Trattato dei governi/Libro secondo/III

Libro secondo - Capitolo III: Che l'accumunar la roba e la moglie è cosa pessima

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Aristotele - Trattato dei governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro secondo - Capitolo III: Che l'accumunar la roba e la moglie è cosa pessima
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Dopo questo è da vedere intorno alla roba qualmente ella debba star disposta in fra quei cittadini, che abbino a vivere sotto una ottima republica; s’ella debba essere, dico, a comune, o no. E tale considerazione facciasi separatamente da quella, che fu ordinata da Socrate circa i figliuoli e le mogli; io dico intorno alle possessioni, posto che i figliuoli, e le mogli fossin proprie nel modo, che s’usa oggidì, se e’ fosse meglio, che le possessioni, e l’uso d’esse fossin comuni, o no, verbigrazia, se ei fosse meglio, che le terre fossero dispersè e i frutti arrecati si consumassin comunemente, siccome usano di fare certi popoli; ovvero fosse meglio usare il modo opposito, cioè che la terra fosse comune, e comunemente fosse lavorata, e che i frutti si dividessino in proprio; il quale ordine si dice, che è, osservato in fra alcuni popoli barbari. Ovvero sarebbe me’ fatto, ch’ei fossin comuni le terre e i frutti.

Se i contadini adunque fossin diversi dai cittadini, ci si potrebbe trovare un altro modo, e più agevole; ma lavorandole essi cittadini da per loro, tale materia ha più difficoltà. Conciossiachè non essendo uguali ne’ frutti e nelle fatiche, per necessità v’intervenghino delle querele fatte cioè contra chi gode assai, e dura poca fatica da chi gode poco, e molto lavora.

Insomma tutto l’ordine è faticoso e difficile, che si fa intorno alla compagnia del vivere insieme; e dell’altre cose, in che gli uomini hanno a convenir l’un con l’altro: e massimamente infra queste. E ciò si dimostra per le compagnie di quei che vanno insieme a viaggio; dove interviene, che tali sovente vengono a questione per cose vili, e che sono di poca importanza. Oltra di questo gli uomini s’adirano assai con quei servi, che loro ministrano innanzi; e che loro stanno d’attorno.

E così il fare comuni le possessioni qui ci partorisce queste, e simili difficoltà. E molto mi pare da preferire il modo, che si costuma oggi intorno a questa materia; quando, cioè, dai buoni costumi, e dai buoni ordini ei fosse ridotto più bello: imperocchè e’ verrebbe ad avere le comodità dell’uno e dell’altro modo. Io intendo dell’uno e dell’altro, cioè, e del modo, che fa le cose comuni, e di quello, che le fa proprie: perchè e’ si debbe fare in modo che le possessioni in certo verso sieno di comuni, e in fatto sieno proprie. Perchè in tale ordine essendoci le diligenze divise nei particolari, non ci interverranno querele tra l’uno e l’altro; e maggiormente gli uomini vi baderanno: facendo ciascuno la diligenza per sè stesso accuratamente. E la virtù farà poi che l’uso d’esse sarà a comune secondo l’antico proverbio, che infra gli amici ogni cosa è comune.

E questo modo è scritto per legge in alcune città oggidì, come per non impossibile ad essere usato; e massimamente nelle ben governate ve n’è una parte osservata, e l’altra vi potrebb’essere. Perchè in tale ordine ciascuno avendo le possessioni proprie d’una parte dei frutti, ne fa bene agli amici, e d’un’altra al pubblico, siccome s’usa in Sparta. Dove quei cittadini usano i servi l’uno dell’altro come se e’ fossero (per via di dire) proprî; e il medesimo fanno de’ cavalli e dei cani e del vitto; se nell’essere fuori per la provincia e’ mancasse loro. È manifesto adunque essere meglio che le possessioni sieno proprie; e che l’uso le faccia comuni. E a fare i cittadini in tal modo disposti, è questo ufficio proprio del legislatore.

Oltra di questo egli è indicibil cosa, quanto tal modo dello stimarsi le possessioni proprie avanzi l’altro modo in quanto al piacere; che non già a caso è l’amore, che ciascuno porta a sè stesso, ma è naturale. È ben vero, che l’amare sè stesso è giustamente ripreso; ma tal cosa non è amar sè stesso, anzi è uno amarsi più ch’e’ non si conviene. Come ancor si riprende l’amatore dei denari; imperocchè ogni uomo, per via di dire, è di tai cose amatore. Oltra di questo egli è cosa piacevolissima il fare de’ piaceri; l’aiutare gli amici, e i forestieri, e i compagni; il che si può mettere in atto da chi ha le facoltà proprie.

Questi effetti adunque non intervengono dove la città è troppo diventata una; e di più v’intervien la morte di due virtuosi esercizî manifestamente; l’un, dico, dipendente dalla temperanza, essendo cosa onesta mediante lei l’astenersi dalle donne d’altrui; e l’altro dipendente dalla liberalità, la quale consiste intorno alla roba. Perchè ei non vi si potrà dire certo d’uno, che e’ sia liberale, o che egli operi alcuna azione liberale; essendo l’esercizio della liberalità intorno all’uso delle facoltà.

Ha per tanto simil legge del bello in aspetto, e pare ch’ella abbia dell’umano; perchè chi l’ode volentieri la riceve, stimando per tal legge dover essere infra i cittadini una amicizia meravigliosa; e massimamente udendosi i rammarichii per i mali, che oggi si fanno nelle città, i quali non sono apposti ad altra cagione, che al non avere le facoltà comuni. Io dico le liti, che dai contratti infra l’uno e l’altro intervengono; e i giudicî dati sopra testimonî falsi; e le adulazioni usate inverso i ricchi. Delle quali cose mal fatte nessuna è invero, che ne segua per cagione che le facoltà non sieno a comune; ma per cagione della cattività degli uomini.

Conciossiachè e’ si possa vedere in discordia molto più coloro, che hanno le possessioni in comune, che non sono quegli che l’han dispersè. Ma ei s’intende ben meno, che tali combattino insieme a comparazione di quei che hanno le facoltà proprie, che sono assai. Ma e’ non s’avrebbe a raccontar solamente di quanti mali fossin privati i comunicanti nelle facoltà; ma ancora di quanti beni e’ mancassino. Che invero a me pare, che tal modo di vivere abbia dell’impossibile. E io stimo che la cagione di un simile errore di Socrate fosse la sua falsa supposizione; perchè la città e la casa debbono essere una in certo modo; ma non interamente. Imperocchè ella potrebbe riuscire per tal verso in luogo, ch’ella non sarebbe città; e forse in luogo, ch’ella sarebbe città, ma peggio, che se ella non fosse; non altrimenti che se uno d’una consonanza volesse fare una voce unisona, o del verso volesse fare un solo piede.

Ma e’ si debbe (siccome io ho detto innanzi) d’una moltitudine di cittadini farne una sola cosa, e comune per via della erudizione. Ed è bene disconvenevole a credersi, che uno che voglia introdurre leggi in una città di poter per via di quelle di Socrate fare la città sua migliore, che per via dei costumi e della filosofia, e dell’altre leggi; siccome fece comuni le facoltà in Lacedemone, e in Candia il datore delle leggi per via del mangiare insieme. Nè questo ci debba essere nascosto, che a voler sapere se un ordine è buono o cattivo, e’ bisogna osservarlo in più tempo e in molti anni; che tutte l’usanze invero sono state trovate; ma parte d’esse non sono state indotte; e parte non sono state usate da chi n’ha fatto esperienza. Ma quello che io ho detto, ci si farebbe manifestissimo, se e’ fosse possibile di vedere in essere un tal modo di vivere che introduce Socrate; perchè e’ non potrebbe mai constituirvi gli uomini civilmente, se e’ non vi facesse qualche divisione infra loro, o con farne insieme mangiar una parte; o con dividergli in tribù o in compagnie. Onde e’ non si cava altro di buono d’esse leggi, che l’esser vietato ai custodi la coltivazione della terra. Il che tentano oggidì gli Spartani di mettere in atto. Nè con tutti i suoi ordini manifestò però Socrate, quale dovesse essere il modo del governo infra questi per sì fatto verso comunicanti; nè e’ lo disse; e manco è agevole a ritrovarsi. Ma la moltitudine degli abitanti nella città non è altro che un numero di cittadini differenti di specie, dei quali esso niente determina. Nè determina ancora se le facoltà infra i contadini debbino essere comuni o proprie; così nè dei figliuoli, nè delle mogli loro.

Imperocchè se e’ fa comune infra loro ogni cosa, in che saranno costor differenti dai custodi? O per quale vantaggio sopporteranno eglino l’impero? O da che erudizione saranno indotti a voler ubbidire? Se già e’ non userà un inganno simile a quello dei Candiotti, i quali avendo permesso ogn’altra cosa ai servi, solamente vietano loro l’esercitarsi nei giuochi e il maneggiamento dell’armi. Ma se queste due cose saranno lor comuni, siccome elle sono nell’altre città che modo ci fia mai di convenire insieme con loro? Che e’ conseguiterà necessariamente che in una sola città due se ne rivegga; e ben contrarie in fra loro, perchè quivi è messa una parte d’uomini; e questi sono i custodi in sicurtà e in guardia. E gli altri vi sono messi per contadini o artefici. E gli altri per cittadini.

E le querele e le liti e tutti gli altri mali, che afferma Socrate trovarsi nelle città, in questa sua medesimamente si troveranno. E qui, dice egli, che a tali non farà di molte leggi mestieri per la erudizione che egli avranno; ma solamente farà loro mestieri di leggi civili, o di forensi o curiali, e di simili; dando tale erudizione appunto ai custodi. Oltra di questo e’ fa padroni li contadini delle possessioni, volendo che e’ se ne portino i frutti; ma egli è ragionevole, che e’ diventino incomportabili e pieni d’astuzia; molto più che non sono appresso di certi gli Iloti e i poveri e i servi. Ma e’ non determina ancor nulla, se tai cose sieno, o non ben necessarie. Nè delle cose che conseguitano a queste, qualmente elle s’abbino a disporre per via del governo, e in che modo ad instruirle, nè che leggi s’abbia a por loro (nè tal cosa è agevole a ritrovarsi, nè è di poca importanza) in che modo elle debbino stare per cagione della salute dei custodi. E posto che nella sua republica e’ facesse le mogli comuni e le facoltà proprie, chi vi fia che governi la casa? siccome fanno gli uomini del governare i campi; ancora che egli abbino le donne e le facoltà comuni.

E l’esempio dato qui delle bestie è disconvenevole, a voler cioè, che e’ si debba instruire le donne non altrimenti che gli uomini ai quali non s’appartiene la cura di casa. È ancor pericoloso l’ordine di constituire i magistrati che usa Socrate; facendo sempre i medesimi in magistrato; e questo può essere cagione di molti tumulti ancor negli uomini che non abbino dignità alcuna. Ora pensisi qualmente e’ lo susciteranno negli animosi e armigieri. E che e’ li convenga far sempre i medesimi di magistrato, è certissimo; imperocchè quel divino oro non si mescola ora a questi, e ora a quegli nell’animo scambievolmente; ma ai medesimi sempre. Anzi dice, che subito a certi da essa natività è infuso l’oro, a certi l’argento e il bronzo e il ferro a quei che hanno a essere artefici o contadini.

Oltra di questo, togliendo ei via la felicità dai custodi, afferma che al legislatore s’appartiene di fare la città tutta beata. Ma egli è impossibile che questo sia, se e’ non v’è la più parte dei cittadini, o tutti, o certi almeno che ne sieno partecipi. Imperocchè l’essere felice non conviene nel modo che l’esser pari; perchè il numero pari può essere nel tutto e non in nessuna parte; ma non già l’essere felice. Or se i custodi non vi fieno felici, chi altri mai di loro fia che vi possegga la felicità? perchè e’ non saranno già gli artefici, o gli uomini sordidi in questo numero. Il governo adunque della Republica, della quale ha trattato Socrate, contiene in sè questi dubbi e altri ancora di questi maggiori.