Trasformazioni industriali e trasformazioni linguistiche nel cinema americano del dopoguerra/Capitolo 1/La crisi delle Majors

Capitolo 1
Linee di trasformazione nel cinema americano del dopoguerra

La crisi delle Majors

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Il 1946 fu un anno particolarmente felice per l'industria cinematografica americana che vide salire parallelamente i livelli di produzione e quelli d'incasso. La produzione di Hollywood superava quello di ogni altro continente: 378 film contro i 350 dell'Europa, i 150 dell'America latina, i 350 dell'Asia, ed i 60 della Africa.1 D'altro canto l'allentamento delle tensioni derivante dalla cessazione del conflitto mondiale provocò in America un desiderio di divertimento, buona parte del quale venne soddisfatto dal cinema. Poco più di 4.060 milioni di spettatori pagarono 1.692 milioni di dollari per andare al cinema. Questa condizione non si ripeterà più negli anni a venire; anzi, già alla fine di quello stesso anno gli scioperi delle miniere di carbone e delle ferrovie facevano presentire un cambiamento nel clima sociale della nazione tale per cui negli anni successivi il divertimento non occuperà un posto così rilevante nei desideri della gente. Da allora in poi il cinema stesso andò progressivamente perdendo terreno nell'andamento generale delle spese per la ricreazione in U.S.A.

Già nel 1947 il numero dei biglietti strappati oalò di 403 milioni di unità rispetto al 1946 e nel 1948 calò ancora di circa 242 milioni, per cui il numero dei biglietti venduti in quell'anno si aggirò intorno ai 3.422 milioni di unità. Si credette di trovare una spiegazione di questo calo nella graduale diffusione della televisione: ma, come in parte abbiamo già visto, in realtà fu il cambiamento sociale di quegli anni a determinare il destino di entrambe i mass-media. Ed esso decretò un calo del cinema ed un incremento della televisione. Alla soglia degli anni '50 l'industria cinematografica americana subì già un forte ribasso. Se nel 1946 quasi 20 cents di ogni dollaro speso dagli americani per la ricreazione andarono alle sale cinematografiche, nel 1950 andarono solo 12 cents per ogni dollaro. Evidentemente il tempo libero veniva impiegato secondo altri criteri.

Ma i dati appena riportati non sono sufficienti a mettere in grave crisi un'industria. Ad arginare la situazione ci si aspetterebbe infatti, come contropartita, un almeno momentaneo calo della produzione. Ma non fu così. Nel 1950 i film in circolazione erano 473 e di questi ben 425 erano stati realizzati in quell'anno: erano insomma stati prodotti circa cinquanta film in più rispetto al 1946, senza che a questo corrispondesse un reale aumento del numero degli spettatori cinematografici. Oltre a questo, nel frattempo erano sensibilmente aumentati anche i costi di produzione, per cui, a ben vedere, questo incremento di produzione si rivelò una pazzia in termini commerciali.

Naturalmente, nel corso degli anni '50 il livello di produzione andò sempre più calando. Nel 1952 si potevano vedere sugli schermi 386 film e di questi 353 erano nuovi. Nel 1954 i film nuovi scesero a 294. Nel 1955 furono 254 ed infine nel 1959 scesero ancora a 236. In quest'anno si registra pure la cessazione dell'attività da parte della "Republic", l'ultima autentica sopravvissuta nella lunga tradizione delle compagnie di produzione a basso costo, già in difficoltà a metà degli anni '50. Nel frattempo il numero dei biglietti venduti non era certo aumentato. Verso la fine del decennio si aggirava intorno ai 2.200 milioni, cioè poco più della metà della cifra riguardante il 1946.2 Questo quadro risponde ad una precisa politica di produzione messa in atto in quel periodo dai dirigenti delle Majors: una politica rivelatasi disastrosa e non solo sotto il profilo economico.

Già nel 1946 Darryl F. Zanuck della "Twentieth Century Fox" prese una decisione di grande importanza. Il suo Studio non avrebbe più fatto film di serie B, i prodotti più a buon mercato che costituivano metà delle programmazioni delle sale poste fuori dalle città. D'ora in avanti la Fox avrebbe offerto soltanto "lucentezza, fascino e gloria. Alla Universal ed alla Columbia, allora entrambe produttrici di film a basso costo, le rispettive direzioni rividero la loro strategia e giunsero ad una decisione equivalente: avrebbero cominciato a produrre film più costosi".3 Questa politica di produzione, che fu presto adottata dalle altre Majors, trova la sua ragione più prossima nella comparsa delle prime misure antitrust efficaci. In conseguenza di alcune cause contro gli Studios furono proibite quelle intese sottobanco in forza delle quali una qualsiasi sala, indipendente o no, si veniva a trovare di fatto legata ad uno Studio nei trionfi e nei disastri, e tutto sulla base di un vero e proprio ricatto. O prendevano i film di uno Studio, o non avrebbero potuto prendere dei film del tutto. Per circa un ventennio insomma, dal 1938, anno in cui il Dipartimento della giustizia cominciò a perseguire in modo più attivo gli Studios, fino al 1959, anno della vendita dell'ultima catena di sale della MGM, perdurò questa situazione. Essa se da una parte non favoriva gli esercenti che non potevano noleggiare i film a loro più convenienti, d'altra parte non giovava nemmeno agli Studios che, invece di adeguarsi alle nuove disposizioni, di fatto rimandavano il problema più in là possibile, senza peraltro risolverlo. Dal momento in cui la legge intervenne con dei provvedimenti precisi, l'industria del cinema cominciò a cambiare faccia.

D'altra parte la decisione di concentrare la produzione in pochi film sembrava trovare un'ulteriore giustificazione nel progressivo aumento della diffusione della televisione: in risposta a quello che il pubblico vedeva trasmettere nei piccoli schermi, il sogno dei Moguls era quello di poter contrapporre la spettacolarità delle immagini sui grandi schermi del cinema. Ricomparve così il, peraltro non mai sopito, culto della spettacolarità, della grandiosità, in altri termini quella che si può definire la "megalomania di Hollywood", ora considerata l'unica promessa di salvezza per l'industria del cinema fino almeno alla metà degli anni '60.

Cominciò dunque un periodo tra i più dispendiosi della storia del cinema, nel corso del quale vennero realizzati film solenni nel tono, d'argomento spesso storico— antico o biblico. Dopo Samson and Delilah (Sansone e Dalila, 1949) e Quo Vadis (id., 1951) se ne possono contare almeno uno ogni anno: David and Betsabea (Davide e Betsabea, 1952), The Robe (La tunica, 1953), The Egyptian (Sinuhè, l'egiziano, 1954), Land of the Pharaons (La regina delle piramidi, 1955), il rifacimento di De Mille del suo vecchio The Ten Comandaments (I dieci comandamenti, 1956), Ben Hur(id., 1959), e poi ancora negli anni '60 Spartacus (id., 1960), Kings of Kings (I1 re dei re, 1961), Barabbas (Barabba, 1962), Cleopatra (id., 1963), The Fall of the Roman Empire (La caduta dell'impero romano, 1964), The Greatest Story Never Told (La più grande storia mai raccontata, 1965), The Bible (La Bibbia, 1966).

Per chi produceva questi film la ragione d'essere del cinema sembrava più che altro quella di combinare complicati affari di portata mondiale. I Moguls agivano secondo una logica per cui "grandiosità significa schermo grande, e lo schermo grande dev'essere riempito di cose grosse, come costruzioni e incendi di città, come circhi romani stipati di folla, come nazioni in marcia; e tutto questo richiede ingegnosità, autorità e denaro, e ingegnosità, autorità e denaro diventano rapidamente e scopertamente il tema di questi film... Il mondo antico delle epopee era una grande e sfaccettata metafora di Hollywood, perché, anche quando venivano girati in esterni o negli Studios italiani e spagnoli, questi film concernono sempre la creazione di quel mondo in un film, la capacità di Hollywood di duplicare antichi splendori, di portare sullo schermo Roma e l'Egitto" (Michael WOOD, op211, pag.156-157.). Colui che impersonificò questo ideale di grandiosità fu Cecil B. De Mille, che Wood definisce un "maestro dell'esagerazione cinematografica"; nella sua autobiografia De Mille si paragonava ad dirittura al comandante di un esercito "il quale deve fare in modo che tutte le unità delle sue armate, con tutte le loro differenti funzioni nell'imminente battaglia, siano pronte a colpire contemporaneamente alla data prestabilita".

Ma questo culto della grandiosità che Hollywood aveva salutato come una promessa di salvezza per la propria industria, si rivelò in realtà nulla più che una debole strategia contro il potere sempre più indiscutibile della televisione. Negli anni '60, poi, esso divenne la causa principale del tracollo delle Majors. In quel periodo la maggior fonte di guadagno per Hollywood era costituita dai film progettati come intrattenimento per le famiglie. Nel 1965, ad esempio, ce ne furono molti e di successo: Mary Poppins (id., 1965), Goldfinger, (Agente 007: missione Goldfinger), My Fair Lady (id,), Those Magnificent Men in Their Flying Machines (Quei temerari sulle macchine volanti) ed infine quello che divenne il modello per molte produzioni seguenti, The Sound of Music (Tutti insieme appassionata mente, 1965) di Robert Wise. Erano film d'avventura o di fantasia il cui scopo era quello di attirare l'attenzione degli adulti come dei bambini, della famiglia insomma. E in effetti, "tutto sarebbe andato bene se questi film avessero portato come conseguenza un ragionevole margine sul capitale impiegato, così da fare le loro continuazioni, imitazioni e repliche. Ma i costi salivano più rapidamente delle entrate e d'altra parte gli 'hits' sembravano d'oro, sicuri. Tutto ciò che rimaneva da fare per bilanciare i conti era un altro 'hit' come il precedente, perfino se i costi sarebbero stati più alti. La strada della rovina è chiara". 4

Paradossalmente Hollywood stava declinando proprio mentre otteneva ancora dei grandi successi. Infatti, nell'euforia prodotta dal boom economico della metà degli anni '60, non era difficile per le compagnie ottenere dalle banche dei prestiti in modo da realizzare i loro 'hits'. Prima che la guerra del Vietnam si trasformasse in un disastro economico, aveva favorito in qualche modo la produzione ed il consumo, aveva dato impiego, voglia di fare soldi e aveva facilitato quindi i prestiti in denaro. Così, ad esempio, non era stato difficile alla Fox trovare il denaro per due suoi elefantiaci insuccessi quali Dr. Dolittle e Hello Dolly, prodotti sull'onda di un appariscente successo quale fu invece The Sound of Music. Quest'ultimo ebbe un costo di produzione intorno agli 8/9 milioni di dollari, ma ne incassò 79. Gli altri due, invece, costarono all'incirca 18 milioni di dollari, ma Dr. Dolittle portò un profitto al distributore inferiore ai dieci milioni di dollari e Hello Dolly di 15.200.000 dollari.5 Così la Fox si trovò per un certo periodo a dover lavorare solo per restituire i prestiti alle banche.

Le altre Majors non stavano certo molto meglio: in particolare risultava problematico lo stato degli affari derivanti dall'esercizio. La "Stanley Warner Company", sotto il cui nome si riunivano le sale cinematografiche del vecchio impero della "Warner Brothers", era ormai ridotto a 425 sale, quando si divise dalla Warner Bros. La "Paramount", che una volta possedeva 1.600 sale, ne aveva ora 426. Verso la fine degli anni '60 la "RKO" doveva dividere i suoi profitti all'interno di un conglomerato industriale proprietario tra l'altro delle miniere di antracite della Pennsylvania e della maggior parte delle fabbriche tessili del sud. Ma prima di venir tutte fagocitate dalle multinazionali, le Majors ebbero ancora il tempo di illudersi di potersela cavare in qualche modo.

Un momentaneo sollievo ai loro bilanci venne proprio da dove meno se lo sarebbero aspettato, cioè dal rivale a causa del quale si erano dovute gettare nel rischio della produzione ad alto costo: la televisione. Si è calcolato che in una domenica di settembre del 1966 più di 60 milioni di americani fossero seduti davanti alla televisione per vedere un epico film di David Lean sulla guerra in Burma, Bridge Kwai (Il ponte sul fiume Kwai, 1957). Il film era stato diffuso circa dieci anni prima nelle sale cinematografiche e la Columbia non sperava più ormai di poterne ricavare ancora dei soldi; perciò lo vendette alla ABC-Television per il valore simbolico di un dollaro. Naturalmente da quella sera il valore simbolico da pagare per la vendita dei diritti televisivi non fu più così basso. Le Majors credettero di potersi rifare in questo modo dei magri incassi cinematografici. Ma era del tutto illusorio pensare di sollevare le sorti del cinema senza aumentare il numero dei biglietti venduti. Tuttavia per la prima volta la televisione venne a giocare un ruolo diverso da quello tradizionale di rivale per eccellenza del cinema. Essa aveva anzi un terreno comune con l'industria cinematografica.

La loro collaborazione poteva svilupparsi in due direzioni: da una parte la vendita dei diritti televisivi; dall'altra la produzione di programmi filmati concepiti appositamente per la televisione. In questo settore già nel 1964, prima che esplodesse l'affare "Kwai", le entrate delle Majors ammontavano a 300 milioni di dollari, pari a circa un terzo degli introiti totali. Lo sviluppo di questa attività portò all'avvicinamento dei due mass-media. Ci sembra dunque opportuno soffermarci sulle relazioni tra cinema e TV, relazioni che, come vedremo, hanno inciso e tuttora incidono in modo rilevante sull'evoluzione delle forme dello spettacolo in U.S.A.

Note

  1. Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale, Milano, Feltrine1li,(30 ed.), 1978, pag. 686. Sulla cifra riguardante il numero dei film prodotti da Hollywood in quell'anno ci sono dati discordanti. Per es., Myles e Pye nel loro libro, che si basa principalmente sui dati di "Variety", indicano in 383 il numero dei film nuovi prodotti da Hollywood nel 1946, mentre quelli in circolazione sarebbero stati 400. Ciononostante il senso delle cifre non ci sembra cambiare.
  2. Questo dato proviene sempre dal libro di Sadoul. Esso è desunto da "Faites et chiffres", 1961, UNESCO, e riguarda gli anni 1956, 1957, 1958.
  3. Michael PYE & Lynda MYLES, op. cit., pag.22.
  4. Michael PYE & Lynda MYLES, op. cit., pag.40. Gli autori riportano anche un'interessante dichia razione fatta al "Motion Pictures Journal" da Mr. Howe, che si occupa degli investimenti della "Bank of America" in campo cinematografico. Secondo quanto da lui calcolato, in un anno come il 1967 le compagnie cinematografiche americane avreb bero ricavato da tutti i loro film in circolazio-ne un profitto pari a circa 200 milioni di dollari. Ma "lungo il corso degli anni '60 le sette maggiori compagnie cinematografiche americane assunsero rischi di produzione a causa dei quali ognuna di esse eccedeva ogni anno di 50 milioni di dollari, e le altre compagnie cinematografiche in sieme ad altri investitori aggiungevano probabilmente altri 50 milioni di dollari, totalizzando all'incirca 400 milioni di dollari. Così il costo di fabbricazione del prodotto superava il profitto di mercato dì qualcosa come 2 a l, e qualcosa ancora doveva essere restituito" (pag.39).
  5. Queste cifre sono riportate in AAVV, Hollywood 1969-1979. 2.Industria autori film, Venezia, Marsilio, 1979. Si basa su dati estratti da "Variety".