Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro secondo/Capo primo
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CAPO PRIMO
(Dall’anno di Roma 483 al 545.)
I. Gerone muove guerra a’ Mamertini, e minaccia d’occupar Messena; ma n’è sviato da Annibale, capitano de’ Cartaginesi. II. L’uno e gli altri si uniscono contro Messena. I Mamertini impetrano il soccorso de’ Romani. Appio Claudio passa da Reggio in Messena. Tregua tra i Romani e Gerone. III. Guerra tra i Romani ed i Cartaginesi. Messena resta a’ Romani. I Cartaginesi son rotti, e fan pace co’ Romani. IV. Condizione di Reggio durante la prima guerra punica. V. Annibale scende in Italia. VI. Sue vittorie stupende. Battaglia di Canne, e sue conseguenze. Le città Italiote restano ferme alla fede di Roma. Reggio è assediata da Annone e da’ Brutiii. Locri è occupata dai Cartaginesi, ed il presidio romano, costretto ad uscirne, passa in Reggio. I Bruttii espugnano Crotone. VII. Guerre in Italia tra Romani e Cartaginesi. Cose di Sicilia. Marcello ottiene Siracusa. VIII. I Cartaginesi occupano Taranto; mentre i Romani tengono Capua in assedio. Annibale ne’ Bruttii: tenta l’occupazione di Reggio. IX. Decio Quinzio in Reggio con un’armata Romana. Sua morte. X. Successi dei Romani in Sicilia. I Siciliani si conformano al dominio di Roma. In Reggio il presidio romano è recato a tremila uomini. XI. Taranto è assediata da’ Romani. Da Reggio i Romani si gittano al guasto del territorio de’ Bruttii, ed assaltano Caulonia. Annibale vi accorre a difesa; ed intanto Taranto ricade in potestà di Roma. I Romani tentano invano il racquisto di Locri. XII. Fatti d’armi tra Annibale ed i Consoli Marcello e Crispino. Morte di Marcello. Asdrubale scende in Italia, ma è vinto da’ Romani, ed ucciso; e la sua testa vien gittata nel campo di Annibale.
I. Partendo Pirro d’Italia aveva lasciato detto che un gran campo di lotte rimarrebbe aperto tra Romani e Cartaginesi; nè fallì la sua previdenza. I Cartaginesi, cui non era venuto fatto d’insignorirsi di Reggio, prima che questa città cedesse a’ Romani, avevano poi volto l’animo a prender Messena, ben avvisando l’importanza che a questa verrebbe dalla vicinanza di Reggio, dond’erano minacciati dalla potenza romana. Gerone dall’altra banda, che nell’impresa di Reggio aveva favorito i Romani, anch’egli si accalorava a far sua Messena, e facevasi a credere che costoro non avrebbero ostato al suo disegno. I Mamertini in questo mezzo, venuta loro meno l’alleanza de’ Campani, avvedevansi con troppo rammarico in quali pericoli versassero, rimanendo soli a petto del re di Siracusa. Ed in effetto Gerone intimò loro guerra, e comechè i Mamertini avessero lungamente e con meravigliosa bravura tenuto il fermo contro quel re, ciò nonostante in una sanguinosa giornata, in cui n’andò la vita del loro strenuo condottiero Cione, rimasero così scemi di forze, che il vittorioso Gerone marciò difilato contro Messena per darle a furia l’assalto. Ma il duce cartaginese Annibale che con parte dell’armata dimorava nelle acque di Lipari, non volendo comportare a’ Siracusani l’occupazione di Messena, com’ebbe certezza che costoro avevano condotto i Mamertini in termine che già si vedeva inevitabile la resa di tal città, con quella più celerità che potette, si fece in persona a Gerone, e con buone ragioni il persuase a levarsene dall’assedio: mostrandogli che i Mamertini, a caso disperato, terrebbero forse di gittarsi in braccio a’ Romani. A’ quali si faceva mille anni di trovare un pretesto, che da Reggio li conducesse a Messena che stava ad un dito di mare; donde poi potrebbero agevolarsi la via a metter piede in Sicilia. E col suo dire tanto potette Annibale nel re di Siracusa, che questi si tirò dall’impresa, e ricondusse la sua gente sul territorio siracusano. Dopo ciò Annibale, preso il tempo, volò a Messena, e sapendo i Mamertini già in pratica di abbandonar la città a Gerone, ne li distolse del tutto; offerendosi loro in ajuto e difesa. E dando vista di mettere ad effetto le sue promesse, introdusse nella rocca di Messena un buon nerbo di milizie cartaginesi, e ne diede il comando ad Annone.
II. Ma come i Mamertini compresero che i Cartaginesi, sotto colore di soccorrerli contro i Siracusani, eransi fortificati nella rocca, e non entrava loro in cuore di uscirne, a furia di popolo li costrinsero a sgombrarla, e a lasciar la città. Questo accidente recò Gerone ed i Cartaginesi a ristringersi contro i Mamertini, ed a forze unite combatterli e domarli. E poichè i Mamertini videro che da tale colleganza, sarebbero ridotti a certa rovina, non si affidando di bastare contro nemici così gagliardi, convocaronsi a consulta, e fu preso che per ultima salvezza dovessero sollecitare in loro ajuto i Romani (Anno di Roma 489, av. Cr. 265). In Roma la petizione de’ Mamertini partì gli animi in due; chi affermava non doversi dare il soccorso; chi sì. Ragionavano gli uni essersi i Mamertini impossessati di Messena con que’ modi medesimi, onde i Campani avevano carpita Reggio; ed in simil guisa doverne esser puniti, e non soccorsi, con immorale e pubblico scandalo. Ragionavano gli altri mal reggere il paragone; i Campani, i quali componevano una legione romana, non essere stati che ribelli, sottrattisi colla forza all’ubbidienza di Roma, ed aver occupata Reggio colla rovina e persecuzione de’ suoi cittadini. Non esser tali i Mamertini, che mercenarii già di Dionisio, erano da Siracusa passati a Messena, ed accolti dagli abitanti senza ripugnanza e contesa. In così opposte opinioni il Senato fermò negarsi il domandato ajuto; decretò il popolo che fosse tosto accordato.
Fu dato il carico dell’impresa al tribuno Appio Claudio, il quale imbarcate le legioni sopra navi somministrate in gran parte dalle città socie, si diresse per Messena; ma il navilio romano affrontato dall’armata cartaginese fu parte disperso, parte preso. Annone per mostrarsi generoso, rimandò al tribuno le navi predate; ma insieme dolendosi dei violati patti, dichiarò che Cartagine non patirebbe mai che Roma s’impadronisse di Messena, e dominasse lo stretto. Intanto i Siracusani ed i Cartaginesi campeggiavano a tutto lor potere la detta città, travagliandosi di conseguirla prima che i Romani. Così Messena divenne il pomo della discordia tra le due potenti repubbliche, e diede cagione ed origine alla prima guerra punica.
Mentre così maneggiavansi le cose, Appio Claudio fatto console aveva già messo in ordine un poderoso esercito, e precipitando ogni indugio, si avviava per Reggio: dov’era già in punto un’armata, a cui, giusta i patti della federazione, anche i Reggini avevano fornito il loro contingente. Da Reggio Appio Claudio mandò esortando Gerone ed i Cartaginesi che avessero a rimuoversi dall’assedio di Messena, se non volevano pigliar briga con Roma; e fece sapere particolarmente a Gerone che la guerra non contro di lui, ma contro i Cartaginesi era ordinata. Ed in quel subito, senza dar loro tempo di fargli risposta, Appio Claudio traghettato a corsa lo stretto, fu loro addosso quando meno se l’aspettavano, e mise le legioni romane dentro la città (An. di R. 490, av. Cr. 264). Gerone, quando appena vide il console passato in Messena così di bello e senza contrasto, tenendo che ciò fosse avvenuto per qualche mal giuoco de’ Cartaginesi, ritrasse le sue schiere sul territorio siracusano, e poi appiccata pratica co’ Romani conchiuse con loro una tregua di venticinque anni. Or dunque il pondo della guerra rimaneva tutto tra Roma e Cartagine. IV. Le due repubbliche che, nimicatesi a morte, avevano capriccio di conquistare la nobile ed ambita città de’ Mamertini, si percossero in concitati combattimenti; ma da ultimo i Cartaginesi andarono col peggio, ed i Romani vittoriosi inalberarono il loro vessillo sulla rocca di Messena, a prodigio delle future e memorabili battaglie che dovevano dar l’ultimo crollo a Cartagine. Ma venuta Messena a’ Romani, i Mamertini tardi conobbero, e senza poterne altro, quanto fosse tornata loro cara la chiesta protezione, per la quale perdettero non l’essere solo, ma il nome. E la stessa, Messena, con facile mutamento di vocale, fu detta da’ Romani Messana. Questo importantissimo acquisto apriva a Roma la via di signoreggiar la Sicilia.
Gerone atterrito dalla fortuna romana, si sciolse dalla lega dei Cartaginesi, e si abbracciò co’ Romani. I quali trapassando di vittoria in vittoria, cacciarono prima i Cartaginesi da Agrigento (An. di R. 492. av. Cr. 262), poi da Panormo. E quivi presso l’esercito di Asdrubale fu al tutto sbrancato e rotto da Metello (An. di R. 503, av. Cr. 251). Il quale, avendo in quel fatto d’armi preso a’ vinti cento quarantadue elefanti, fece condurli a Reggio, e da ivi a Roma. Amilcare Barca, per far diversione a’ Romani, si gittò al sacco ed al guasto de’ territorii di Locri e di Reggio; ma finalmente i Cartaginesi corsero così trista fortuna in Sicilia, che si videro costretti dopo ventiquattro anni di guerra, a chieder la pace a’ Romani. Della quale fu primo patto che i Cartaginesi dovessero andar via di Sicilia. Così la prima guerra punica, cominciata e combattuta in quest’isola, aveva fine coll’uscita dei Cartaginesi (An. di R. 513, av. Cr. 241), da’ quali erano provenute alle contrade siciliane tutte le gravezze della dominazione straniera. Ogni cosa cedeva a’ Romani, nè fuori del loro impero altro rimaneva che lo stato del re di Siracusa. E la Sicilia diventava provincia romana, la prima e di tempo e d’importanza fra quante ne abbiano da poi possedute.
IV. In tutta la durata della prima guerra punica, nessun travaglio fu dato alle città italiote; ove, tranne quel naturale commovimento che deriva sempre ad un popolo dalle varie condizioni e conseguenze di una guerra vicina e prolungata, niun avvenimento successe che meriti di esser riferito. Reggio seguitò di reggersi con quella interna libertà che i Romani le avevano conservata; e non par dubbio che allora le lettere e le arti vi fiorissero senza alcuno impedimento. E contenuta com’era dal presidio romano, ci fa inferire che non fosse stata mai più tribolata da quelle civili contenzioni, le quali se per un verso mostrano la vitalità di un popolo, sono però assai sovente desiderate e soffiate da que’ malvagi, che sogliono recare a privata utilità il comun danno. Laonde la storia di Reggio tace affatto dalla prima guerra punica sino alla discesa di Annibale in Italia.
V. Annibale, a cui sin dalla puerizia era stato messo in cuore un odio invincibile contro i Romani, fattosi adulto non vedeva l’ora di azzuffarsi con loro, per vendicare in Italia le sconfitte toccate in Sicilia a’ suoi compatrioti. Calato dalle Alpi, percoteva al Ticino nelle legioni romane condotte dal console Publio Scipione, e ne conseguiva compiuta vittoria (An. di R. 536, av. Cr. 218). E mentre così si maneggiavano da quella banda le cose della guerra, un’armata cartaginese di venti quinqueremi con un migliajo di uomini infestava le coste della Sicilia e dell’Italia. Ma contro di quelle furono ordinate dodici navi da Gerone re di Siracusa, che dimorava allora colla sua armata in Messana, ove doveva congiungersi colla romana, che condotta dal console Tito Sempronio navigava a quella volta. Tre legni cartaginesi discosti dalle altre navi furono facilmente presi e condotti nel porto di Messana. Si raccolse allora dai prigionieri, che, oltre di quelle venti, altre trentacinque quinqueremi nemiche erano dirette per la Sicilia a risuscitarvi gli antichi umori; e che avevano in principal disegno di posare presso Lilibeo, ed accingersi all’oppugnazione di questa forte città. A questa notizia Lilibeo fu a tutta prescia munita ed approvigionata con ogni maggior diligenza. Intanto giungeva in Messana il console Sempronio coll’armata romana. In Reggio il romano presidio fu accresciuto di nuove forze, e la città messa ad ordine di valida difesa. Il console fece furia di riscontrarsi nell’armata cartaginese, che corseggiava il litorale d’Italia, e seppe che i nemici avevano già preso terra, e dato il guasto a Vibona.
Lettere del Senato in questo tratto sollecitavano il console a condursi in ajuto del suo collega, che era impegnato con le armi di Annibale. Tra queste cure Sempronio, fatto rimontare, come potè il più, i soldati sulle navi, e speditili verso Rimini, affidò al legato Sesto Pomponio venticinque triremi per proteggere le marine italiche, ed al pretore Marco Emilio un’armata di cinquanta navi per tutela della Sicilia.
VI. Annibale in questo mentre, procedendo di vittoria in vittoria, rompeva le legioni romane alla Trebbia ed al Trasimeno (An. di R. 538, av. Cr. 216). Ma la giornata di Canne, ove più che cinquantamila Romani caddero morti sul campo, mentre pose Roma in somma costernazione, sollevò il capitano cartaginese ad una fortuna che non aveva sperato. Della qual battaglia furono così fatti gli effetti che le città socie di Roma, forte dubitando della stabilità della Repubblica, rupper fede a’ Romani, ed a mano a mano sdrucciolarono alla parte di Annibale: e fra esse fu Capua.
Primi a levarsi dall’alleanza di Roma, e ad aderirsi ad Annibale furono i Lucani ed i Bruttii. Così le città italiote vennero per ogni banda minacciate ed investite dalle armi collegate de’ Bruttii e dei Cartaginesi. Questi Cartaginesi che correvano l’Italia greca erano condotti da Annone e da Amilcare, i quali cercavano a tutto lor potere di smuovere le città italiote dall’alleanza romana, e guadagnarle alla loro amicizia. Ma gl’Italioti tenevano fermi a favore di Roma, perchè quanto temevano i Cartaginesi tanto odiavano i Bruttii. Allora fu preso il partito di staccarli per forza da’ Romani. Ed in questo proposito Annone ed i Bruttii mossero a oste sopra Reggio, per veder di togliere a’ Romani una città così importante per la sua giacitura a dirimpetto di Messana. Pensavano che la occupazione di Reggio darebbe loro maniera di pigliar piede fermo in Italia, di contrastare a’ Romani il dominio dello stretto, e di facilitarsi la rientrata in Sicilia. Fu assediata ed assaltata Reggio per mare e per terra, e combattuta per parecchi giorni, ma senza frutto. Imperciocchè i Reggini, avuta spalla dal presidio romano, resistettero con gagliardo valore alla furia de’ nemici, e massime de’ Bruttii, che si erano promessi di espugnar Reggio con tutto lo sforzo. Quando videro alfine tornata a niente ogni loro percossa ne levarono l’assedio.
In questo mezzo Amilcare ed altre schiere di Bruttii che si erano cacciati sul territorio locrese, lo mettevano ad orribili guasti, imprigionando ed uccidendo quanti infelici abitanti venissero loro alle mani. E quando in Locri si ebbe da alcuni fuggitivi che la tempesta rumoreggiava da presso alla città, i cittadini ne rimasero fuor di misura sconcertati, sapendo esser tra loro un ragguardevole partito, che favoriva i Cartaginesi. Si reputò quindi non solo inutile la resistenza, ma causa forse che la città precipitasse nei civili scompigli; onde fu preferito l’arrendersi a patti. Quando ciò fu rapportato a Lucio Attilio, il quale comandava il presidio romano, venuta la notte ordinò che tutto il presidio scendesse celatamente dalla rocca al porto: ed imbarcatosi fece vela per Reggio. E fu seguito da tutti que’ Locresi che rimanevano fedeli a’ Romani. Come ciò seppe Amilcare mandò sua gente a tracciare il nemico che fuggiva; ma i Romani erano già assai di lungi; ed in quello stante i persecutori, proceduti oltre Leucopetra a veduta di Messana, si accorgevano che parecchie navi romane uscivano di quel porto, ed a Reggio si dirigevano. Queste erano cariche di milizie che il pretore Claudio si era affrettato di spedire in Reggio, per tenerla guardata da ogni possibilità di nuovo assalto nemico. Il che veduto i Cartaginesi non soprastettero a ritrarsi nel porto di Locri. I quali entrati nella città non tollerarono che le fosse dato il sacco come i Bruttii desideravano, e la mantennero nello stato anteriore. I Bruttii, cacciati dalla rabbia che non avevano potuto slogare nè in Reggio, nè in Locri, rovesciaronsi impetuosi sopra Crotone, senza che i loro alleati Cartaginesi ne avessero avuto alcun avviso o intelligenza. Conoscevano i Bruttii che Crotone era allora miseramente lacerata da guerre intestine, per la divisione de’ cittadini, de’ quali i patrizii ed il Senato erano parziali de’ Romani, mentre il popolo s’infervorava a’ Cartaginesi. E queste deplorabili scissure avevano a que’ tempi, quasi morbo pestifero, invase tutte le città dell’Italia. Crotone adunque fu data a’ Bruttii dal popolo, ma resistette la rocca, dove si erano ristretti gli ottimati. I quali quando non potettero più oltre durare all’assalto de’ Bruttii, impetrarono da Annone di poter uscirsi della rocca colle loro famiglie, e ritirarsi in Locri. Non vollero patire i nobili Crotoniati di restar sotto ai Bruttii, co’ quali non avevano mai accomunato nè lingua, nè leggi, nè usanze.
VII. In questo essere di cose Bomilcare venuto da Cartagine approdava a Locri, ove sbarcando un buon rinforzo di fresche milizie, le congiungeva speditamente a quelle di Annone; il quale a tutta corsa faceva marciarle per Nola a porger ajuto ad Annibale ch’era fieramente investito da Marcello. Ma i Romani vinsero in questo cimento: e la stella di Annibale, che gli aveva così splendidamente precorso il cammino della vittoria da Sagunto a Canne, cominciò ad ecclissarsi. Dopo ciò il duce cartaginese andava a porre le stanze di inverno in Apulia: ed Annone forte tuttavia di diciassette mila uomini, la più parte Lucani e Bruttii, retrocedeva per altro verso. Ma affrontato presso Benevento da Tiberio Gracco, n’uscì al tutto sconfitto.
Erano a questo le cose d’Italia quando la Sicilia travagliavano gravissime perturbazioni (An. di R. 539, av. Cr. 215). In Siracusa era morto Gerone, e succedevagli il figliuolo Geronimo, che dimostravasi avverso a’ Romani, e si stringeva in lega coi Cartaginesi. Tutta la Sicilia aveva umore di ribellarsi a’ Romani, e Geronimo metteva legna all’incendio ch’era vicino di scoppiare. I Romani a prevenir la tempesta già assai propinqua, vi spedirono Marcello con poderose forze. Geronimo intanto era espulso da Siracusa, e questa premuta dalla nuova tirannide d’Ippocrate ed Epicide. Ma Marcello, rotto ogn’indugio, vi si approssimava a gran giornate, e metteva l’assedio alla città. Dall’altra parte il cartaginese Imilcone approdava in Sicilia con esercito numeroso; ed una nuova armata condotta da Bomilcare imboccava nel porto di Siracusa, mentre all’incontro un’armata romana trasportava un’altra legione in Panormo. Ma contuttociò Siracusa cadeva in podestà de’ Romani.
VIII. In Italia Annibale teneva Taranto assediata, e studiava ogni verso di averla; mentre i Romani campeggiavano Capua per trarla di sotto al dominio Cartaginese. Durante l’assedio di Taranto, dei dodici popoli de’ Bruttii, che si erano associati a’ Cartaginesi, quei di Consensa e di Turio ritornavano alla fede di Roma (An. di R. 542, av. Cr. 212). E certo il loro esempio sarebbe stato imitato dalle altre città, se Lucio Sempronio Vejentano per sua troppa temerità non si fosse lasciato vincere da Annone. Nell’anno appresso Taranto per tradimento aperse le porte ad Annibale, rimanendo solo a’ Romani la rocca, al cui presidio soprintendeva Marco Livio. I Turini ed i Metapontini, dopo la caduta di Taranto, si riappiccarono all’alleanza de’ Cartaginesi. Ma Capua in cambio era tenuta da’ Romani in assedio strettissimo, intanto che Annibale, caduto di animo, nè si assicurando di poterla soccorrere più a lungo, presa via per l’Apulia e la Daunia, si tirò nel paese de’ Bruttii; ove si diede ad espugnar Consensa, che come dicemmo, era ritornata a’ Romani.
Trattosi poscia nel territorio di Reggio, investì questa città con tal celerità ed impeto che poco andò non fosse condotta alla resa, (An. di R. 543, av. Cr. 211). Ma tenutosi salda come per miracolo in quella prima scossa, le vennero dalla vicina Messana opportuni ajuti, e potette esser salva. Perilchè Annibale, devastatone il paese, e fatti prigionieri quanti abitanti capitarono nelle sue mani, indi si tolse. Annone, meravigliando che Annibale nelle strettezze di Capua se ne tenesse così di lungi, e non procacciasse di sovvenirla, il mandò rampognando: non esser loro venuti in Italia a far guerra a’ Reggini ed a’ Tarentini, ma l'esercito cartaginese là dovere appresentarsi dove fossero le legioni romane. Così aver vinto alla Trebbia, così al Trasimeno, così a Canne: combattendo sempre il nemico a viso innanzi, non per torte ed indirette vie. Ma i rimproveri di Annone erano tempo perduto; e Capua fu abbandonata alla vendetta romana.
IX. La rocca di Taranto ch’era rimasta a’ Romani, si riducea ormai a mali termini per manco di vettovaglie, e continuava di sostenersi con sole quelle che a quando a quando le interveniva di aver da Sicilia. Le quali vettovaglie, perchè con sicurtà potessero esserle recate per mare lunghesso le coste d’Italia da Reggio a Taranto, un’armata di venti navi tra quinqueremi e triremi (accozzata giusta i trattati dalle città socie Reggio, Velia, Pesto, e altrettali), era a dimora ordinaria nelle acque di Reggio. Dessa era agli ordini di Decio Quinzio, il quale aveva commissione di fare spalla alle navi onerarie che di tanto in tanto traevano da Sicilia le provvigioni per condurle al presidio di Taranto.
Ma addivenne un tratto che, mentre Quinzio scortava i viveri per Taranto, si fosse incontrato presso la costa di Crotone e Sibari col navilio tarentino, composto pure di venti navi, e capitanato da Democare; a cui era posta la cura d’impedire che alla rocca tarentina mandassero i Romani le necessarie vettovaglie. Si venne a battaglia, la quale non fu nè tutta allegra, nè tutta mesta per alcuna delle due parti. Decio Quinzio fu ucciso, alquante delle sue navi furono affondate, altre, che avevano cercato ricovero in terra, caddero nelle mani de’ Metapontini e de’ Turini; ma le navi onerarie, il che era tutto, si trassero illese dalla mischia, e portarono al presidio romano, ch’era per morirsi di fame, l’aspettato sollievo.
X. A questi tempi medesimi il console Valerio Levino, tanto atteso in Sicilia, vi giungeva; (An. di R. 544, av. Cr. 210) ed ivi a picciol tempo prendeva Agrigento. Questa vittoria rilevava grandemente nell’isola le cose de’ Romani, e partoriva l’effetto che i Siculi cominciassero a svolgersi dai Cartaginesi. In breve, venti castella furono tradite a’ Romani, sei occupate a viva forza, quaranta volontariamente cedute. Così il console dopo tanto successo costrinse gl’isolani a deporre le armi; e rassettato l’ordine interno con molti savii provvedimenti, diede opera che fossero al possibile rimarginate le piaghe della durata guerra, e rivocati gli animi alle industrie, all’agricoltura, ed alla riposata convivenza civile. Raccolse in Agatirna tutti gli avveniticci e fuorusciti di altri paesi, e condonato loro qualunque reato, li ordinò alla disciplina militare. E fattane una ragunata di quattromila uomini, volle che fosse trasferita a Reggio, ove a un bisogno poteva essere molto acconcia ad infestare il paese de’ Bruttii. I quali, inanimiti ed accaneggiati da Annibale, non restavano di essere infensi agl’Italioti, che si rifermavano nella federazione con Roma. E Levino, per adizzar quella gente a tali scorrerie, concesse a ciascuno che qualunque cosa predata nelle terre del nemico, fosse di assoluto possesso del predatore, senz’alcun obbligo di farne parte ad altrui. Con questa giunta, il presidio di Reggio montò allora ad ottomila uomini.
XI. In questo pigliavano in Roma il consolato Fabio Massimo e Marcello; a’ quali fu appoggiata la cura di racquistar Taranto, e di contenere e reprimere energicamente Annibale, che si era rattestato co’ suoi. Contro cui si spingeva sollecito Marcello, e presso Canosa sfidatolo a giornata e vintolo, il costringeva a ritirarsi ne’ Bruttii. Di pari guisa Fabio Massimo, appresentandosi a Taranto, metteva l’assedio alla città. E per far che l’attenzione di Annibale fosse divertita da Taranto ed attirata ne’ Bruttii, ordinava al prefetto del presidio di Reggio di mettere a ferro e fuoco il territorio de’ medesimi, e di oppugnar Caulonia (An. di R. 545, av. Cr. 209). Al che spedisse tutta quella massa di gente audacissima che Levino aveva collocata in Reggio: attorno alla quale era anche raggranellato un gran numero di Reggini, e di profughi Bruttii. Costoro, bramosi di ventura, e tratti al lecco di cose nuove e di grasse rapine, erano presti ed animosi ad ogni più temerario cimento. Con quanta alacrità adunque fossero eseguiti gli ordini di Fabio Massimo, non è cosa da dirsi. Corso in prima con rovinosa furia il territorio di Caulonia, percossero impetuosi nella città. Così Fabio coloriva il suo disegno, e conseguiva lo scopo; imperciocchè Annibale, com’ebbe lingua che Caulonia era assediata, ivi volò a darle sussidio. Nè s’impensieriva di Taranto, che recata alle ultime angustie dalle armi romane, davasi al disperato. Ma quelli ch’erano all'ossidione di Caulonia, come ebbero sentore che Annibale moveva per quella volta, temendo di esser soverchiati dal più numero de’ nemici, tolsero immantinente l’assedio, e si trincerarono a non molta distanza sopra un’altura molto accomodata a difesa. Frattanto sentiva Annibale che Taranto era per ricadere a’ Romani, e si accelerava a soccorrerla; ma sapendo per via che si era già resa per tradimento, trattenne il cammino, ed ivi a pochi giorni, governato da profonda mestizia, si ritirava in Metaponto.
Questo accidente della caduta di Taranto fece la salvezza degli assediatori di Caulonia, i quali ricoverati sopra la detta eminenza, aspettavano che Annibale da un momento all’altro li circuisse, e li astringesse a darglisi a discrezione. Ma il subito allontanarsi di costui diede loro tempo allo scampo, e fecero ritorno a Reggio quando più loro pareva preclusa ogni via di salvezza.
Presa Taranto, una parte dell’esercito romano d’ordine di Marcello fu spedita ne’ Bruttii a bezzicare le truppe di Annibale, e ricondurre alla fede romana le città che si erano gittate e tuttavia stavano all’obbedienza de’ Cartaginesi. Alcune coorti romane mossero contro Locri per terra, mentre Lucio Cincio Alimento pretore di Sicilia si teneva in punto di attaccarla per mare. Annibale, a ciò avvertendo, spiccò dalle sue milizie tre mila fanti e due mila cavalli a’ quali ingiunse s’imboscassero lungo la strada che menava da Taranto a Locri in una vallata presso Petilia. I Romani, che di questo non ebbero sospetto, intopparono nel guato, e furono tagliati a pezzi da’ Cartaginesi.
XII. D’altra banda i due consoli Marcello e Crispino stavano a campo in Apulia, a non molto da Venosa. Ed Annibale, francata Locri dal pericolo, e desideroso di risuscitar la sua cadente fortuna con qualche nuova vittoria, uscito dalla regione de’ Bruttii si avvicinò al campo romano, risoluto di venire a giornata. Presero la battaglia i consoli, ma n’ebbero il peggio; e Marcello combattendo con Annibale restava ucciso sul campo. Allora brillò al generale cartaginese la speranza che ricominciassero per lui i gloriosi fatti del Trasimeno e di Canne. Ed attendeva impaziente nell’Umbria che Asdrubale, il quale si affrettava a calare dalla Spagna in Italia, venisse a duplicargli le forze. Ma Asdrubale, disceso in Italia, era profligato dalle legioni riunite de’ due consoli Claudio Nerone e Marco Livio. Dopo di che Claudio Nerone, correndo a gran giornate a scontrarsi con Annibale, gittava nel cartaginese campo il capo reciso e sanguinoso di Asdrubale. Non resse a tal fiera vista l’animo di Annibale, e levatosi da campo si raccoglieva addolorato ne’ Bruttii. Ivi si poneva alle stanze presso Crotone nell’ampia spianata del tempio di Giunone Lacinia. Abbandonato il resto dell’Italia, che già si era in gran parte riconciliata con Roma, traeva solo dal paese de’ Bruttii le vettovaglie per la sua gente; ove quanto dava la terra bastava appena all’alimento degli scarsi abitatori. Imperciocchè la gioventù bruttia, tratta dalle native contrade alla guerra, parte era perita in battaglia, e parte, dandola per mezzo alle rapine ed alle arsioni non si soddisfaceva più della vita rusticale, e del sudato, ma tranquillo lavoro delle zolle paterne.
Intanto che molti popoli, i quali tenevano ancora da Annibale, lo andavano lasciando via via, e fra essi i Lucani, in Roma si concepiva e maturava l’ardito disegno di portare il campo della guerra nell’Affrica sotto le mura dell’emula Cartagine. Il console Publio Cornelio Scipione prendeva sopra di sè la magnanima impresa.