Sull'Atlante/3. Il carnefice del bled
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3.
IL CARNEFICE DEL BLED
— A che cosa pensi dunque, conte? Ad Afza? Quella è una donna che è stata fatale a due uomini: ad un magnate ungherese legionario e a una canaglia di maresciallo d'alloggio il cui cuore era stato forato, come da due palle di fucile, dagli occhi incendiari di quella bella araba! E poi dicono: amate le donne che vi piacciono! Che il diavolo se le porti!
Michele Cernazé dei conti di Sawa aveva alzato il capo guardando Enrico il toscano, suo compagno nella piccolissima e infuocata cella di rigore, posta sotto l'infermeria del fabbricato bianco.
— Afza hai detto?
— Possibile che anche le donne dell'Africa facciano girare la testa a noi, superbissimi europei, che abbiamo la pelle bianchissima, quando non ci mandano nelle galere del bled?
— Tu scherzi troppo, Enrico.
— Io! Diamine!... Non scherzano mai gli avvocati!...
— Ah! Tu eri un avvocato?
— Senza cause, senza clienti e per di più senza laurea — rispose il toscano con un malinconico sorriso. — Mio padre, un bravissimo lupo di mare che tutti i marinai di Livorno ammiravano, voleva far di me uno squalo d'acqua salata, ma non aveva contato sulla lunghezza della mia lingua. Morì, lasciandomi un brick che io non ero certamente in grado di comandare, poiché facevo la bella vita cogli studenti di Bologna senza riuscire mai ad imparare gli articoli del codice.
«Una notte, non saprei dirti se bella o brutta, fui tratto in una casa da giuoco dove si beveva molto Champagne, dove v'erano anche tante belle donnine e dove si giocava molto, e l'indomani a mezzodì, quando mi svegliavo, colla testa ancora pesante pel troppo vino spumante bevuto, il brick non v'era più. Avevo giuocato perfino le sue ancore, ed il vento sciroccale se l'era portato all'inferno.»
— La solita storia — disse il magnate con un sospiro. — Anch'io ho divorato i miei cavalli, le mie praterie, i miei boschi, il mio castello, naufragati sul tappeto verde di Montecarlo.
— Ed è così che, trovatomi senza nave, senza laurea, senza voglia di studiare, pensai alla Legione straniera e mi arruolai. Noi siamo proprio i naufraghi della vita.
— Purtroppo! — sospirò il conte, stringendosi il capo fra le mani con un gesto disperato.
Vi fu fra i due disgraziati legionari un breve silenzio, poi un grido che parve un ruggito irruppe dalle labbra contratte dell'ungherese.
— Maledetto giuoco che ha fatto di me, magnate magiaro, un miserabile soldato di ventura. Fossi almeno morto al Messico!
— Morrai invece in Algeria — disse il toscano che non aveva perduto un atomo del suo eterno buon umore. — Ribellione contro un superiore, un naso schiacciato e forse anche una costola sfondata, rifiuto d'obbedienza e chi sa quante altre cose scriverà nel suo rapporto quell'animale di maresciallo... Ve n'è perfino di troppo, perché il Consiglio di guerra ci faccia fucilare. Bah, — riprese poi alzando le spalle — cadere qui, o dinanzi ai Cabili e sulle rive del Senegal combattendo contro quei sudici negri è tutt'uno. Certo avrei preferito andarmene a gambe levate a casa di monsieur Belzebù dopo d'aver fucilato qualche dozzina di arabi o di senegalesi.
— Non sei ancora morto — disse l'ungherese, il quale pareva che seguisse il filo d'un intenso pensiero.
— Che cosa vuoi dire, conte? — chiese il toscano levandosi di colpo sul tavolato che gli serviva da letto e facendo rumoreggiare le catene che gli stringevano i polsi pur lasciandogli una grande libertà nei movimenti.
— Che il capitano e i suoi ufficiali non saranno qui che fra tre settimane, e in venti o ventidue giorni molte cose possono succedere.
— Si direbbe, quasi, che tu, conte, hai qualche speranza di non venir fucilato.
— Certo che l'ho.
Il toscano ebbe un altro scatto più rumoroso del primo.
— Ventre di balena putrida! Come dice sempre quell'animale di maresciallo, che pare abbia una predilezione per tutti i ventri degli animali terrestri ed acquatici! Vuoi turbare i miei sonni con una vaga speranza? Vedi, io ormai m'ero rassegnato filosoficamente a ricevere una mezza dozzina di pezzi di piombo nella mia magra carcassa e ora...
— Ti aggrappi alla vita? — rispose il magiaro sorridendo.
— Non ho che ventisei anni...
— E pensi che potresti diventare ancora un avvocato?
— Ah no! Se riuscirò a scappare da questo inferno andrò a fare il cercatore d'oro in California. Gli articoli del codice non me li ricordo più!
— Bene, speriamo di vederti nei placers californiani a raccogliere delle ceste di pepite.
Il toscano si sdraiò sul tavolato, allungandosi verso l'ungherese, il quale si trovava pure incatenato alle grosse tavole del giaciglio, e dopo d'averlo fissato per qualche istante, gli disse con un soffio di voce:
— Su che conti?
— Sul padre di Afza, o, se ti piace meglio, su mio suocero.
— Su tuo suocero! — esclamò il toscano facendo un gesto di stupore.
— Sì, perché io ho sposato secondo il rito mussulmano segretamente il Raggio dell'Atlante.
— Afza tua moglie!
— Da tre mesi.
— Corpo di cento sogliole fritte! E nessuno ne ha saputo nulla qui!
— Avevamo prese tutte le nostre misure perché la cosa non fosse nota che a noi tre.
— E non sai che...
— Il maresciallo l'ama, volevi dire?
— Sì, conte.
— Lo so, ed è appunto per questo che da qualche tempo si accanisce contro di me, avendomi trovato un giorno che parlavo con quella fanciulla. Se non fosse accaduto ciò che per forza del destino è accaduto stamane, fra quindici giorni me ne sarei andato dal bled. Hassi-el-Biac sta già vendendo i suoi cammelli e i suoi montoni ai Cabili di Ain-Taiba.
— E m'avresti lasciato solo?
— No, Enrico, vi è un mahari serbato anche per te. Io non ho scordate le cure che tu mi prestasti quando uccisi il leone che stava per divorare la mia Afza.
— E in contraccambio tu non mi hai narrata mai quell'avventura, conte — disse il toscano.
— Non è questo il momento.
— Ed infatti si ascoltano male, le storie, quando si è chiusi in gabbia.
— E soprattutto quando si ha da discutere su cose più interessanti — aggiunse il magiaro. — È la nostra vita, ora, quella che è in giuoco, e non la vita di Afza.
— Ma chi andrà ad informare Hassi-el-Biac che noi siamo in cella di rigore e bene incatenati?
— Un uomo che tu non sospetti nemmeno lontanamente: il sergente Ribot.
— Ribot! Possibile! Se pareva che ti avesse preso di mira e ti odiasse più degli altri!
— Ribot è più umano di tutti; e se può salvare una vita lo fa volentieri, quando può farlo senza compromettere i suoi galloni.
— Ha ragione: nessuno potrebbe dargli torto. Ribot! Ribot! Chi l'avrebbe creduto! Ed io che lo credevo un boia!
— Deve fare il suo dovere prima di tutto.
— Perdinci! Ha tre milioni di ragioni! E tu credi, conte?
— Che prima di domani Afza saprà che io sono stato arrestato.
— Che ci aiuti nella fuga il sergente?
— Se non ci aiuterà direttamente, egli la favorirà procurando di non compromettersi.
Il toscano si guardò intorno, fissando poi lo sguardo sulla finestra difesa da una robusta inferriata e riparata da una gelosia simile a quella che gli arabi usano di mettere dinanzi alle finestre dei loro harem onde le loro donne possano vedere senza esporsi al pericolo di esser vedute da qualche curioso infedele.
— Io mi domando come faremo ad uscire di qui — disse poi.
— Le tre settimane non sono ancora trascorse — rispose il magiaro. — Non aver troppa fretta.
— Vorrei però esser libero stasera. Tu hai dimenticato, conte, che vi è qui quel cane di Steiner.
Un lampo terribile scintillò negli occhi del conte.
— Quel miserabile mio compatriota non ha mai avuto il coraggio neppur di guardarmi negli occhi — disse poi. — Stasera, il maresciallo ce lo avventerà addosso, io ne sono sicuro, perché il capitano e gli ufficiali non sono qui. Che osi di metter le mani su un magnate ungherese! Io lo sfido, e ti giuro che questa catena che mi avvince i polsi andrà in pezzi, e che quel birbante incosciente non rivedrà mai più il nostro Danubio, giacché è ungherese come me. Io l'aspetto!
— Sei veramente terribile, conte — disse l'avvocato bocciato. — Hai certi muscoli che non mi rassicurano affatto, e che potrebbero competere con quel maledetto colosso. Avete del buon sangue, voi, nelle vene...
— E voi italiani non meno di noi. Quanti ne sono morti dei vostri nella nostra gloriosa insurrezione! Lo sai tu il numero?
— Io no.
— Eppure erano molti e, sono caduti per l'indipendenza ungherese di fronte ai soldati austriaci, combattendo per una patria che non era la loro.
— È vero — disse il toscano. — E quanti ungari sono caduti combattendo per l'Italia con Garibaldi?
— Siamo dunque del pari — rispose il conte.
A un tratto ebbe un sussulto, e si curvò innanzi come se cercasse di ascoltar meglio.
Si udivano dei passi cadenzati echeggiare nel corridoio, che era dinanzi alla cella di rigore.
Quantunque preparato a tutto, il magnate impallidì e strinse i pugni come se cercasse, in uno sforzo sovrumano, di spezzare le catene che gli stringevano i polsi.
— Steiner! — disse il toscano non senza una viva apprensione.
— Sì, deve essere lui — rispose il conte con voce sorda. — Non temere però: io saprò domare quella bestia feroce della putza.
In quel momento si udì echeggiare nel corridoio la voce nasale del maresciallo d'alloggio.
— Sono nelle tue mani — diceva. — Rompi loro le costole meglio che puoi. Già non sfuggiranno alla morte; il Consiglio di guerra li tiene ben stretti nel suo pugno di ferro.
La risposta fu un sordo grugnito che pareva uscisse dalla gola d'un orso o d'un gorilla.
— È Steiner — disse il toscano il quale era diventato livido. — Mi spaccherà le costole.
Il magnate ungherese scosse furiosamente le catene e per la seconda volta nei suoi occhi nerissimi avvampò un lampo feroce.
La sua forza muscolare era tale, non solo da far saltare gli anelli della catena, ma anche da scagliarsi, come una catapulta, contro il suo compatriota.
— Che alzi solo un dito, — disse con voce fremente — ed io ammazzerò quel miserabile, ed anche il maresciallo che lo spinge contro di noi. Aspetta!
Si era alzato a sedere sul tavolato, guardando la porta della cella con uno sguardo sfolgorante. Pareva un leone in agguato, pronto ad avventarsi sulla preda.
I chiavistelli stridettero, poi un gigante entrò mentre una voce diceva:
— Se me li accomodi bene tu, prima di andartene a letto, avrai doppia razione di acquavite. Picchia sodo! Rispondo io di tutto.
— Sì, maresciallo, farò il possibile per contentarvi!
La porta si chiuse subito dietro le spalle dell'ercole.
— Ah! Sei tu, Steiner! — disse il conte con voce ironica. — Hai bevuto abbastanza oggi? Il maresciallo è stato certamente generoso.
L'individuo che era entrato nella cella, si era fermato come istupidito, guardando ora il magnate e ora il toscano, il quale appariva fortemente impressionato.
Era un uomo di forme erculee, di aspetto gigantesco, bruno come un arabo, con gli occhi e i capelli nerissimi, la testa enorme, le spalle larghissime.
Steiner l'ungherese era il carnefice ufficiale dei bleds dell'Algeria meridionale.
Incorporato nella Legione straniera, quest'uomo assolutamente storico, aveva compiuto il suo tempo di servizio — tre anni — nell'esercito ungherese, quando, chissà in seguito a quali vicende, era giunto nell'Algeria, senza conoscere una parola di francese.
Fu inviato a Djenan-ed-Dar, una piccola località perduta in fondo all'Algeria, dove fece le sue prime armi in qualità di cuoco del distaccamento della disciplina; ma non doveva tardare a diventare l'aiutante boia.
I sott'ufficiali, infatti, approfittando della sua assoluta ignoranza della lingua francese e sicuri che non si sarebbe lasciato commuovere dalle implorazioni dei disciplinari, dei quali non poteva comprendere il linguaggio, lo impiegarono a poco a poco a torturare le loro vittime.
Dobbiamo dire, ad onore del vero, che l'ungherese non accettò con soverchia gioia l'incarico di diventare il carnefice dei bleds.
I sott'ufficiali però, a poco a poco, riuscirono a ridurlo con ogni sorta d'artifizi a piegarsi ai loro desideri, e per mesi e mesi quel bruto obbedì ai loro ordini.
Si narrano cose terribili sul conto di questo magiaro, cose esattamente verificate.
Un giorno, alle prese con un uomo, certo Versine, italiano, arruolatosi come tanti altri naufraghi della vita e che si dibatteva disperatamente sotto i pugni formidabili che gli dava il bruto, ebbe il pollice della mano destra quasi completamente strappato da un morso.
Giacché bisogna notare che i graduati si tenevano prudentemente a debita distanza dagli uomini che facevano martirizzare, epperò per vincere la resistenza dei disciplinari e per legarli o atterrarli avevano scelto l'erculeo Steiner, possente di spalle e di muscoli, in tutto formidabile. Torturare, spezzare costole e polsi, era per quell'orso dei Carpazi un ufficio obbligatorio.
Talvolta gli istinti del bruto che covava in fondo all'essere umano si scatenavano in lui, ed allora colpiva senza attenuare in nulla la forza eccezionale che possedeva.
A prove visibili della ferocia che egli, per ordine, doveva spiegare — e questo risulta da una vigorosa inchiesta — Steiner poteva mostrare sul suo corpo più d'una ferita e più di una cicatrice.
Fra le altre cose egli aveva l'anulare spezzato. Era stato messo ai ferri con un certo Champion, quando il sergente Massen appartenente al bled di Djenan-ed-Dar, diede ordine al magiaro ormai abbrutito, di prendere a pugni il disgraziato. Il miserabile, come sempre, obbedì.
— Più forte! — gli ordinò a un certo punto il graduato.
Quella volta con un formidabile pugno sulla fronte fece rotolare a terra il povero legionario, ma il colpo fu così violento, che il carnefice risentì un acuto dolore alla mano. Gli si era spezzato un dito.
Terribili sono le rivelazioni fatte da quell'ungherese.
— Un giorno — ha narrato prima di morire all'ospedale di Djenan-ed-Dar — il sergente Musat mi fece porre dinanzi i disciplinari condannati, completamente nudi, sull'attenti, e mi costrinse a percuoterli a furia di pugni, finché tutti furono stesi a terra semivivi. Il sangue schizzava dalle ferite, talvolta per terra e sulle pareti si potevano scorgerne le tracce, che io ero costretto a lavare.
Ma quei feroci sergenti non si contentavano di far picchiare o di prendere a staffilate le loro vittime.
Un altro giorno, quel tale sergente Massen, che non doveva essere che un'infame e nauseabonda jena, strappò, pelo per pelo, i baffi ad un condannato, e quando quel disgraziato, pazzo di dolore, cadde a terra, Steiner fu incaricato di prenderlo a calci poderosi.
Un'altra volta, in pieno dicembre, rigidissimo talvolta anche in Algeria, mentre scoppiava violenta la tramontana, quell'istesso Massen, vera belva feroce più che jena questa volta, fece gettare nudo in una pozza d'acqua un vecchio legionario, certo Salmi, e ve lo tenne per oltre un'ora, costringendolo spesso a tuffarsi a colpi di pietra, e incaricando poi Steiner a scaldargli, a furia di pugni, le costole gelate.
Michele Cernazé dei conti di Sawa, vedendo entrare il suo compatriota, cogli occhi iniettati di sangue, il viso trasfigurato, le maniche rimboccate come per mostrare i suoi formidabili muscoli, gli piantò gli sguardi addosso, dicendogli con voce ironica:
— Vieni qui per far onore alla forza ungherese? Veramente non sapevo prima d'ora, che i magiari, all'estero, facessero il boia.
Il colosso, udendo quelle parole, vacillò come un bue che avesse ricevuto un colpo di mazza sulla testa e rimase lì, colle braccia penzoloni, gli occhi in fuori, il volto alterato.
Evidentemente doveva aver bevuto; però comprendeva ancora e vedeva ancora.
— Rispondi, Steiner — disse il magnate, dopo qualche istante di silenzio, con voce furente. — Che cosa vieni a fare tu qui? A spezzare le costole di un nobile ungherese? Provati! Io ti sfido!... Se tu sei l'orso del Danubio io farò vedere come sono feroci gli orsi dei Carpazi e come, quando la furia li prende, fanno saltare la catena che li tiene prigionieri.
Per la seconda volta il bruto era rimasto muto. Pareva spaventato di trovarsi dinanzi al suo compatriota, e i suoi sguardi correvano da una parete all'altra.
— Che cosa vuoi dunque? — urlò il magnate. — Il maresciallo ti ha mandato a romperci le costole?
— Non oserò farlo con voi — rispose il miserabile, abbassando la testa.
— Sicché vorresti prendertela, infame, contro il mio compagno, è vero? Non hai un fratello, una madre tu?
Il colosso vacillò.
— Mia madre! — ruggì. — Mi ha scritto ieri.
— E che cosa ti ha scritto? Parla, canaglia! Parla, boia del bled!
Il magiaro fece due passi indietro, appoggiandosi alla parete. I suoi occhi avevano perduto tutto l'intenso splendore nero.
Apparivano bianchi.
— Mia madre! — ripetè. — Morte e maledizione! Basta. Signor conte... Steiner non sarà più il boia dei bleds... ve lo prometto... ma Steiner domani non sarà più vivo... Se un giorno voi tornerete in Ungheria... farete da parte mia un saluto al... nostro Danubio... alle nostre putza sconfinate... che io non rivedrò mai più... come non rivedrò mai più mia madre... addio, conte... perdonatemi...
— Che cosa vuoi fare, disgraziato! — gridò il magnate.
— L'infame Steiner fra poco, conte, non sarà più vivo.
— Tu sei pazzo; ricordati che hai ancora viva tua madre.
Negli occhi del bruto brillarono due lagrime, forse le prime che apparivano durante la sua esistenza disperata.
— Mia madre! — ripetè per la terza volta, con un rauco singhiozzo. — Come ha potuto sapere che io sono il boia dei bleds algerini? Ed ella viveva tranquilla, laggiù, nella lontana Ungheria, nella sua casupola lambita dalle bianche acque del Danubio, credendomi un onesto soldato!... Voi non sapete, signor conte, quante volte i rimorsi mi assalgono. Bevo e bevo per dimenticare, e mi caccio come un disperato fra le coperte che mi sono state affidate dal colonnello Bondecourt, il quale è stato l'unico che abbia avuto pietà della mia orribile situazione. Guardate. Io posseggo dei muscoli formidabili: io sono capace con un pugno di uccidere un uomo, eppure tremo come un ragazzo. Che cosa sono ormai io nel mondo? Il boia dei bleds. Quando attraverso le tortuose vie di Djenan-ed-Dar, perfino le donne arabe mi urlano dietro: «Carnefice! Assassino! Boia!» Ed i fanciulli mi scagliano dietro delle pietre come se fossi un appestato. Eppure non ero cattivo un tempo... Il bled mi ha ridotto così!
— No, i sergenti — corresse il toscano.
— Sì, i sergenti, i sorveglianti, i marescialli, tutto quello che vuoi — disse l'èrcole con voce irata.
Grosse lagrime solcavano le brune gote del magiaro, e un tremito convulso gli scuoteva tutto il corpo.
— Perché vivere? — riprese poi con voce rauca. — Per fare ancora il carnefice? Per tormentare degli uomini, e rompere a loro le costole? Io ne ho abbastanza di questa vita infame che mia madre mi rimprovera.
— Pensa, anzi, a quella buona donna che ti aspetta, forse piangente, sulle rive del Danubio.
Il colosso scosse il capo con gesto disperato.
— No, — disse poi Steiner — l'ungherese che ha disonorato, per una triste fatalità, l'onore della nazione magiara all'estero, saprà punirsi da se stesso.
— Pensa a tua madre — gli rispose il magnate.
Steiner lo guardò quasi con stupore, e poi disse:
— Che cosa posso fare per voi, signor conte? Volete fuggire?
— Questo sarebbe il mio sogno.
Il carnefice rimase un momento pensieroso.
— Non sarebbe questa la notte — disse poi. — Vi avverto che il maresciallo ha fatto raddoppiare le sentinelle intorno al bled.
— Tu possiedi la forza d'un gigante.
— Sì, per mia sventura.
— Impiega almeno una volta quella forza brutale, di cui ti sei servito per massacrare tanti disgraziati, alla liberazione d'un tuo compatriota.
— Spiegatevi meglio, signor conte — rispose l'èrcole.
— La nostra finestra ha delle sbarre troppo grosse, ma che tu potresti incurvare. A strapparle, ci penserò io più tardi.
— Ma se poi lo sapessero mi tradurrebbero...
Si era chetato, come inebetito.
— Sono un vero stupido, signor conte — riprese subito. — Avevo dimenticato che domani il boia del bled non sarà più vivo.
— Ha ancora del carattere quest'uomo — mormorò il toscano, guardandolo con una certa ammirazione. — Questi ungari sono veri discendenti di Attila! Che forza d'animo però!
Steiner si era accostato alla finestra, guardando le grosse sbarre.
Scosse l'enorme testa, coperta da una folta capigliatura corvina, poi si rimboccò ancor più le maniche, mostrando due braccia grosse e nodose come rami di albero.
— Credi di riuscire? — gli disse il magnate, il quale seguiva ogni sua mossa con una viva inquietitudine.
Il gigante si voltò e dopo d'aver guardato per qualche istante il prigioniero, gli disse con un amaro sorriso:
— Quello che forse non saprebbe fare l'orso dei Carpazi, lo farà l'orso del Danubio.
Afferrò a due mani una delle sbarre, piantò un piede contro la parete e strappò con furore. La sbarra quasi subito si piegò, impotente a resistere a quella forza erculea. Poi a una a una si curvarono tutte le altre, senza però uscire dagli stipiti della finestra.
Ormai un semplice strappo sarebbe bastato per farle cadere tutte.
— È fatto, signor conte — disse l'ungaro tergendosi, col dorso della mano destra, il sudore che gli colava dalla fronte. — Voi siete abbastanza forte per strappare completamente quelle sbarre e per sfondar l'inferriata. Però vi avverto di nuovo di non tentare la fuga stasera: vi è doppia guardia intorno al bled. Il maresciallo ha paura di voi.
— Non abbiamo fretta di fuggire — rispose il magnate. — Abbiamo tre settimane dinanzi a noi.
— Ma... e le sbarre? Non le vedranno piegate?
— Non t'inquietare per questo, Steiner. Ribot è incaricato lui, di sorvegliarci.
— Ribot — disse il gigante come parlando fra sé. — Sì, Ribot è il migliore dei graduati. Finge d'esser terribile, ma in fondo è leale.
Rimase qualche momento immobile, con le possenti braccia penzoloni, poi curvò il capo e s'avviò verso la porta dicendo con voce alterata:
— Addio, signor conte: noi non ci rivedremo mai più.
— Tu hai delle brutte idee, Steiner — rispose il magnate commosso, suo malgrado, dall'intensa disperazione che traspariva sul volto del suo compatriota. — Diserta piuttosto, e non dimenticare che nessuno ha il diritto di sopprimersi. Te lo dice un magnate del tuo paese, un figlio del Danubio.
Il gigante scosse la testa col gesto di un leone ferito.
— Ve l'ho detto, signor conte, — disse poi con un sordo singhiozzo, — io non rivedrò più né la nostra verdeggiante putza, né il nostro grande fiume che lo attraversa. Per me l'Ungheria è morta! I rimorsi mi uccidono. Come potrei aver io il coraggio di presentarmi dinanzi a mia madre, io che sono il boia del bled, io che ho tormentato tanti disgraziati e che a furia di pugni li ho costretti a morire lentamente? Nella morte troverò l'oblìo. Addio, signor conte, e se un giorno riuscirete a vedere il nostro paese, ricordatevi che sulle rive del nostro grande fiume troverete una povera donna che si chiama Maritza Steiner. Le direte che suo figlio è morto in Algeria, combattendo contro i Cabili, e che è morto da coraggioso sul campo dell'onore.
Si era avviato verso la porta, colla testa bassa, i muscoli contratti, avvilito, commosso.
Il conte lo chiamò.
— Steiner!
L'èrcole si era voltato, guardando quasi con stupore il magnate. Era pallido come un cadavere.
— Volete ritardare di qualche minuto la mia morte, signor conte? — chiese con un accento che ormai non aveva più nulla di umano.
— Io spero di ritardartela per sempre, — rispose il magnate — e che tu non commetterai nessuna sciocchezza. Avvicinati.
Il colosso obbedì, e s'appressò al tavolato.
Il magnate gli allungò la destra incatenata.
— Stringila — gli disse.
Steiner indietreggiò vivamente.
— Un boia — disse poi mentre i suoi occhi si empivano di grosse lagrime — non può stringere la mano d'un nobile magiaro.
— Ti ho detto di stringerla. Io, tuo compatriota, ti assolvo in questo momento solenne di tutte le infamie che hai commesse, e non per colpa tua.
— Io non posso, signor conte — ripetè il colosso con un rauco singhiozzo.
— Sono io che te la porgo.
Steiner si precipitò sulla mano del magnate, ma invece di rinserrarla fra le sue possenti dita, la baciò furiosamente.
— Mi basta, — disse — grazie, signor conte. Mi pare d'aver baciata l'Ungheria intera.
Poi si scagliò contro la porta, ma un urlo feroce, un vero urlo di belva gli sfuggì dalle labbra.
Aveva trovata la porta chiusa.
— Ah! Miserabile maresciallo! — urlò con una voce da tuono. — Egli mi ha cacciato qui dentro perché vi finissi a colpi di pugni e non uscissi di qui se non quando voi foste cadavere: ma egli non conosce Steiner.
Si era curvato su se stesso, per raccogliere meglio la sua forza gigantesca in un impeto supremo.
Quella massa di carne rovinò come una catapulta contro la porta, facendo saltare, con un fragore spaventevole, serratura e cardine.
Tutto il fabbricato oscillò sotto quell'urto immane come se il terremoto l'avesse fatto sobbalzare.
Al di fuori le sentinelle, spaventate da quel fragore, avevano gridato:
— All'armi!
Sopra, nell'infermeria, gli ammalati pure gridavano come ossessi:
— Aiuto! La casa crolla!
Solo il toscano rideva a crepapelle.
Nel corridoio che metteva nei dormitori dei sott'ufficiali e dei sorveglianti, si udirono per alcuni istanti delle grida, delle bestemmie e un fragore di gamelle che parevano fossero scagliate contro le pareti.
Seguì un istante di silenzio, poi uno sparo rintronò.
Steiner aveva mantenuta la sua promessa: si era sparato un colpo di fucile in direzione del cuore.1
Erano trascorsi pochi minuti da quel colpo di fucile che aveva profondamente impressionato, se non il toscano, certo il magnate, quando un uomo comparve dinanzi alla porta sgangherata dall'ungaro.
Era il sergente Ribot.
— Questa è una notte d'inferno — disse entrando. — Uomini che si ammazzano, scosse di terremoto, all'armi... e anche porte aperte nelle celle di rigore.
Il magnate si era alzato.
— Ah! Siete voi Ribot? — disse. — Vi aspettavo.
— Ed io, conte, non vedevo il momento di venirvi a trovare, poiché avevo paura che quel birbante di Steiner vi avesse spezzate le costole. Il maresciallo gli aveva promessa una bottiglia di cognac se vi fracassava completamente.
— Pare, invece, che sia rimasto fracassato Steiner — disse il toscano.
— È vero, camerata. Si è sparato un colpo di fucile in pieno petto, e dubito molto che possa sopravvivere.
— Pover uomo — disse Michele Cernazé. — Già, prima di uscire di qui aveva giurato di suicidarsi. D'altronde meglio così. Egli disonorava, forse senza alcuna colpa, la nazione magiara. È morto?
— No, conte — rispose il sergente dopo di aver richiusa alla meglio la porta sgangherata. — Non sono però venuto per parlarvi di quell'uomo, ma per chiedervi scusa delle brutalità con cui vi ho trattato stamani. Il maresciallo abusa del suo posto e del suo potere, e mi aveva minacciato di mettermi ai ferri, se non vi avessi fatto danzare terribilmente. Capirete che ci tengo, ai miei galloni, guadagnati con troppi sudori.
— Voi siete un brav'uomo, Ribot — disse il magnate.
Un malinconico sorriso comparve sulle labbra del sott'ufficiale.
— Anch'io sono stato un disgraziato, — disse poi con un sospiro. — Anch'io un giorno ho appartenuto alla nobiltà provenzale e sono stato ricco forse non meno di voi. Tutto mi è fuggito fra le mani, blasone e ricchezza; e la Legione mi ha accolto quando non mi rimaneva altro che di gettarmi nel Rodano o di cacciarmi una palla nel cervello. Orsù, non pensiamo a queste lontane malinconie. Oggi non sono che il sergente Ribot... e basta!
— Che cerca di salvare i disgraziati che il Consiglio di guerra manderebbe a passeggiare sulle rive dello Stige o sulla barca di quella canaglia di Caronte — aggiunse il toscano.
— Sì, quando si può — rispose il sott'ufficiale.
Alzò la testa guardando il magnate ungherese. Lo interrogava con lo sguardo.
— Sì, Ribot — disse Michele Cernazé dei conti di Sawa. — Bisogna avvertire Afza o suo padre, poiché io ho giurato di non lasciarmi tradurre ad Algeri.
— Dove lascereste la vostra pelle — rispose il sergente. — Quei signori del Consiglio di guerra hanno la mano troppo pesante e non badano alle vite umane quando si tratta di legionari che non hanno nelle loro vene sangue francese, e per di più sono dei disciplinari. Afza che cosa potrà fare per voi, conte? Mi sembra un po' difficile che riesca a levarvi da questa cella.
— Non vi preoccupate di questo, Ribot — rispose l'ungherese. — Quando noi vorremo ce ne andremo.
— Avete trovato delle lime nascoste sotto il tavolaccio?
— Non ci servirebbero a nulla.
— Diamine! E l'inferriata? Non potreste uscire che per di là, poiché alle due estremità del corridoio, vi avverto, vi sono due sentinelle.
— E appunto, da quell'inferriata io e il mio compagno prenderemo il volo — rispose il magnate.
Il sergente alzò le spalle, e fece un gesto di dubbio.
— Che gli ungheresi siano dei maghi? — chiese poi. — La cosa mi pare un po' grossa.
— Il mago è stato quel disgraziato di Steiner, ma io conto sulla vostra lealtà, per non tradire il nostro segreto.
— Ho capito. Quel rinoceronte, prima di ammazzarsi, ha compiuto una buona azione.
I suoi occhi si erano fissati sulla finestra, e alla incerta luce del tramonto aveva potuto scorgere le sbarre piegate.
— Fortunatamente, — disse poi — sono stato incaricato io di sorvegliarvi, e nessun altro entrerà qui, perché non lo permetterò. Quell'animale di maresciallo ha avuto certamente una pessima idea a scegliere me. Già, mi crede un antropofago, per lo meno un bruto senegalese.
— È un vero animale! — disse il toscano. — Lo sapevo già prima, e l'avevo detto al conte.
Ribot sorrise.
— Pare impossibile. Io non ho mai veduto un uomo conservare il suo buon umore come voi, anche dinanzi alla morte.
— Per mille merluzzi fritti! Se Caronte non mi ha ancora veduto passare il fiume nero, vuol dire che sono ancora vivo, e che ho ancora la speranza di andare a vuotare, sui fioriti colli della mia Toscana, qualche fiasco di quell'eccellente vino che l'Arno guarda da lontano ma che non può assaggiare.
— Ecco un vero demonio — disse il sergente. — Sono ammirabili questi italiani.
Poi, volgendosi verso il magnate che appariva un po' preoccupatogli disse:
— Domani, all'alba, io andrò a cacciare intorno al bled e passerò dinanzi al duar di Hassi-el-Biac. Che cosa devo dire al Raggio dell'Atlante?
— Che io sono stato messo in una cella di rigore e che fra qualche settimana il Consiglio di guerra mi farà fucilare — rispose il magnate.
— Null'altro?
— Afza sa quello che deve fare. È una ragazza intelligente e suo padre è un uomo risoluto, pronto a tutto. Andate, Ribot, e grazie.
— Prima che voi prendiate il volo, noi ci rivedremo — disse il sergente. — Non abbiate fretta: quando la notte sarà propizia, verrò io ad avvertirvi. Io non sono un aguzzino; e quando posso strappare alla morte dei disgraziati, mi ci presto volentieri. Dormite tranquilli: non vi è ormai più nulla da temere, ora che Steiner si è per tre quarti ammazzato.
— E il naso del maresciallo come va? — chiese il toscano.
— Non troppo bene — rispose Ribot sorridendo. — Sembra un enorme peperone o un fico d'India maturo.
— Ne sono persuaso. Il mio zaino era ben pesante, perché la mattina vi avevo messo dentro due paia di scarpe ferrate.
— Vi auguro la buona notte. Domani, fors'anche prima dell'alba, sarò al duar di Hassi-el-Biac, poiché ho ottenuto un permesso fin all'otto.
— Non verrà qui il maresciallo? — chiese il conte.
— Ho con me la chiave della vostra cella.
— La porta è sgangherata. Quel povero Steiner ha fatto saltare tutto in aria.
— Vedrò di mettere a posto, come meglio potrò, la serratura. Buona notte, conte; addio, camerata.
Accese la lanterna che aveva portato con sé, visitò la porta, rimise a posto la serratura come meglio potè ribattendo i chiodi coll'impugnatura della daga, e se n'andò mormorando:
— Il maresciallo credo che non avrà né Afza, né la pelle di quei due disgraziati. D'altronde se lo merita: egli non è un soldato bensì un bruto, che dovevano mandare fra i negri dell'alto Senegal, a pigliarsi le febbri.
Un silenzio profondo regnava ormai nel fabbricato. Ammalati, detenuti, sott'ufficiali e guardiani, ammazzati dal calore intenso che regnava fra quelle pareti scaldate a bianco da dodici ore di sole ardentissimo, dormivano profondamente, e russavano come mantici.
Solamente al di fuori passeggiavano le sentinelle, vigilando intorno alle vuote tettoie che servivano da dormitori ai disciplinari.
Ribot salì una stretta scala, e entrò nell'infermeria che era illuminata da una lanterna monumentale.
— Richard! — chiamò sottovoce.
Un infermiere che stava fumando una sigaretta dinanzi a un'inferriata accorse.
— Come va Steiner? — chiese il sergente.
— È spirato poco fa.
— Povero diavolo! Sarà più felice, io credo, nell'altro mondo che in questo.
— Ne sono convinto anch'io, sergente.
— Ha più parlato?
— Ha invocato per tre volte, prima di chiudere per sempre gli occhi, sua madre.
Ribot ridiscese la scaletta scuotendo tristamente il capo.
— Forse ho fatto male ad avvertire quella disgraziata dell'infame mestiere che faceva suo figlio, — mormorò — ma quanti poveri disciplinari non ho salvato io così? Non si troverà un altro Steiner che si presti a commettere tante infamie, e questo bled non ispirerà più l'orribile terrore di prima.
Entrò nella sua cameretta, si fermò dinanzi a uno splendido fucile da caccia, con le canne rabescate, appeso a un chiodo, poi si gettò sul suo lettuccio senza spogliarsi e senza chiudere la finestra per essere più pronto a svegliarsi e ad alzarsi.
Le stelle cominciavano appena ad impallidire quando il sergente, dopo d'essersi fatto riconoscere dalle sentinelle per non ricevere per isbaglio qualche colpo di moschetto, lasciò il bled inoltrandosi fra le immense e magre pianure che si stendevano verso il sud, appena coperte da arbusti intisichiti, da qualche dattero più morto che vivo, e da qualche minuscolo campicello coltivato a orzo o a miglio.
L'alba spuntava spegnendo rapidamente lo scintillìo degli astri e dei riflessi rosei sorgevano verso levante, illuminando dolcemente alcuni piccoli cirri vaganti pel cielo.
In lontananza si profilava, ancora cupo-azzurra, l'imponente catena dell'Atlante che divide l'Algeria dal grande deserto.
Le allodole si alzavano e trillavano gaiamente come se volessero salutare l'astro diurno che stava per sorgere, descrivendo delle spirali sempre più vaste, mentre fra le erbe fuggivano le grasse e appetitose pernici.
Ribot pareva che non facesse attenzione a tutti quei volatili, quantunque si fosse armato del suo magnifico fucile a due canne, e si fosse munito di un ampio carniere.
I suoi sguardi si erano fissati su due macchie brune, che spiccavano vivamente fra il verde della pianura.
Era il duar di Hassi-el-Biac, il padre di Afza, o, meglio, del Raggio dell'Atlante. Una sottile colonna di fumo s'alzava nell'aria fresca e purissima, disperdendosi lentamente.
— L'arabo è mattiniero — mormorò Ribot. — Andiamo a prendere il caffè da lui, e sarà sempre migliore di quello che passa l'amministrazione del bled.
Si tolse dalle spalle il fucile e cominciò a sparare contro le pernici, le quaglie e le allodole che gli fuggivano dinanzi in gran numero, senza dimostrare soverchia paura. Bravissimo cacciatore, in pochi minuti riempì il carniere, accese una sigaretta, ed allungò il passo mentre il sole appariva maestoso fra gli alti picchi dell'Atlante, e cominciava a rovesciare sull'arida pianura la sua solita pioggia di fuoco.
Il duar di Hassi-el-Biac si componeva di due ampie tende di stoffa, color della cioccolata, tessute con fibre di palme nane e con peli di capra e di cammello onde renderla assolutamente impenetrabile alla pioggia, e di un largo recinto formato di rami spinosi il quale serviva di ricovero a una mezza dozzina di grassi montoni che avevano delle code enormi.
Una piccola siepe composta di rovi, di canne e di giunchi circondava le due tende le quali erano ombreggiate da un gruppo di palme dalle immense foglie piumate.
Una grande calma, una immensa tranquillità piena di poesia regnava nel piccolo duar. Si sarebbe detto che nessuno lo abitava se non vi fosse stata la sottile colonna di fumo che Ribot aveva già veduta in lontananza.
I mahari e i montoni sonnecchiavano entro il recinto, scaldandosi al sole. Nei campicelli coltivati a orzo, che si stendevano dietro le tende, non si scorgeva anima viva.
Ribot si tolse dalla spalla il fucile e l'armò per sparare un colpo contro una cornacchia che passava sopra le tende, ma più che altro per attirare su di sé l'attenzione degli abitanti del tranquillo e silenzioso duar. Stava per far fuoco, quando dietro a un cespuglio vide alzarsi un uomo che gli disse:
— Salam alikum.2
Era il tradizionale saluto arabo.
— Che Maometto vegli su te, Hassi-el-Biac — rispose Ribot abbassando il cane del fucile.
Il padrone del duar era un bell'uomo di appena cinquantanni, alto, magro come quelli della sua razza, tutti muscoli e nervi.
Non aveva la volgare fisonomia d'un beduino e d'un Tuareg del deserto, bensì quella nobile e superba dei purissimi mori, degli antichi conquistatori della Spagna, che fecero stupire il mondo cristiano colle indimenticabili difese di Granata e di Siviglia.
La sua pelle era appena bruna; i suoi occhi nerissimi, luccicanti, pieni di fuoco selvaggio; il suo profilo quasi perfetto e simpaticissimo, reso più fiero da una barba piuttosto rada sì, ma d'un nero intensissimo.
Come tutti gli abitanti della bassa Algeria, non portava indosso che un lungo camice bianco, non di tela grossolana, però, bensì di finissima lana a grandi pieghe ondeggianti, e sul capo un monumentale turbante di stoffa rigata.
— Che cosa stavi facendo? — chiese Ribot.
— Davo da bere del latte a un piccolo mahari che è nato l'altro giorno — rispose il moro. — Vuoi vederlo? I cacciatori non hanno mai fretta, e poi vedo, sergente, che tu hai il carniere perfino troppo carico.
— Che sarò ben lieto di deporre ai piedi del Raggio dell'Atlante.
Il moro corrugò la fronte e inarcò le folte sopracciglia.
— Oh! Non a nome mio — s'affrettò a dire Ribot, il quale si era subito accorto di quella leggera nube comparsa sulla fronte del sospettoso arabo. — Sono stato mandato da un uomo che si trova nel bled, e che tu, e soprattutto Afza, conoscete quanto e forse meglio di me. Di questo parleremo più tardi, Hassi-el-Biac, quando avremo vuotata una tazza di caffè, se tu vorrai offrirmela.
— L'arabo non rifiuta mai l'ospitalità — rispose semplicemente il moro con un gesto pieno di maestosa nobiltà.
— Mostrami il tuo cammello.
Hassi-el-Biac si aprì il passo fra i cespugli che si stendevano dinanzi al recinto, intrecciandosi con degli enormi fichi d'India dalle foglie grosse e spinose, e si fermò dinanzi a un alto strato di sabbia in mezzo a cui si trovava, sepolto fino al ventre, un piccolo mahari ancora quasi sprovvisto di pelo.
— Questo diverrà un giorno un grande corridore — disse il moro mettendo dinanzi all'animale una larga ciotola piena di latte. — Ho visitato ieri le sue gambe e le ho trovate perfette. Fra quindici o venti giorni galopperà per la pianura meglio di un cavallo.
— Ma perché l'hai sepolto nella sabbia?
— Perché si rinforzi meglio — rispose il moro. — Se lo lasciassi libero, il peso del corpo guasterebbe le sue gambette. Vieni, sergente: i miei servi devono già aver preparato il caffè ed anche il kuskussù. Ho ucciso ieri mattina un superbo montone.
Invece di seguirlo, Ribot lo guardò.
— Non sospetti nulla di questa mia visita così mattutina? — chiese a bruciapelo.
Una rapida commozione apparve sul viso del moro, ed i suoi occhi nerissimi tradirono una intensa inquietudine.
— Che cosa vuoi dire tu, sergente? — gli chiese dopo, con voce un po' alterata.
— Dorme ancora Afza?
— Si alza sempre tardi. Io non voglio che si stanchi; e poi bastano i miei servi a sbrigare le faccende del duar. Sono abbastanza ricco per mantenergliene quanti ne desidera.
— Infatti, fra i beduini dei dintorni si sussurra che tuo padre ti abbia lasciato una grossa fortuna, e che avresti potuto fare a meno di allevare cammelli e mahari e di tenere delle centinaia di montoni.
Il moro sorrise silenziosamente, mostrando i suoi denti bianchissimi e fitti, poi disse: — L'arabo ama il deserto.
Guardò il sole, e poi dopo qualche istante di silenzio, rispose:
— Vieni a prendere il caffè prima che Afza faccia aprire la sua tenda.
— Non vuoi che la veda, Hassi-el-Biac?
— Non è più visibile ormai — rispose il moro.
— Perché?
— Non è più fanciulla.
— L'hai data in sposa a qualche caidì?
Hassi-el-Biac guardò il sergente senza rispondere.
Ribot, però, aveva ormai capito, e non credette opportuno d'insistere.
— Andiamo a bere il tuo caffè — disse. — Non è già la prima volta che lo bevo, e so dirti anche che l'ho sempre trovato squisito.
Hassi-el-Biac raccolse di terra un nodoso bastone piantato ad una delle estremità e si diresse verso il duar seguito dal sergente, fermandosi dinanzi alla spaziosa tenda bruna che aveva i lembi rialzati sul dinanzi, onde l'aria potesse circolare liberamente.
Una giovane negra era subito uscita, interrogando il padrone con lo sguardo.
— Servici il caffè — le disse brevemente Hassi-el-Biac. — Il mio ospite ha fretta.
La negra stese prima, dinanzi alla tenda, all'ombra d'un palmizio, uno splendido tappeto di Rabat, ricamato in seta ed oro, poi un vaso di cristallo pieno di tabacco e due narghilè che tramandavano un acuto profumo di rosa, abbondantemente sciolto nell'acqua di quelle grandi pipe.
— Vuoi fumare, sergente? — gli chiese il moro il quale affettava, apparentemente, una grande calma.
— Preferisco le mie sigarette — rispose Ribot.
— Allora prendiamo prima il caffè.
Battè le mani, e la giovane negra ritornò subito portando un vassoio d'argento massiccio, un bricco dello stesso metallo e due tazze che non avevano nulla di comune a quelle informi, screpolate e disparate che si usano fra gli abitanti dell'Algeria meridionale e del deserto.
Erano di vera porcellana, acquistate probabilmente a Marsiglia.
Il caffè fu versato e sorseggiato in silenzio, così da parte del sergente come del moro; poi il primo accese una sigaretta mentre il secondo dava fuoco al tabacco del suo splendido e profumato narghilè continuando a mostrare la massima calma.
Secondo l'usanza non voleva interrogare l'ospite, quantunque fosse ormai in preda ad una profonda ansietà.
Ribot ruppe per il primo il silenzio.
— Sai chi mi manda qui? — disse.
— Solo Maometto è capace di leggere nei nostri cervelli — rispose il moro.
— L'uomo che ha salvato tua figlia dalle ugne d'un leone.
— Il legionario... Michele! — esclamò Hassi-el-Biac trasalendo e fissando intensamente Ribot coi suoi occhi ardentissimi. — Gli è accaduta qualche disgrazia?
— Peggio di una disgrazia. È stato messo in cella di rigore, dalla quale non uscirà che per comparire dinanzi al Consiglio di guerra di Algeri, e tu sai che quei signori che lo formano non sono troppo teneri verso i disciplinari.
Il moro chiuse gli occhi come per non tradire uno spasimo troppo visibile, e si strinse i pugni contro il vigoroso petto.
— Che colpo per Afza! — mormorò con voce strozzata.
Poi guardando il sergente, con smarrimento gli chiese:
— E così il conte è perduto?
— Ah! Sapevi che quel legionario era un conte?
— Sì, sergente.
— Meglio così: ora comincio a capire qualche cosa più di prima — disse Ribot grattandosi il capo. — Il mistero si svela.
— È perduto dunque? — insistette il moro con angoscia.
— Certo, se non lo salviamo; ma ti devo dire, Hassi-el-Biac, che vi sono ottanta probabilità su cento che il conte ed il suo compagno riescano a fuggire. Non sarà questa sera, forse nemmeno domani; tuttavia tu devi tener pronti due mahari per loro. Una notte o l'altra, se tutto va bene, saranno qui.
— E tu non li tradirai?
— Non sarei venuto qui, diavolo — disse Ribot. — Sarò anzi io che li aiuterò.
— Potranno spezzare le sbarre?
— Io credo di sì, ora che sono state smosse.
— E le catene?
— Cercherò di provvederli d'una lima.
— Aspettami cinque minuti, sergente.
— Vai a svegliare Afza?
— No, perché, come ti ho detto, tu non potrai vederla.
— Ho capito un po' di più ancora — borbottò il sergente, mentre il moro scompariva rapidamente sotto la tenda. — Quel briccone di conte, all'insaputa di tutti, ha sposato il Raggio dell'Atlante. Ecco il mistero interamente chiarito! Ed il maresciallo che contava di prendere quella bella fanciulla, i cammelli, i montoni e probabilmente qualche forziere pieno d'oro! Ah! Ah! Non è stato di cattivo gusto il conte. Afza val più d'una seducente lionese.
Aveva appena riaccesa una seconda sigaretta, quando Hassi-el-Biac uscì dalla tenda tenendo fra le mani una di quelle grosse pagnotte di miglio, molto abbrustolite, che usano fare gli arabi del deserto.
— M'inviti a colazione? — chiese Ribot scherzando.
— Oggi è impossibile — rispose il moro. — Vorrei pregarti di portare questo pane al conte.
— Le nostre pagnotte sono migliori delle tue e anche...
S'interruppe ad un tratto, guardando Hassi-el-Biac. Aveva scorto sulla crosta nerastra della pagnotta due piccoli fori malamente turati da un po' di materia giallastra, che pareva cera.
— V'è qualche cosa qui dentro — disse.
— Se è vero che tu sei pronto ad aiutare la fuga del conte e del suo compagno, non devi interrogarmi su questo. Ti chiedo se puoi darla, senza che nessuno ti veda, al conte.
Ribot vuotò il carniere che era pieno di allodole e di pernici e vi mise dentro la grossa pagnotta, coprendola con una mezza dozzina di volatili.
— È fatto — disse poi. — Offrirai a tua figlia il resto della cacciagione. Spero che ora non rifiuterai.
— Mi giuri su Allah?
— Ti giuro su Allah e anche sul mio onore, che prima di stasera questa pagnotta sarà nelle mani del conte. Ho giurato a me stesso di fare il possibile per salvarlo e manterrò la parola, checché debba succedere. Sono caduto anch'io fra le braccia della Legione straniera per le medesime cause che hanno costretto il conte, ed è mio dovere di favorirlo, quantunque noi siamo di nazionalità diversa, pur essendo entrambi cristiani. Addio, Hassi-el-Biac: il mio permesso sta per finire. Salutami tua figlia, e bada di tenere sempre pronti i mahari poiché gli spahis hanno dei buoni cavalli.
— Aspetta un momento, sergente. Vieni con me.
Si diresse verso il recinto dove sonnecchiavano gli ultimi animali che aveva conservati, forse per nascondere le sue intenzioni di andarsene molto lontano dal duar.
— Prenditi il montone che più ti piace — gli disse.
— Per farne che? — chiese Ribot.
— Lo mangerai coi tuoi camerati.
— Mi farebbe perdere del tempo troppo prezioso, in questo momento. Sono troppo grassi e perciò troppo pigri.
— Scegli il mahari che meglio potrebbe convenirti.
— Preferisco i cavalli del bled. Son più comodi delle gobbe de' cammelli.
— Vieni allora un momento nella mia tenda.
— Vuoi darmi un'altra pagnotta, Hassi-el-Biac? Non saprei dove cacciarla e non la prenderei.
Il moro scosse il capo senza rispondere, e tornò frettolosamente indietro.
— L'arabo è scombussolato... — mormorò Ribot.
Entrarono entrambi sotto la spaziosa tenda col pavimento tutto coperto di belle stuoie dipinte a vivaci colori ed a tappeti, e con dei divanetti bassi, di feltro, disposti all'interno.
Hassi-el-Biac si fermò dinanzi ad un mucchio di tappeti, ne gettò via cinque o sei, e mise allo scoperto due vecchi forzieri di legno di cedro, cerchiati di acciaio.
Si tolse allora da una catenella d'argento che portava al collo una piccola chiave arrugginita, e aprì una di quelle casse, dicendo a Ribot:
— Prendine quanti ne vuoi.
Il sergente non potè trattenere un grido di stupore.
Il forziere era colmo di quegli zecchini che una volta batteva la zecca della Repubblica Veneta e che ormai non si trovano più che fra gli arabi della Tripolitania meridionale, della Tunisia e dell'Algeria, i quali li conservano religiosamente servendo quelle monete d'ornamento alle loro donne.
— Prendine quanti ne vuoi — ripetè il moro.
Ribot fece un passo indietro pur non essendo capace di staccare gli sguardi da quell'ammasso d'oro che aveva dei fulvi bagliori affascinanti, poi disse con voce risoluta:
— No, Hassi-el-Biac. Un nobile della Provenza non si vende. Anche sergente dei legionari, sono rimasto uomo d'onore. Addio, Hassi-el-Biac, conta su di me.
— Aspetta, allora... giacché non vuoi accettare nulla...
Sollevò un altro mucchio di tappeti e di stuoie; prese una cassetta di acciaio splendidamente lavorata, e fece scattare una molla nascosta in mezzo ad un gruppetto di datteri finamente cesellati.
Vi frugò dentro, cercando per qualche po' colle dita nervose, poi ne trasse fuori qualche cosa.
— Dammi la tua mano — disse a Ribot. — Tu non rifiuterai un anello che ti ricorderà sempre Afza, perché fa parte della sua dote.
Gli prese il dito mignolo e vi infilò un anello d'oro di forma piuttosto massiccia, adorno d'un grosso turchese.
— Grazie, Hassi-el-Biac — disse il sergente con voce un po' commossa. — Io conserverò sempre questo gioiello che è appartenuto alla più bella fanciulla dell'Algeria e che anch'io avrei amata intensamente.
In quel momento si udì a breve distanza una voce dolcissima alzarsi nell'aria.
Canticchiava una di quelle canzoni arabe che sono sempre la ripetizione dello stesso motivo, malinconiche, barbare e nell'istesso tempo piene d'una strana dolcezza, che impressionano e che finiscono per soggiogare lo spirito, come il mormorio d'una fontana o d'un torrentello che scorre fra le erbe d'una prateria.
— Mia figlia si è alzata — disse Hassi. — Parti, sergente, e grazie.
Ribot si gettò il fucile sulla spalla, strinse la mano al moro e si allontanò rapidamente senza voltarsi indietro, fischiettando fra i denti. Hassi, ritto presso la tenda, con le mani incrociate, la testa curva, lo seguiva con gli sguardi, mentre un venticello leggero leggero agitava le pieghe del suo candido vestito.
Un lieve grido lo fece trasalire.
Il Raggio dell'Atlante, fresca, ridente, era uscita dalla sua tenda, ma Ribot era ormai scomparso fra gli sterpi bruciati dal sole africano.