Trattato de' governi/Libro sesto/III

Libro sesto
Capitolo III:
Perchè ei si dia più sorti di governi

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Aristotele - Trattato de' governi
(Politica)
(IV secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Bernardo Segni (XVI secolo)
Libro sesto
Capitolo III:
Perchè ei si dia più sorti di governi
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[p. 216 modifica]La cagione adunche, perchè ei si dan più sorti di stati è, che le parti della città sono assai di numero. Primieramente e’ si vede, che le città sono composte di case; dipoi questa moltitudine tutta si divide in poveri, in ricchi, e in mediocri. E li ricchi, e li poveri un’altra volta si dividono in chi ha l’arme, e in chi non l’ha, e in chi lavora il terreno, in chi attende alle mercanzie, e in chi fa l’arti vili. Ancora li cittadini grandi hanno differenza infra loro per ricchezza, e per moltitudine di possessioni, come sono verbigrazia quegli che nutriscono cavalli; il che non si può fare, se non da chi è molto ricco.

Onde negli antichi tempi in quante città era la forza della loro milizia a cavallo, in tutte v’erano stati di pochi potenti, perchè allora s’usava la milizia a cavallo contra li nemici, come si costumava di fare da quei di Eritrea, da quei di Calcide, e da quei di Magnesia, da quei, dico, che erano sopra a Meandro1, e da molti altri popoli dell’Asia. Ancora oltra le differenze, che sono per via di ricchezza, cioè quella che ha la nobiltà del sangue, e quella che fa la virtù, o se alcuna altra differenza parte si trova nella città. Di che si è detto nel trattato degli ottimati, ove io ho distinto di quante parti necessarie la città è composta, perchè le dette parti alcuna volta concorrono tutte nello stato, alcuna volta ne concorre meno, e alcuna volta più.

E però è menifesto, che di necessità gli stati debbino essere differenti di specie; per la ragione che dette parti ancora infra loro sono differenti di specie. Chè lo stato invero non è altro che una [p. 217 modifica]ordinazione sopra li magistrati. La quale ordinazione da ogni città si distribuisce o col rispetto della potenza dei partecipanti nello stato, o col rispetto d’una certa qualità: io dico, o dei poveri, o dell’uno e dell’altro insieme. È pertanto di necessità, che tante sieno le specie degli stati, quanti sono gli ordini che si danno per via d’eccellenza, e per via della differenza di esse parti.

Le quai differenze massimamente a due si possono ridurre, come ancora si dice dei venti che alla tramontana, e all’austro ridurre si possono; essendo tutti gli altri trapassamenti di questi due. Così infra gli stati due massimamente sono li principali, il popolare cioè, e quel dei pochi potenti; imperocchè l’ottimate stato si può mettere infra le sorti dei pochi potenti, come quello ch’è un certo stato di pochi. E parimente lo stato detto col nome comune di republica si può mettere infra i popolari, siccome ancora infra i venti il zeffiro si può mettere infra i tramontani, ed euro infra i mezzigiorni. Questo medesimo avviene ancora (come certi dicono) nelle armonie, che quivi similmente pongono due sorti d’esse per principali; la dorica, dico, e la frigia, e l’altre tutte ordinazioni d’armonie si riducono o all’una, o all’altra. Così adunche è stimato che stia la cosa negli stati.

Ma il modo come gli ho io divisi è migliore, e più vero: cioè che essendo un modo solo, o due di stati buoni, gli altri tutti sieno trapassamenti, e errori di questi; quei, dico, della bene composta armonia, e questi della ottima republica. E chiamo stati di pochi potenti quei, che sono più intesi, e che più hanno del signorile. E popolari quei che sono più rimessi, e che più hanno del

no match

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molle.


Note

  1. Sulle rive del fiume Meandro.