Trattatelli estetici/Parte seconda/XIII. Decrepitezza della poesia moderna
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XIII.
DECREPITEZZA DELLA POESIA MODERNA.
Polidoro è un poco amatore dei paradossi, non tanto perchè disami la verità, quanto che per esperienza fatta degli uomini conchiuse giovar a persuaderli più ch’altro il farli stupire, ciò ch’ei pensava di ottenere lanciando nel caldo delle questioni alcuni stravaganti principii, e difendendoli con quanto aveva d’ingegno e di coraggio. Trovavasi un giorno in non so quale crocchio ove discorrevasi di poesia (vedete che razza di persone dovevano essere, le quali discorrevano di simili cose!) e cercavasi da qualcuno, che sembrava giovane e di buona fede, di delincare la fisonomia del poetare moderno. Polidoro, tagliando a mezzo la parola al giovane quistionatore, che gli era amicissimo e con cui poteva fare a fidanza, che moderno! proruppe, dite decrepito: la poesia moderna è una vecchierella che trae da una rocca tarlata le sue canzoni, bagnando a quando a quando il filo con un labbro freddo e cadente, nè più nè meno di quel delle Parche (con vostra sopportazione); e non delle Parche che facevano girare il fuso cantando l’inno de’ matrimonii.
Tutti piantarono in viso a Polidoro quel paio d’occhi che si fanno comunemente all’udire cosa strana; ma egli imperterrito proseguiva, e le cose ch’egli diceva, tra da burla e da senno, da me raccolte, che le ascoltai attentamente, mi daranno bastante soggetto al presente articolo.
Come volete che possa chiamarsi altro che decrepita (sempre Polidoro, l’amico de’ paradossi) la nostra poesia? Esaminatela, per quanto vi basta l’ingegno, ne’ soggetti in cui si compiace di preferenza, proseguite l’esame del modo onde gli tratta, e dovrete conchiudere che c’è da per tutto odore di muffa, e indizio di tarlatura. Avete mai veduto che i giovani si dilettino a preferenza di cronache e di leggende? Queste sono cose da fanciulli, e da vecchi, i quali col volgere degli anni rientrano ne’ gusti infantili. La più parte delle narrazioni poetiche dei nostri giorni, e comprendete in questo numero anche quelle che fannosi in prosa, si fondano sopra tradizioni incerte, e si giovano di un maraviglioso che sbalordisce e fa tramortire. Vi sembrano tutte, dal più al meno, racconti di povere genti che stanno a vegghia l’inverno, ove la parte di narratore appartiene presso che sempre al più vecchio, e chi ascolta con più attenzione sono i fanciulli. La gioventù all’incontro, confidente nella propria forza, tenta nuove strade, si ride delle anticaglie e sacrifica alla moda, sua divinità tutelare. Se la cosa non andasse più là, vorrei tuttavia menarvi buono il carattere di decrepitezza che vi ha nella scelta dei temi, dacchè anche in questo potrebb’avervi una novità, anzi la sola possibile novità, come appunto nelle mode femminili, che a capo di alcuni anni devono ritornare alle forme dismesse e dimenticate. Ma vedete un poco anche nel resto quanto indizio della suaccennata decrepitezza!
Quanti non sono i poeti d’oggidì che si compiacciono di darvi non più che i frammenti dell’opere loro? O, a meglio dire, quanti non sono quelli i quali altro non sanno mettere insieme fuorchè de’ frammenti? Domando io adesso, è egli proprio della giovinezza l’oprare di tal maniera, o non piuttosto della vecchiaia? All’entrare in una città ove, per belle che fossero, non altro trovaste fuor che reliquie di edifizii, direste essere quella città in sul fiorire, o non piuttosto che il tempo vi abbia passeggiato per entro a suo agio? E l’abuso de’ ritornelli e delle ripetizioni? Non è anche questo evidente scgnale d’un intelletto che per vecchiaia comincia a vacillare, ed ha bisogno di essere a poco a poco puntellato da quei ricordi?
Verità, si va dicendo, verità; tutto dev’essere vero; a monte le finzioni. Amici miei, e non è anche questo il discorso dei vecchi, i quali, sbugiardati di quante esser possono le chimere della vita, onde abbellasi e intorno a cui si raggira folleggiando la giovinezza, abbracciano il vero come unico ed estremo loro conforto? Voi credete ringiovanire la poesia togliendo da essa le finzioni mitologiche, ma e non ci vuole una grande freschezza d’immaginazione giovanile a figurarsi la natura insensibile popolata da tanti enti animati, e tutti presti ai bisogni e alle passioni degli uomini? All’incontro per dare alle cose i loro nomi, per concepirle quali esse sono, si richiede una lunga via di esperienza, la quale non può da altri ottenersi che dalla lenta e mez20 consumata vecchiaia.
Se io volessi continuare non la finirei così presto. Quel ticchio di filosofare in tutti i casi, vi pare egli che non entri ancor esso nella sfera delle abitudini senili? Un poctino de’nostri giorni voi vel vedete subito piantar cattedra per lo meno di morale, se pure non voglia mettere il becco in molle nelle scienze legali o teologiche, e ch’è che non è, a proposito del fiorellino che sbuccia, o del rivoletto che mormora, sciorinarvi la sua teorica delle passioni, o dei diritti e doveri che competono all’uomo originariamente e nelle attuali relazioni di società. Il bel cambio veramente! Torsi dal crine la corona di lauro di un dio giovane e innamorato, per mettersi al volto la barba prolissa e le folte sopracciglia de’ cattedranti! E l’armonia dei loro versi la lasciate da parte? Direte all’udire certe ruvidità, certe spezzature, certi scontri antimusicali, che siano orecchie giovanili quelle che giudicarono piacevoli siffatti suoni? Vecchie orecchie, miei cari, orecchie decrepite che non sono più quelle di un tempo; e, fatte un po’ dure, non possono più cogliere le finezze dell’armonia.
Avrei a dire più che un poco delle lungaggini. Altro che impetuosità giovanile! Non v’é narratore che non cominci dall’a e non vi conduca fino alla zeta per tutte le lettere dell’al fabeto, arrestandosi a ogni poco come per prender lena, appuuto come i vecchi che non possono tirar innanzi tutto d’un fiato. Che garrulità, Dio benedetto, in quella pretesa abbondanza! Che minuziosità in quella supposta esattezza! E quel voler rendervi il perchè d’ogni cosa? Alberto starnuta. — A quello starnuto ei si vuole arcodare mezza pagina di comento, e farne come a dire l’anatomia. Figuratevi poi se sospira, o se ride, atti in cui c’entra un po’ di volontà! Anche l’amore delle iscrizioni mi pute d’antico e di cimitero. Non si parla più alle persone, cui vuolsi mandare il proprio libro, per via di lettera, come costumavasi ad altra stagione; no signori, alquante righe, più e meno lunghe e spropositate, secondo i casi, e disposte a foggia di epigrafe. Tutto vuol essere marmorco, e monumentale.
Torno a ripetere, non la finirei così tosto se volessi toccare il fondo dell’argomento; ma basti per ora, che non voglio anch’io parere vecchio prima del tempo colla mia soverchia loquacità. E parliamo un poco d’altro. Fu questo, presso a poco, il discorso di Polidoro, al quale, in luogo di parlar d’altro, il giovanetto ascoltatore fece ingenuamente risposta, prendendolo per lungo e per largo, e notandone tutte le stravaganze e le assurdità, come può fare assai agevolmente la più parte de’ nostri lettori. Quanto a me, in onta alle stravaganze e alle assurdità sopraddette, credo che il discorso di Polidoro possa aprir gli occhi sopra alcuni difetti del poetare moderno, a tutti coloro che credono dormire sopra l’origliere della fama perchè sono cullati dall’adulazione.