Trattatelli estetici/Parte seconda/IV. Le parodie
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IV.
LE PARODIE.
Il carnovale è la stagione delle parodie. Le maschere, dal più al meno, sono tutte parodie, le feste da ballo per la più parte.
Mentre scriviamo, le strade eccheggiano di ululati, di zufolamenti, di tintinnii di campane e di campanelle; e dalle finestre illuminate di molte case odesi il suono degli strumenti, accordato o discorde che sia, dar avviso che là entro si balla. Non sarà dunque fuor di ragione e di luogo il discorrere alcun poco delle parodie. Ben è vero che, quando i nostri lettori avranno l’occhio su questi fogli, il carnovale sarà passato, ma passato da si breve tempo, che a stento si trovi chi non ne abbia un qualche vestigio nell’animo, o per lo meno negli orecchi. Per quelli poi, ai quali non è mai carnovale, l’articolo sarà buono del pari in questa che in qualunque altra stagione. Parodia è lo strafare imitando. L’imitazione è naturalissima all’uomo; è per essa ch’egli comincia ad acquistare, e in seguito rende d’ora in ora più sempre perfetto, l’uso delle sue facoltà più nobili e necessarie. A voler considerare attentamente il modo onde progrediscono i ragazzi nell’arricchire la propria mente delle cognizioni elementari, e nell’esercitare l’attitudine del proprio corpo, si troverà avervi quasi sempre una specie di parodia. Questa guisa di scherzo, mentre da un lato contenta il bisogno d’imitare insito nella nostra natura, lusinga l’amor proprio dell’uomo, che rifugge dal confessare espressamente la propria debolezza e le proprie necessità, alle quali non saprebbe provvedere di per sè stesso. Queste inclinazioni medesime, amplificandosi cogli anni, e prendendo una direzione più regolare, e tendente ad un’ utile meta, non cangiano natura, rimangono pur sempre, quali furono a principio, fondamentate nell’imitazione e nella parodia. Le sceniche rappresentazioni, chi voglia risalire al carro di Tespi vagante per le borgate dell’Attica, furono dapprima una specie di parodia.
Potevansi chiamare con altro nome i sa!ti e i gesti incomposti di quegli antichi istrioni lordi il muso di mosto e di faugo? E forse che un poco di parodia ci si vegga in tutti gli esordii dell’arte. Non vi è mai accaduto di considerare certe mostruose figure de’ primi secoli, o dipinte o scolpite? Non parlo della mostruosità che procede dall’ignoranza del disegno e della prospettiva; parlo di quelle esagerazioni di caratteri naturali e di costumi, che chiaramente si manifestano essere quasi stati cercati a bella posta.
Questa considerazione acquista sempre maggior forza come si passa d’età in età, e si scorgono secondo i medesimi principii condotti i lavori presso che tutti dell’arte. In presso che tutti i quadri di fatto vi ha sempre alcun che di bizzarro o nel concetto principale, o negli accessorii, che tiene incontrastabilmente dell’indole della parodia. Gioverebbe una tale considerazione eziandio a spiegare, se non a giustificare, in qualche parte il concorso del serio e del ridicolo di alcuni celebri drammi; e si le arti delle parole che quelle del disegno rivelerebbero in questa maniera un nuovo di que’ tanti legami che hanno fra loro, quando si vogliano giudicare secondo la loro più intima essenza.
La parodia è talvolta una specie di vendetta del debole sopra il potente; tal altra uno studio di volgere in burla ciò che, preso da senno, ne darebbe troppo pensiero: quando un semplice soddisfacimento al bisogno che abbiamo di torci alla uniformità della vita reale mutando condizione, e illudendoci colle finzioni della nostra mente; quando non più che un pretesto ed una comodità presa di uscire dalle pattuite forme del vivere per una via insolita e conceduta. Le maschere furono trovate, e giovaDO a questo fine. Da ciò si conosce come, facendo servire esse maschere a mire troppo particolari, e diremo anche nella loro ridicolosità troppo serie, si guasta l’originaria purezza di questo passatempo, e si fa rientrare nel circolo dell’uniformità della vita sociale anche questa invenzione, con cui gli uomini avevano cercato di svincolarsene per alcune ore.
Io non amo punto le maschere che covano un disegno, ossia non credo che formino allora più parte delle beffe del carnovale; ma debbono aversi per un travestimento che può esser fatto, da chi ne abbia voglia, in qualunque stagione. Prendete un abito qualunque che non sia il vostro, imbacuccatevi fino agli occhi nel vostro mantello, abbassate il cappello o il berretto fin sopra il naso; andatevene a passo o lento, o affrettato, fuori dell’ordinario, per vie poco frequentate, in ore sospette; trasmodato nella voce e nella fisonomia, dal sospetto, dalla collera, dall’amore; non ci avete bisogno di maschera, De di attendere il carnovale, ad apparire diverso da quello che vi mostrate agli altri uomini comunemente.
Ma quando senz’altro motivo determinato, fuor quello di divertirvi come più incontra, vi lasciate andare all’esagerata imitazione dell’abito, e del fare di tale o tal altra nazione, di tale o tal altra condizione di gente, allora voi siete in maschera propriamente, ossia secondo furono a principio trovate le maschere, e potete dire di far parte del carnovale. Io non prendo argomento a giudicare se sia questa o quella la guisa onde Tizio e Caio sono mascherati, se non dalla maggiore o minore allegrezza che ne traggo io medesimo dal guardarli e dall’udirli. Ecco Sempronia: cammina incordata e sospettosa; non ride, non ghigna; susurra all’orecchio di questo o di quello, ciò ch’ella crede un bel moto; si tormenta se da lato a Pomponio è Servilia, se Learco si fa troppo a lungo aspettare. E quella è maschera? E quello si chiama divertirsi? Essa è quella stessa Sempronia, dispettosa, superba, invida, maligna, di tutto l’anno; e alle noie, ond’è tutto l’anno assiepata, si aggiunse nei giorni del carnovale il soprappiù dell’arredo, del compagno, e di ogni altra cosa che le abbisognò, per porsi in maschera, tormentare sè stessa, e dar poco spasso al suo prossimo, se non fosse del ridere che si è fatto alle sue spalle.
Ma quei perpetui irrisori della signorile magnificenza, que’ pagliacci, quelle compagnie di genti chiozzotte, napolitane, turche, spagnuole, che vanno attorno spensieratamente cantando, suonando, o semplicemente parlando nella loro foggia particolare, e a cui, come passano, il popolaccio curioso, che pur sa che sono quelli d’ogni anno, fa ala, per vederseli sfilare davanti, sono queste le vere maschere che mi vanno a sangue, e delle quali io prendo un qualche piacere, quantunque non urti chi mi precede, né desideri punto d’essere urtato da chi mi segue, se mai m’imbatto in esse lungo la strada. Le maschere taciturne e solitarie, così dette pulite, mi riescono indifferenti, o mi fanno, tutto al più, se abbigliate con gusto, e ben portanti della persona, quel senso di compiacimento che traggo dal vedere una moda recente iudosso a una leggiadra signora, o a un bel signorino.
Due parole anche dei balli. Le feste di ballo mi paiono anch’esse partecipare della parodia. Sono persone che imitano il furore di chi sia preso da una grande allegrezza. Si abbandonano colla testa all’indietro, come sdilinquissero dalla gioia, sollevano le braccia come per acclamare; saltano da terra tanto alte, perchè la terra non è più capace a contenere quest’anime che hanno finalmente trovata la loro felicità. Dopo i loro movimenti, considerate le loro vesti. Si pongono, naturali o posticce, secondo i casi, grandi masse di capelli; freschi o artifiziali, si circondano di fiori; proprie o d’altrui, si chiudono in vesti eleganti e sfarzose. Quest’è la parodia della gioia. Deve credersi che tante persone dal detto al fatto siano diventate felici, come mostrerebbe quella loro ebbrezza? O che la loro felicità si derivi dal compagno con cui alternano i moti e le pause della danza, compagno che non hanno spesse volte più visto prima di allora, e dopo quell’ora non avranno forse più a rivedere? Mi si dirà che io scrivo in un momento di mal umore: anzi no, e protesto sincerissimamente che intanto i balli mi danno piacere, se mai il caso mi ci getta in mezzo, in quanto so che in quella gioia nulla c’è di reale, che tutti i bei colori di quelle facce effetto sono dell’atmosfera infiammata della sala; che molta di quella mostra di voluttà e di ricchezza è posticcia; che quei legami di persona con persona sono per lo più stretti dell’accidente; e che tutti sanno prima di movere i piedi, anzi prima di venirne al luogo assegnato alla festa, che al cessare della musica, e al primo illanguidire delle faci, quella gioia deve necessariamente finire, smarrirsi quelle tinte vivaci, mancar quella pompa, sciogliersi tutte quelle corrispondenze. E non è come nella vita, in cui la sventura viene a strapparti inopinata al convito ov’eri seduto cogli amici, a torti di mano il bicchiere non ancora vôto, e spesse volte subito dopo il primo sorso. Qui tutto è a tempo; le battute che comandano l’allegrezza sono tante, e non più: e quando la marcia finale intima la partenza, nulla ti giugne all’animo di nuovo o d’improvviso per la via degli orecchi.