la ragione è, che in tal modo verrà ad essere infra di loro manco amicizia. Il quale effetto sta bene, che sia nei sudditi, acciocchè eglino ubbidiscano più volentieri: e non tentino cose nuove.

Finalmente egli è di necessità, che per la legge posta da Socrate intervenga il contrario di quello, che doverebbono avere le buone leggi per fine; e di quello stesso, a che Socrate risguardò, quando e’ fece ne’ suoi ordini la comunanza delle mogli, e dei figliuoli. Perchè e’ si stima, che fra tutti i beni, che possono avere le città, l’amicizia infra cittadini sia il supremo; conciossiachè per tal verso e’ vengano a star manco in discordia. E Socrate loda maravigliosamente l’unità della città. E un tale effetto afferma egli esser effetto dell’amicizia, siccome noi sappiamo, che è introdotto a dire Aristofane ne’ suoi ragionamenti amatori; che gli amanti, cioè, per il veemente amore che e’ si portano, desiderano d’annestarsi insieme; e che d’amendue ch’e’ sono si faccia un solo.

Ma in tal modo è di necessità, che amendue si distruggano, o uno almeno. E nelle città è di necessità, che vi sia un’amicizia annacquata per simile comunicanza; e ch’un figliuolo non possa chiamarvi suo padre, nè un padre possa nominarvi un suo figliuolo. Perchè così come un poco di dolce messo in assai acqua fa di sè una mistione insensibile, parimente interviene che stia dove si ha da tener conto del parentado l’un con l’altro con questi nomi posti da Socrate; non essendo distinto in tal modo di vivere nè il padre dal figliuolo, nè il figliuolo dal padre, nè il fratello dal fratello; chè due cose invero son quelle, che sopra di tutte le altre ingenerano negli uomini diligenza e amore; il primo, dico, e l’oggetto amabile. Le quali due cose non si ritrovano in questi siffatti ordini. Ma l’ordine ancora, che è circa il trasportare i figliuoli, com’ei son nati, ora dai contadini, e dagli artefici ai custodi, ed ora dai custodi agli artefici, ed ai contadini, è molto tumultuario: in che modo, dico, e’ possa stare. Perchè egli è di necessità, che chi gli dà, gli conosca; e che chi gli trasporta a qualcheduno i trasportati consegni. Oltra di questo gli inconvenienti detti già innanzi molto più seguiranno infra costoro; come è dire, le contese, gli amori, e le morti: perchè i trasportati ad altri non chiamano di poi i custodi nè fratelli, nè figliuoli, nè padri. Nè all’incontro i dati ai custodi chiamano più i loro in quel modo. Di maniera che e’ non si hanno per il parentado ad aver più rispetto a far cosa alcuna. E quanto alla comunicanza delle mogli, e dei figliuoli, siasene talmente determinato.