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stenza che ne ero sbalordito, ed il capo mi pesava come dopo un’emicrania.

Il giorno seguente, alle undici del mattino, stavo in piedi al caffè Martini dalla parte di via Manzoni. Il mio famoso: «Quanto tempo che non vi vedo, Max!» cominciava a farsi scolorito, e, malgrado tutti gli sforzi della mia immaginazione, non mi riesciva più di riprodurre, nel pronunciare quella frase, l’impressione di dolcezza che mi aveva fatta provare il giorno innanzi. Avevo vegliato tutta notte su quel pensiero. Lo avevo completamente esaurito, e con esso la mia energia, l’immaginazione, e la potenza d’amare. Ero annoiato; mi trovavo puerile d’aver fantasticato come uno scolaro dietro un sogno d’amore; i miei scrupoli a proposito di Vittoria mi sembravano ridicoli; insomma l’uomo raffazzonato dalle abitudini sociali si sostituiva in me all’uomo della natura, in quell’atmosfera del caffè Martini.

Guardavo giù giù in via S. Giuseppe l’andirivieni di belle signore in toletta da mattina, di bei giovanotti che le adocchiavano; e sbadigliavo ad intervalli misurati, quando udii una vocina graziosa esclamare:

— Oh! il signor Guiscardi!

Era Fulvia accompagnata da Giorgio che andava alla prova dell’opera.

Io mi affrettai a salutarla, ed ella mi disse: