Sull'Atlante/4. Sangue arabo
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4.
SANGUE ARABO
Afza era ritenuta da tutti gli arabi e dai beduini dei duars del sud per la più bella, e, nel medesimo tempo, per la più ricca fanciulla mora della bassa Algeria perché riuniva in sé tutto quello che avrebbe desiderato un poeta moresco: un visetto d'un pallore alabastrino, occhi a mandorla, di un nero intenso e con la pupilla profonda, velata da lunghe sopracciglia e languidissima, un corpicino da silfide con le curve molli e gracili, ed una boccuccia rotonda come un anello, secondo l'espressione dei poeti arabi.
Era alta, piuttosto slanciata, come una palma del deserto, con mani e piedi piccolissimi, e le braccia, che le uscivano nude dal bianco camice di lana sottilissima a maniche cortissime, superbamente tornite.
— Che cosa guardi, padre? — chiese mentre raccoglieva i suoi lunghissimi capelli neri a riflessi corvini, entro un largo anello d'oro con dei pendenti formati da due file di zecchini.
Hassi-el-Biac si scosse, poi volgendosi verso la figlia le disse:
— Seguivo con gli sguardi una gazzella che fuggiva fra gli sterpi inseguita da due sciacalli.
— Ah! E parlava poco fa con te quella gazzella? — chiese Afza mostrando i suoi dentini piccoli come granelli di riso e brillanti come perle.
Hassi-el-Biac capì subito che sarebbe stato inutile insistere nella sua bugia.
— Tu dunque hai veduto l'uomo che è stato poco fa a trovarmi, non è vero? — le chiese.
— Le nostre tende permettono sempre di vedere senza lasciarci scorgere. Quell'uomo era un sergente del bled, che altre volte s'era riposato nel nostro duar.
— È vero.
— Ha portato almeno i saluti del mio dolce signore?
— No — rispose asciuttamente Hassi-el-Biac.
Afza fece un gesto di doloroso stupore. — No, hai detto?
— E te lo confermo.
— Perché? Lo sanno già, al bled, che mi ha salvata un giorno la vita. Non vi era quindi alcun male se avesse incaricato quel sergente di salutarmi.
Hassi-el-Biac non rispose subito. Il suo imbarazzo, però, era così visibile, che Afza se ne accorse.
— Che cos'hai, padre? — gli chiese con angoscia.
— Vieni a sederti all'ombra della mia tenda, figlia. Nel bled sono successe delle cose gravissime, che ci riguardano.
Gli occhi del Raggio dell'Atlante si erano dilatati, ed una fosca fiamma vi era brillata dentro.
— Una disgrazia! — esclamò. — Ah! Io avevo fatto un triste sogno l'altra notte. Allah!... Allah!...
Hassi la prese dolcemente per una mano e la condusse all'ombra della sua tenda, dove già un vecchio negro aveva steso il tappeto sul quale poco prima Ribot aveva sorbito il caffè, e la fece sedere sopra un cuscino di seta rossa tutto infioccato.
— Afza non sarebbe più il Raggio dell'Atlante? — le disse con tono di rimprovero. — Nelle tue vene scorre sangue arabo.
— Allora spiegati, padre.
— Il tuo sposo non è più libero.
— Vorresti dire?
— Che l'hanno chiuso nella cella di rigore.
— Perché?
— Il conte ha il sangue non meno ardente di quello che scorre nelle vene dei figli del deserto, ed un'altra volta si è ribellato scagliando il suo zaino sul viso del maresciallo, che in assenza del capitano comanda per ora il bled.
Afza si era alzata di scatto, ergendosi con una mossa di leonessa ferita. Un grido rauco, selvaggio le era uscito dalla piccola bocca:
— Ah, miserabile! Egli si è vendicato!
— Chi?
— Il maresciallo che comanda il bled! Egli me lo aveva fatto sapere da uno spahi, un giorno che tu ti eri recato presso i Cabili a vendere gli ultimi nostri cammelli.
— E non me ne hai parlato prima, Afza?
— Temevo che tu ti compromettessi con quell'uomo.
— Che cosa ti disse quello spahi? Era venuto qui prima del tuo matrimonio?
— Sì, padre. Quel soldato si fermò qui col pretesto di abbeverare il suo cavallo e, trattami da parte, mi consigliò di dimenticare Michele e di accettare la mano che mi offriva il maresciallo, per non incorrere in gravi disgrazie.
— Tu l'hai veduto più volte il maresciallo?
— Sì: è venuto a ronzare cinque o sei volte intorno al duar, approfittando sempre della tua assenza. Qualcuno doveva spiarti per poi recarsi ad avvertirlo — disse Afza. — Ed ora, il mio signore?...
— Passerà sotto il Consiglio di guerra e lo fucileranno se noi non lo salveremo prima che siano trascorse tre settimane — rispose Hassi con voce cupa.
Per alcuni istanti fra padre e figlia regnò un tragico silenzio, poi Afza si scosse in modo brusco, e incrociando strettamente le braccia sul seno come se avesse cercato di soffocare i battiti precipitosi del cuore, disse:
— Io l'amo, padre.
— Lo so.
— Spetta a me salvarlo.
— A te? — esclamò Hassi con stupore misto ad inquietudine.
— Forse non ho io nelle vene sangue arabo? L'hai detto tu poco fa, e per di più sangue d'antichi guerrieri dei discendenti dell'Alambra, di Granata e di Cordova.
Hassi guardò Afza, e scorse nelle pupille nere della giovane donna, che si poteva chiamare ancora fanciulla poiché non aveva che sedici anni, la stessa ardente fiamma che aveva veduta prima, fiamma selvaggia, gravida di minacce.
— Ho il mio lungo fucile, Afza, — disse poi — e tu sai che io non ho mai mancato dinanzi al nemico, e sai pure che noi, mori, siamo abili nel tendere un agguato.
Il Raggio dell'Atlante scosse la bella testa con un gesto energico.
— Anche se tu riuscissi ad uccidere il maresciallo non otterresti la libertà del mio dolce signore — disse.
— Che cosa vuoi fare?
— Lo so io.
— Io sono tuo padre, e devo vegliare su di te finché il tuo sposo non sarà qui. Spiegati, Afza.
— Andrò a trovare il maresciallo.
— Tu?
— E cercherò di strappargli la grazia del mio signore.
— È impossibile, Afza. Non dipende da lui il concederla. Gli europei non sono mussulmani.
— Lo costringerò a lasciarlo fuggire.
— Non acconsentirà mai.
— Ed io sono quasi certa, purché tu mi presti il tuo miglior pugnale e mi accompagni, stasera, fino nei dintorni del bled. Al resto penso io.
Hassi fece un gesto di spavento.
— Vuoi perderti, Afza? — gridò.
La giovane donna, in apparenza calma, rispose:
— Il mio dolce signore strappò il Raggio dell'Atlante alle zanne d'un leone, ed il Raggio dell'Atlante o salverà ora lui, o morrà nell'impresa.
— Ma egli può forse fuggire anche senza di te. Il sergente mi ha promesso di aiutarlo, e mi ha detto che le sbarre della cella sono state già piegate. Non si tratta ora che di spezzare le catene ed a quello ho pensato io.
— Ed hai pensato alle sentinelle che circondano giorno e notte il bled? Io le ho vedute parecchie volte quando provavo i tuoi mahari, padre. Grande Mohamed! Se me lo uccidessero mentre tenta la fuga? Padre, io amo quel cristiano che è diventato ora il mio signore.
Un singhiozzo aveva accompagnato le ultime parole del Raggio dell'Atlante. In quel frattempo il vecchio negro, che aveva steso il tappeto e portato il cuscino di seta per Afza, comparve dicendo:
— Padrone vi è un frangi a cavallo che s'avvicina.
La giovane donna fu d'un salto sull'angolo formato dall'ampia tenda.
Un cavaliere che indossava una casacca azzurra e un paio di calzoni rossi, con un berrettino basso a larga visiera sul capo, riparato sul di dietro da una specie di fazzoletto bianco, s'avanzava con una certa circospezione, fermando di quando in quando il suo cavallo baio di forme eleganti, bardato all'algerina, con grandi fiocchi intorno alla sella ed alle briglie.
— Padre! — esclamò Afza. — Lo spahi del maresciallo!
Hassi era balzato in piedi dicendo al negro:
— Portami il mio fucile, quello con la canna lunghissima.
Afza con un gesto imperioso fermò il servo, poi volgendosi verso suo padre, che fremeva d'ira, gli disse con voce non meno imperiosa:
— Tu non ucciderai quell'uomo! È Allah che ce lo manda. Ora io ti mostrerò se il Raggio dell'Atlante è degna di essere la figlia d'uno dei più valorosi guerrieri di Abd-el-Kader, l'eroe dell'Algeria!
Si portò una mano sul cuore, che in quel momento doveva batterle con estrema violenza, poi riprese:
— Entra nella tenda, padre, e lascia fare alla tua Afza. Desidero che quello spahi ti creda anche oggi assente.
— Ma tu sei sposa e non devi mostrare il tuo viso a quel giaurro.
— Mio marito è un cristiano, e le donne dell'Europa, fra le quali forse un giorno mi troverò, non si coprono il viso con un velo quando parlano ad un uomo. Va', padre, lo voglio! Si tratta della vita del mio dolce signore.
Hassi curvò il capo, e scivolò sotto la tenda.
Afza rimase un momento ferma, tenendosi sempre la mano sul cuore, aspirò a lungo l'aria infuocata della pianura incolta, si gettò indietro i capelli con una brusca scossa, poi si allontanò rasentando i campicelli d'orzo, dopo d'aver detto al vecchio negro che la guardava con stupore: — Vieni ad attingere acqua al pozzo; ti aspetto là.
Malgrado l'angoscia intensa che doveva spezzarle il petto, si era messa a canticchiare una canzone araba, una di quelle canzoni, che, come abbiamo detto, finiscono per soggiogare lo spirito dell'uomo che non è abituato ad udirle, come il dolce mormorio d'una fontana che zampilla entro una coppa d'alabastro.
Di quando in quando si fermava dinanzi alle lunghe file di aloè come se si divertisse a contemplare quelle lance gigantesche confitte, per dir così, fra un fascio di enormi daghe e delle cui fibre si servono gli abitanti dell'Algeria meridionale per cucire le loro ferite, oppure per spiccare qualche grosso e ben maturo kermers del sud che le due piccole labbra succhiavano, apparentemente, con una certa avidità, mentre invece una tempesta terribile ruggiva nel cuore del Raggio dell'Atlante.
Il buon sangue arabo non mentiva, come Afza aveva promesso a suo padre.
Lo spahi aveva fermato il suo cavallo presso il pozzo, un buco profondo un paio di metri, pieno d'acqua fino quasi all'orlo, poiché quelle pianure apparentemente aride sono invece ad una certa profondità ricchissime d'acqua; e fissava la bella mora sorridendo sardonicamente.
Era un uomo sui trent'anni, butterato dal vaiolo, con due sfregi attraverso la gota sinistra prodotti certamente da qualche yatagan dei Cabili dell'estremo sud, e con un occhio spento e diventato così bianco, da produrre una impressione profondamente sgradevole.
Veduta la giovane donna accostarsi al pozzo, mise i piedi in terra, legò il cavallo che aveva tutto il lucido petto coperto d'una schiuma candidissima, al tronco d'uno dei tre palmizi che ombreggiavano il serbatoio, e levatosi il berretto disse:
— Salute al Raggio dell'Atlante!
Afza lo guardò per un istante, fingendo di non riconoscerlo, poi disse con una certa noncuranza:
— Che Allah ti protegga, frangi!
— Vengo da Mosellah dove ho dovuto portare dei dispacci per incarico del maresciallo — disse lo spahi. — Mi permetti di dissetare il mio cavallo? Mi sono fermato già un'altra volta al tuo pozzo.
— Ti ho riconosciuto subito.
Il vecchio negro giungeva in quel momento, recando sulle spalle un enorme vaso d'argilla ed una fune di peli di cammello intrecciata.
— Ani, — disse Afza — da' da bere al cavallo del signore.
Il negro s'avvicinò al pozzo, svolse la fune, calò il vaso, lo trasse pieno d'acqua limpida e fresca e lo depose, senza parlare, dinanzi allo spahi.
— L'acqua del deserto non è così cattiva come si crede — disse il soldato. — Al bled non ne abbiamo di così buona...
— Questo non è il deserto — rispose asciuttamente Afza facendo un cenno al negro.
Ani, abituato a comprendere a volo la sua giovane padrona, si allontanò d'un centinaio di passi, e si gettò dietro ad un gruppo di foltissime acacie, dove aveva già, prima di giungere al pozzo, gettato uno di quei lunghi fucili col calcio ricurvo come usano i marocchini ed i beduini algerini, ed un paio di pistole a doppia canna, lunghissima.
Hassi-el-Biac doveva averlo già istruito, perché vegliasse su sua figlia.
— L'acqua abbonda qua ed è eccellente — disse Afza allo spahi. — Disseta pure abbondantemente il tuo cavallo, signore.
— Sei gentile, Raggio dell'Atlante — rispose il soldato.
— Mi hai detto che vieni da Mosellah. Quando hai lasciato il bled?
— Ieri sera.
— È tornato il capitano da Algeri?
— No: comanda sempre il maresciallo durante la sua assenza e quella degli ufficiali. Ah! Devo darti anzi, bella fanciulla, una notizia che non ti farà certamente piacere.
— Quale? — chiese freddamente Afza.
Lo spahi chiuse l'occhio biancastro che dava al suo viso sfregiato un non so che di ripugnante, poi le disse:
— Hanno messo in cella di rigore Michele Cernazé, il conte ungherese.
Il Raggio dell'Atlante fece uno sforzo supremo per non tradire l'angoscia che le faceva sanguinare il cuore di giovane sposa.
— Ah! — disse. — Che cosa ha fatto?
— Quello è un vero demonio che deve finire sotto una scarica di fucili. Oh! Presto sarà finita!
— Dev'essere cattivo quell'uomo — disse Afza.
— Non vale una mano del maresciallo comandante del bled. Quello sì, è un brav'uomo ed anche un uomo valoroso. Si è guadagnato una medaglia d'oro al valore nel Senegal, combattendo contro non so quali negri.
— Ah! — fece Afza.
Lo spahi bevette alcuni sorsi d'acqua, poi appoggiandosi contro il suo cavallo, che stava pure dissetandosi, disse:
— Sai, Afza, che ti ama?
— Chi? — chiese distrattamente la giovane donna.
— Diavolo! Il maresciallo.
— Un francese amare una povera mora!
— Tu sei il Raggio dell'Atlante, e tuo padre si dice che sia immensamente ricco.
— Io non lo so.
— Egli ti sogna continuamente, e non parla altro che di te. L'hai tu veduto già. È un bell'uomo, non è vero?
— Non dico di no — rispose la giovane donna, facendo sforzi sovrumani per non [testo mancante].
— E poi è un brav'uomo, e sono certo che ti farebbe felice — continuò lo spahi. — Al bled è adorato da tutti.
Afza non potè trattenere un sorriso sarcastico, poiché sapeva invece quanto fosse crudele e brutale il maresciallo, e quanto fosse odiato dai legionari.
Steiner, il carnefice, forse era stato odiato meno.
Vedendo che Afza taceva e che sembrava assorta in profondi pensieri, lo spahi bevette qualche sorso ancora, poi trasse una vecchia pipa carica di tabacco, e aspirò alcune boccate di fumo acre.
— Orsù, Afza, bella fanciulla — riprese dopo alcuni istanti. — Ti decidi? Io sono l'amico, il confidente del maresciallo e sarei lietissimo di dargli una buona notizia. Egli ti offre la sua mano, la sua valorosa sciabola ed i suoi galloni. Pensa che un giorno diventerà anche lui uno di quei brillanti ufficiali che tu vedi qualche volta attraversare queste pianure, guidando uno squadrone di cacciatori d'Africa. Sono fortune che toccano di rado ad una mora.
Afza continuava a tacere. Aveva strappato un ramo d'acacia e lo spezzava nervosamente.
— Sei difficile a contentarti — proseguì il soldato. — Se io fossi un'algerina sarei ben orgogliosa di diventare la sposa d'un francese, e per di più d'un francese gallonato.
— Non so decidermi — rispose finalmente la giovane donna. — Dovrei più tardi seguirlo in Francia, ed io, abituata a vivere ai confini del grande deserto, non saprei abituarmi alla vita delle grandi città.
— Rimarrà in Africa se tu così vorrai. Credo che preferisca anche lui questi territori selvaggi e silenziosi al turbinìo dell'esistenza europea. Credi a me, Afza, non rifiutare la fortuna che ti si offre.
— Sarà poi vero che mi ama?
— Ti adora: pronuncia una parola, ed egli verrà qui subito.
— Qui no — rispose il Raggio dell'Atlante con un tono di voce nel quale si sentiva vibrare qualche cosa di terribile.
— Avresti paura?
— Così poco, che io andrò a trovarlo.
— Tu?
— Sì, stasera, appena mio padre si sarà addormentato, voglio parlare al maresciallo prima di dirgli che accetto la sua mano.
— E se tuo padre se n'accorgesse?
— Gli metterò nella pipa un granello d'oppio, e così non si sveglierà.
— Bada a quello che fai, Afza.
— Sono decisa. Dammi la parola d'ordine perché io possa entrare nel bled senza essere fermata dalle sentinelle.
— Non è necessario; gli uomini che veglieranno stasera saranno avvertiti di lasciarti passare e di non farti alcuna domanda.
— Va bene.
— La tua parola?
— Lo giuro su Allah e su Mohamed.
— A che ora giungerai?
— Un'ora dopo il tramonto.
Lo spahi con un salto fu a cavallo senza servirsi delle staffe.
— Salute al Raggio dell'Atlante — disse, allentando subito le briglie e spronando.
— Che Allah ti guardi — rispose Afza coi denti stretti.
Se lo spahi si fosse però subito voltato indietro non sarebbe certamente partito pel bled così tranquillo, e avrebbe forse avuto paura della intensa collera che alterava i bellissimi lineamenti della giovane, e del fuoco strano che avvampava nei suoi sguardi.
Il cavaliere si era appena allontanato d'un centinaio di passi, quando il vecchio negro si rizzò dinanzi ad Afza.
Aveva attraversato i cespugli come un serpente, e senza fare il menomo rumore, era balzato in piedi stringendo il lungo fucile algerino.
— Devo abbattere quel frangi, padrona? — chiese.
— No, Ani — rispose Afza.
Il negro scosse la sua testa lanuta, mormorando:
— Avrei ucciso volentieri quel brutto cristiano.
Afza attese che lo spahi fosse quasi scomparso fra la piaggia ardente, poi tornò lentamente verso la tenda di suo padre, rompendo i rami delle siepi che circondavano i campicelli.
Hassi-el-Biac era già uscito, e spiava con angoscia il suo ritorno.
— Dunque? — chiese con ansietà.
— Fa' affilare il tuo miglior pugnale — rispose Afza.
— Tu vuoi commettere una pazzia.
— No, padre: voglio salvare l'uomo che amo e che ama me. Stasera io andrò al bled e vedrò il maresciallo.
— Afza, figlia mia, tu mi fai paura!
— Non t'inquietare, padre: so quello che faccio. Dirai ad Ani di dar molto da mangiare ai mahari e di abbeverarli abbondantemente perché possano resistere lungo tempo.
— Tu dunque ti credi certa di poterlo salvare?
— Sì — rispose Afza.
— E perché vuoi uno dei miei pugnali?
— Non si può mai prevedere quel che può succedere.
— Sei decisa?
— Sì.
— Allora basta. Vado ad occuparmi dei mahari.
Hassi-el-Biac si diresse verso il recinto dove già si trovava il vecchio negro, mentre Afza rientrava nella sua tenda.
Durante la giornata né il padre né la figlia ritornarono sul discorso. Entrambi, però, apparivano profondamente inquieti ed anche estremamente commossi.
Prima del tramonto Afza si ritirò nella sua tenda, accompagnata da due giovani negre addette alla sua persona, per farsi vestire in gala, poiché intendeva comparire dinanzi al maresciallo più affascinante che mai.
Essa contava più che altro sulla propria bellezza, per strappare al bled ed al Consiglio di guerra il conte ungherese.
Hassi-el-Biac, aiutato da Ani, preparava intanto i mahari, caricando sulle loro gobbe i suoi preziosi cofani contenenti tutte le sue ricchezze che formavano la dote della figlia. Poco gl'importava delle tende e di tuttociò che contenevano come dei suoi ultimi montoni.
Sarebbe stato impossibile portar via, in una rapida fuga, le une e gli altri. D'altronde aveva già pensato di regalare tutto questo alle due giovani negre.
Il sole era scomparso da qualche ora, quando Afza comparve sulla soglia della sua tenda, illuminata dai riverberi dell'aloè che bruciava su un tripode cesellato, e che spandeva all'intorno un delicatissimo profumo.
Aveva raccolti i suoi magnifici capelli in due grosse trecce, appendendovi all'estremità dei gruppi di zecchini; si era data un po' di nero d'antimonio sotto gli occhi per farli maggiormente risaltare ed un po' di rossetto sulle gote alabastrine, come usano anche le donne algerine, e si era tinta le unghie col brenne per dar loro una leggera tinta giallastra.
Aveva lasciato il lungo camice di lana bianca ed aveva indossato invece una specie di caffettano di seta a varie tinte con le maniche molto ampie, stretto alla vita da una fascia azzurra sovrapponendovi un corpettino di velluto verde aperto sul petto ed adorno di alamari dorati.
Le gambe erano coperte da un paio di calzoncini di seta bianca che scendevano fin sulle piccole babbucce di pelle gialla e trattenute all'estremità inferiore da parecchi cerchi d'argento.
— Credi tu, padre, che io possa piacere? — chiese la giovane sposa.
— Non ti hanno forse chiamata il Raggio dell'Atlante? — rispose Hassi-el-Biac il quale la guardava con orgoglio.
— Il tuo miglior pugnale l'hai fatto affilare?
— Afza, tu mi fai paura!
— Perché, perché? — chiese la giovane donna con una calma veramente spaventosa.
— Tu mediti qualche colpo disperato.
— Io non ho paura di quel frangi!... — disse Afza con voce stridula. — Vedrà, ma troppo tardi, chi è il Raggio dell'Atlante. Padre, il tuo pugnale ed il mio mahari favorito. Non voglio farmi troppo aspettare.
Hassi-el-Biac aprì il suo ampio mantello di lana scura, e si levò dalla fascia un coltello sottilissimo, lungo quasi quasi un piede, coll'impugnatura di avorio, e glielo porse.
Afza si rimboccò l'ampia manica che gli copriva il braccio destro e lo infisse nella fodera di seta azzurra, dentro una specie di guaina già antecedentemente preparata.
— La mia mano non tremerà, se avrò bisogno di quest'arma — disse poi, con una calma terribile. — A noi due, maresciallo!
— Ecco il nobile e fiero sangue arabo — mormorò Hassi-el-Biac.
— Ora il mio mahari.
Il moro mandò un fischio.
Quasi subito il vecchio negro comparve conducendo due bellissimi dromedari, ossia due cammelli corridori, ad una sola gobba, animali d'una resistenza incredibile, poiché possono percorrere perfino ottanta miglia in un giorno senza esaurirsi.
Entrambi avevano le altissime selle infioccate ed abbellite da borchie d'argento, ed avevano pure de' lunghi e grossi fiocchi di seta rossa appesi al muso.
Ad un cenno del negro le docili bestie s'inginocchiarono.
Afza aiutata da suo padre salì sul suo favorito, poi lanciò una specie di sibilo.
— Ash!...
Il mahari si alzò di colpo, scuotendo la testa ed allungando il collo, pronto a spiccare lo slancio.
Hassi-el-Biac era già salito sul suo, tenendo in mano il suo lungo fucile algerino.
— Ani, — disse al vecchio negro — tieni pronti gli altri tre mahari; e al primo colpo di fucile che senti rimbombare verso il bled vieni incontro a noi. Stiamo per giuocare una partita terribile contro i frangi.
— Tu sai, padrone, che io sono più di un tuo schiavo, — rispose il negro — e che pel Raggio dell'Atlante darei subito tutto il mio sangue.
— Sei pronta, Afza?
— Sì, padre.
Lanciarono entrambi il fischio ben noto, ed i due mahari si lanciarono al galoppo attraverso alla desolata pianura, abbassando e rialzando le loro teste per secondare il movimento delle loro lunghissime gambe.
In quel momento la luna sorgeva dietro gli alti picchi della gigantesca catena dell'Atlante, occhieggiando fra le foltissime selve.