Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro quinto/Capo secondo

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CAPO SECONDO

(Dall’anno 1415 al 1431.)

I. Giovanna II. Privilegi de’ Reggini. Loro contese col conte di Sinopoli. Giacomo di Borbone e Giovanna. Il Borbone se ne fugge in Francia. II. Egidio de Grigny cede il castello di Reggio al regio Commissario Filardo Gattola. Patti della cessione. Il Gattola divien castellano di Reggio, ma n’è rimosso ad istanza de’ cittadini. Dissapori tra il conte di Gerace ed i Reggini. III. Pace di Giovanna II col Papa; ma non dura. Lodovico III d’Angiò appetisce la conquista del Regno. Giovanna adotta Alfonso d’Aragona, ed il chiama suo successore. IV. Alfonso entra in Napoli. Lodovico III finalmente si ritira a Roma. I Sindaci di Reggio Galgano Filocamo ed Ambrosio Gerìa ottengono da Alfonso la conferma de’ privilegi, ed altre concessioni. Richiamo de’ Reggini contro gli abitanti di Motta Rossa, Molla Anomeri, e Motta San Quirillo. Tuzio Plutino, Marco Illio. L’Arcivescovo Bartuccio de Miroldo. V. Giovanna II, rappresentata da Alfonso Duca di Calabria, pignora a’ Reggini la Motta San Quirillo, e ne cede loro tutti i diritti di signoria feudale. Condizioni di tal pignorazione. Concessioni fatte da Alfonso a Reggio. VI. Rottura tra Giovanna ed Alfonso. Ella rivoca l’adozione di lui, ed adotta in suo luogo Ludovico III d’Angiò, a cui trasferisce il dominio del Ducala di Calabria. Alfonso parte per la Castiglia. Condizioni di Rggio. Lodi del capitanio Giovanni de Ultrera. I. Sindaci Marco di Salerno e Galgano Filocamo. VII. Reggio è battuta dagli Angioini. Atti di Lodovico III a pro de’ Reggini. I Sindaci Roberto de Logoteta ed Alberico Illio. Privilegi della città. Lodovico viene in Reggio, e concede la fiera franca di San Marco. Provisione a favor delle navi veneziane. VIII. I Sindaci Aloisio Sparella, e Nicola de Mirabello. Nuovi privilegi della città. Controversia tra Reggio e Santagata. Peste in Reggio.


I. Morto Ladislao, ebbe a succedergli la sorella Giovanna II, la quale restata vedova del Duca Guglielmo d’Austria, pose la sua dimora in Napoli, ove seppe trovar larghi conforti alla sua vedovanza. Fu desiderio de’ più potenti Principi napolitani che la regina si rimaritasse, tanto per procurarsi un valido sostegno al trono, quanto per aver successori. Dopo lunga esitanza, ella alfine si prese a consorte Giacomo di Borbone, Conte della Marca, sperando che le sue nozze con un principe della real casa di Francia le farebbero scudo contro le nuove minacce di Lodovico d’Angiò, che non deponeva il pensiero di ritentar l’impresa del Regno. Giacomo sposando la regina non aveva ottenuto il titolo reale, ma solo il principato di Taranto. Non andò molto però ch’ebbe tutte le regie attribuzioni, e la regina il fece partecipe del sovrano comando. Da Giacomo e Giovanna II ottennero i Reggini la conferma de’ loro privilegi.

Era uno degli speciali privilegi della città nostra che chiunque venisse d’altronde a stabilirvi il suo domicilio, avesse libero da ogni [p. 212 modifica]gravezza feudale il possesso e godimento de’ propri beni, in qualunque punto della monarchia fossero siti. Ora i Reggini richiamavansi a’ nuovi Sovrani che da poco in qua i convicini Baroni andassero depredando i beni dei cittadini, e di chiunque abitava in essa citta, sotto pretesto che quanti si erano assentati dalle loro castella, mentre queste erano demaniali, non vollero più ritornarvi dopo che, vendute dal governo, divennero dominii feudali. Il conte di Sinopoli specialmente non solo aveva messo in preda i poderi di quelli tra i suoi vassalli che avevano mutato in Reggio il loro domicilio, ma ancora quelli del reggino Giacomo di Lorenzo, che già da venti anni innanzi aveva fatta continua dimora in quella città, nè era stato mai vassallo del conte di Sinopoli. Il re e la regina sulle rimostranze dell’università di Reggio provvidero che il Giustiziario di Calabria, chiamate a se le parti contendenti, s’ingegnasse di conciliare ogni cosa senza strepito e con imparzial giustizia, in maniera che Reggio fosse rintegrata ne’ suoi diritti d’immunità.

Ma la concordia tra i regii sposi non durò molto a lungo. Giacomo già mostrava chiaro esser sua mente di togliere alla regina qualunque potere; e dall’altra parte i Napolitani vedevano che tutti i pubblici uffizii eransi distribuiti a’ Francesi, che il Borbone aveva condotti seco da oltre Alpi, e che apertamente favoriva (1416). Senzachè, l’indole di lui era brusca, assoluta, maligna. Giacomo e Giovanna ruppero in aperte dissidenze, le quali dieder luogo a persecuzioni, a prigionie, a scandali e tafferugli cortigianeschi; a cui davano fomento e vita in varii sensi or Pandolfello Alupo, or Sergianni Caracciolo, ora Sforza Attendolo, che volgevano l’animo della regina a tutte le lor voglie e gelosie. A noi non appartiene avvilupparci nella storia di quelle brighe cortigianesche, ma solo diciamo che se Giacomo aveva dapprima tolto ogni potere a Giovanna, costei poi, ajutata da’ Napolitani che mal digerivano i Francesi, il costrinse a restituirle la sovrana autorità, ed a chiudersi nel Castello dell’Uovo. Egli vi rimase prigione sino al 1417; nel qual anno fuggì dal carcere, e cercò di rifar testa contro la regina; ma andatogli in fumo il disegno, si ritirò da ultimo in Francia, dove poi si rese frate francescano, e tal morì nel 1438.

II. Dopo la fuga di Giacomo furono espulsi tutti i Francesi che dimoravano nel reame, ma taluni tra costoro che tenevano pubblici uffizii, ripugnavano tuttavia, quali più quali meno, agli ordini della regina. Così il francese Egidio de Grigny, ch’era capitanio e castellano di Reggio, dopo la partenza del Borbone, tenne per sè il castello, nè volle mai cederlo agli uffiziali della regina. Nè il cedette [p. 213 modifica]al regio Commissario Filardo Gattola da Gaeta, se non in forza di un trattato, e per interposizione del nobil geracese Gregorio Protospatario, nunzio e procuratore dì Giovanni Caracciolo, conte di Gerace e regio Consigliere. Fu patto in esso trattato che il Grigny consegnar dovesse al Gattola il detto castello a prezzo di ducati cinquemila; della qual somma si costituì pagatore al Grigny il conte di Gerace da essergli sborsata fra ventitrè giorni dal dì della consegna del castello. Ed in caso che il pagamento non ne fosse fatto nel termine convenuto, fu posto che il Conte dovesse, dalla scadenza in poi sino alla soluzione del debito, pagare ogni mese la somma di quattrocento quarantasette ducati di oro, computato ogni ducato alla ragione di cinque tareni. 11 Gattola poi e l’università di Reggio con pubblico strumento entrarono mallevadori al conte di Gerace, ed obbligaronsi a dargliene totale indennità. Questo Conte in effetto andava pagando al Grigny la somma pattuita; e Filardo Gattola, a cui fu conferito l’uffizio di castellano di Reggio, aveva alla sua volta già soddisfatto il Conte nella somma di ducati quattromila, nè restava a pagargliene che altri mille.

Stando così le cose, per talune novità succedute nel Ducato di Calabria (1418) il conte di Gerace nè pagò, nè fece pagar le collette dovute alla Corte da’ suoi vassalli, le quali avrebbero dovuto pagarsi allo stesso Gattola, ch’era insieme regio Commissario di Calabria. Il Gattola da questo prese cagione di non pagare al Conte i rimanenti ducati mille. Intanto i Reggini avevano già fatto ricorso a Giovanna contro il castellano Filardo Gattola, accusandolo di novità, ingiustizie, ingiurie, e di varii danni reali e personali indebitamente ed iniquamente inferiti non solo contro l’università di Reggio in generale, ma in particolare contro ogni suo cittadino. Ed esponevano alla regina che per tali oppressioni e vessazioni, non solo riusciva loro esoso il gaetano Gattola, ma ancora tutti i gaetani. Ella ordinò che il Gattola fosse rimosso da castellano e capitanio di Reggio, e da qualunque altro uffizio; che in avvenire nessuno de’ fratelli del Gattola, o de’ cittadini di Gaeta potesse esser chiamato al grado di castellano e capitanio di essa città; che Filardo dovesse stare a sindacato de suis processibus et excessibus; e che ove il medesimo non si assoggettasse personalmente alla sindacazione, allora non ostante la sua assenza, potesse e dovesse il capitanio della città procedere a tal sindacazione, e soddisfare e fare indenni tutti i cittadini oltraggiati sopra le cose ed i beni del Gattola esistenti in essa città di Reggio.

Andato in Napoli Filardo fu per ordine della Regia Camera in[p. 214 modifica]carcerato nel Castel Nuovo, dove aveva a star chiuso sinchè non avesse dati e giustificati i conti della sua amministrazione. Allora il conte di Gerace si rivolse a’ Reggini, non solo pretendendo che la loro università dovesse pagargli i ducati mille, ma anche i quattrocento quarantasette per mese, ch’esso Conte pagar dovette al Grigny per non aver adempiuto al total pagamento de’ ducati cinquemila nel tempo pattuito. L’università di Reggio, stretta dalle insistenti minacce del Conte, non vedeva modo di poter pagare in quel subito; ed egli irritato ne perseguitava i cittadini, e già a sua istanza il giudice Nicola de Malgeri era stato chiuso in carcere; ma poi ne fu liberato sotto cauzione fidejussoria. Si rivolse allora Reggio alla sovrana benevolenza, e Giovanna, penetrata dello stato deplorabile, in cui tal città era stata gittata dalle passate sciagure, condonò e fece buono il debito all’università, ed al Gattola. Liberò inoltre da qualunque aggravio e risponsabilità il giudice Malgeri, e dispose che il conte di Gerace si ritenesse la somma del suo credito sulle collette che i suoi vassalli dovevano tuttavia alla Corte.

Nè lasciò in appresso Giovanna di continuare a’ Reggini i suoi benefizii; ed ordinò che non fosse più gravata ed esatta la regia gabella di grani sei per ogni oncia sopra le mercanzie ch’entravano nella città, e ne uscivano, ferma sola rimanendo quella di grani diciotto che soleva pagarsi.

III. Giovanna in questo tempo (1419) venne a patti di pace colla Corte pontificia. E Sforza Attendolo, il quale teneva tuttavia il comando di Roma in nome di lei, ebbe ordine di consegnar la città, il Castel Sant’Angelo, e tutte le altre conquiste di Ladislao a Giordano Colonna, fratello di papa Martino V. Poi questo stesso Giordano con suo nipote Antonio Colonna e due Cardinali si recò a Napoli, ed in nome del Pontefice incoronò la regina, la quale per renderne merito ad Antonio gli donò il principato di Salerno, ed il ducato di Amalfi.

La regina non guardava molto di buon occhio l’Attendolo, suo gran Contestabile, riuscendole fastidiosa la rivalità di lui con Sergianni Caracciolo. Laonde ella acconsentì di buona voglia che l’Attendolo si acconciasse agli stipendii del Papa. Quando poi Sforza restò disfatto da Braccio da Montone tra Montefiascone e Viterbo, Martino V si affrettò di cercar danaro e munizioni a Giovanna per rifar l’esercito pontificio. Ma costei per consiglio del Caracciolo, a cui la rotta di Sforza suonava gratissima, non diede orecchio alle premure del papa. Il quale indignatissimo per questo, risolvette di contrarre altre alleanze, e di favorire le pretensioni di [p. 215 modifica]Lodovico d’Angiò, figliuolo di Lodovico II, sul reame di Napoli. Così in queste misere regioni si raccendevano le ire de’ partiti angioino e durazzesco, e divampavano più vive le fiamme della civil guerra.

Lodovico III d’Angiò, stuzzicato dal pontefice, allestì parte in Provenza e parte in Genova un’armata di nove galere, e di cinque bastimenti da carico, e presentossi a vista di Napoli il quindici agosto del 1420. Ma Antonio Carafa, soprannomato Malizia, che la corte di Napoli aveva inviato oratore a Martino, sapendo che Alfonso d’Aragona re di Sicilia teneva in questi tempi apparecchiata un’armata contro la Corsica, e che il papa, per deferenza a’ Genovesi, gli contrastava l’andata, si rivolse per ajuto al suddetto re. Il quale, risolutosi di accettar l’impresa, fu dalla regina Giovanna adottato, messo in possesso del Ducato di Calabria, ed opposto come suo successore al Duca d’Angiò.

IV. Alfonso fece il suo ingresso in Napoli a dì sette luglio del 1421; mentre Lodovico d’Angiò si accampava fuori della città. Le genti ed i capitani de’ due emuli re s’incontrarono in quelle vicinanze, ma la guerra non partorì gravi risultati, e Lodovico III stancatosi finalmente si partì dal Regno per Roma. Allora Alfonso rimase padrone dello Stato, e tutte le città del Regno si affrettarono a riconoscerlo in re. L’università di Reggio mandò al nuovo Duca di Calabria i suoi Sindaci Galgano Filocamo, ed Ambrosio Geria per ottener la conferma de’ privilegi della città. Alfonso, porgendosi amorevole alle istanze de’ Reggini, concesse:

1.° Che la città non pagasse più tre, ma solo due collette generali, affinchè potessero i cittadini riparare al continuo le mura ed altre fortezze opportune alla loro miglior difesa. Poichè Reggio era allora caduta in estrema desolazione, e quasi al tutto andavano in ruina i suoi privati e pubblici edifizii.

2.° Che i Reggini potessero estrarre dalla Sicilia animali ed ogni altra mercanzia, e che circa il pagamento delle gabelle fossero trattati come i cittadini di Messina.

3.° Che non potessero esser costretti a servire nè nell’armata nè nell’esercito, qualora non volessero andarvi volontariamente.

4.° Che a’ Giudei stabiliti in Reggio (avuta considerazione che la Giudeca era venuta quasi al niente) fosse rimessa metà delle once due e tareni sedici che solevano pagare per diritto di marcafa (jus marcafae, o mancafae, o mancefae).

5.° Che uno de’ Giudici della città fosse Giuseppe Macazeni, secondo il desiderio de’ Reggini. [p. 216 modifica]

6° Che i reggini Aloisio Sparella, e notajo Nicola de Mirabello non potessero esser convenuti in giudizio criminalmente, ma solo civilmente, dal signor Tommaso Demarinis.

7.° Che Onofrio de Maracelli, e Stefano Mayrana, che avevano ottenuto da gran pezza la cittadinanza reggina, potessero con tutti i loro beni e famiglie dimorar sicuri e liberi nella città, come tutti gli altri cittadini, non ostante che fossero genovesi.

Oltre delle suddette concessioni l’università di Reggio chiedeva ad Alfonso che si degnasse restituire alla città il possesso e la tenuta delle due motte Rossa ed Anomeri co’ loro vassalli, diritti e terreni comprati dall’università, giusta il prezzo convenuto, e già integralmente pagato alla regina. Della qual possessione la città era stata posteriormente spogliata di fatto ed armata mano dal magnifico Carlo Ruffo conte di Sinopoli. Domandavano ancora i Reggini che piacesse al Duca di Calabria di permettere che gli abitanti della Motta San Quirillo potessero esser trasferiti in Reggio, e ch’essa Motta fosse demolita. Poichè la stessa era stata abitata dagli uomini de’ casali della città, che poi, traendo partito dagl’interni disturbi, l’avevano sottratta alla dipendenza di Reggio. E che i cittadini di essa, e massime Tuzio Plutino e Marco Illio, fossero rintegrati nel possesso dei beni de’ quali erano stati spogliati da’ baroni e da altri provinciali in tempi di civili scompigli.

Chiesero ancora che approvasse per loro Arcivescovo l’abate Barluccio de Miroldo, eletto dal Clero e popolo reggino; ed ove costui fosse canonicamente confirmato dal Sommo Pontefice, avesse speditamente il possesso della Chiesa reggina. Alfonso talune delle chieste cose approvò senza dilazione, tali altre concesse, dopo aver prese le analoghe informazioni, con provvisioni opportune.

V. Già Ladislao, quando gli mancava il danaro, aveva cominciato a pignorare e vendere alle università del Regno ed a’ Baroni terre e castella demaniali, per sopperire alle sue stringenti necessità, ed a tener viva la guerra contro di Lodovico d’Angiò, e dello Stato pontificio. Giovanna II aveva in pari bisogni imitato spesse volte il fratello. E sappiamo aver ella venduto all’università di Reggio, sedendo sindaci Aloisio Sparella e Notajo Nicola de Mirabello, le due Motte Rossa ed Anomeri. Ma dopo alcun tempo, cadutale di memoria la prima vendita, tornò a venderle al conte di Sinopoli Cario Ruffo. E fece che questo conte si azzuffasse coll’università di Reggio, e si venisse alle armi ed al sangue. Posteriormente la regina rivocò questa seconda vendita, ma il conte non volle ceder per niente. E lungamente queste due Motte furono poste segno alle ire de’ Reggini e [p. 217 modifica]de’ vassalli del Conte, che le travagliavano e depredavano a vicenda. Cresciuto poi il bisogno di nuova moneta per far fronte alla lotta contro Lodovico III d’Angiò, la regina pignorò a favor de Reggini la Motta San Quirillo nel 1422.

Era allora Vicerè del Ducato di Calabria, in nome di Alfonso, Giovanni de Hijar, e luogotenente dell’Hijar Vitale da Valguarnera. Coll’autorità della regina i sindaci di Reggio Antonio de Malgeri e Marco de Salerno contrattarono col Valguarnera la pignorazione della Motta San Quirillo con pubblico strumento rogato in Reggio (1422) dal notajo Giovannuzio Bosurgi coll’assistenza di Silvestro Geria Giudice ad contractus. Dichiarò in essa scrittura il luogotenente che avendo necessità di pecunia per l’espedizione di ardui ed urgenti negozii del regio governo, e specialmente per il pagamento degli stipendii della schiera degli Armigeri, che militavano allora nella provincia di Calabria contro i ribelli partigiani di casa angioina, aveva tutte le necessarie facoltà di ricevere da’ Reggini, a titolo di prestito, una sovvenzione di ducati novecento di oro, alla ragione di dieci gigliati a ducato. E per sicurtà dell’università di Reggio diede in pegno e consegnò a’ detti sindaci la terra e castello di Motta San Quirillo. La qual pignorazione faceva entrar la nostra università in tutte le ragioni della regia Corte, e prenderle possesso di tutte le munizioni, col diritto di riscuoter le collette, d’imporre a sua posta nuove gabelle o altre gravezze, e di aver cognizione e giurisdizione su tutte le cause civili e criminali; tranne la potestà del ferro. (jus gladii) e l’imposizione di pena afflittiva della persona, di che solo dovesse serbarsi il diritto al Capitanio della città. Era inoltre data potestà a’ Reggini di eleggere il capitanio e castellano di essa Motta, e tutti gli altri uffiziali. E fu convenuto che de’ novecento ducati dovessero esser pagati al Valguarnera ducati trecento fra otto giorni dal dì della consegna che se ne faceva all’università; e degli altri ducati seicento fossero pagati centocinquanta al castellano della detta Motta, ed i rimanenti quattrocento cinquanta allo stesso Luogotenente dentro il mese di agosto. Egli nondimeno riserbava il diritto al governo di poter riscattare la terra e castello pignorato per il medesimo prezzo, con questo però che prima di tutto dovessero restituirsi all’università i ducati novecento, e pagarlesi i gaggi di tutto il tempo che durava la pignorazione alla ragione di ducati ventiquattro per mese. Si stabiliva eziandio che la Motta San Quirillo non potesse mai sottrarsi al dominio di Reggio; e quando piacesse alla regia Maestà di ricomperarla, avesse sempre a rimanere in demanio, e sotto la capitania della detta città. [p. 218 modifica]

Fu anche preveduto che se per qualche causa fortuita la città di Reggio non potesse pagar la somma sopradetta, e la Corte, per farsela pagare, vedesse la necessità di gravar nuove tasse a carico della città, e della Motta pignorata, in tal caso restasse all’università il diritto di poter tassare anche i Chierici ed i Giudei ed obbligarli a contribuirvi.

Questo contratto fu, giusta la consuetudine di quel tempo, rogato davanti la porta maggiore della Cattedrale, ed assistito e sottoscritto da Fra Domenico Vescovo di Mileto, Roberto de Mirabello, Maso de Sinopolo, Galiotto Barilla, Riccardo Cacumada, Bonifazio Morello, Giudice Nicolò de Malgeri, Roberto Brancati, e Marco Illio; ed ebbe senza indugio la ratificazione sovrana.

Concesse altresì Alfonso a’ Reggini che potessero far contrattazioni di compra e vendita nel vicino regno di Sicilia, e trarre da quivi per loro uso ferro, frumento, legna, cuojame, panni, carni, vini, animali e qualunque altra cosa loro necessaria, con totale immunità ed esenzione di qualunque diritto di dogana, di portolanìa, di ancoraggio, e di ogni altro regio dazio ordinario o straordinario.

VI. Intanto la corte di Giovanna era travolta dalle segrete pratiche del gran Siniscalco Caracciolo (1423). Costui, cominciando ad adombrarsi della crescente potenza di Alfonso, ispirò i proprii sospetti a Giovanna, e la indusse ad avvicinarsi a Lodovico d’Angiò. Quindi tra la regina ed Alfonso vennesi a guerra aperta, ed ella fu da lui assediata nel Castel Capuano, dove si era rinchiusa; ma Sforza Attendolo, mossolesi in ajuto da Benevento, strinse Alfonso a scioglier l’assedio, e liberò la regina. Ma costei dovette fuggir da Napoli, e mettersi in salvo in Aversa. Allora rivocò l’adozione fatta di Alfonso, e tutti i diritti, che a costui aveva conceduti, li trasferì a Lodovico III d’Angiò, a cui, chiamandolo da Roma in Napoli, diede titolo e dominio di Duca di Calabria. A condizione però che, dopo cacciati gli Aragonesi dal Regno, egli ancora se ne partisse, nè fino a che ella viveva potesse senza licenza di lei tornare in Italia, nè facesse amministrare che per via di uffiziali il suo ducato di Calabria. Questo trattato tra Giovanna e Lodovico fu ratificato dal papa.

Nondimeno dopo varie vicende Alfonso dovette allontanarsi dal Regno, e navigar per la Spagna, ove lo chiamavano le torbide cose di quel paese, ed il desiderio di ottener la libertà di suo fratello, prigioniero del re di Castiglia. Lasciò a guardia di Napoli suo fratello Pietro di Aragona, dal quale i Reggini ottennero di non esser astretti ed obbligati a pagare alcun diritto di biada, di erbaggio, e di affi[p. 219 modifica]datura in tutto il territorio del loro distretto da Capo Bruzzano a Bagnara. Giovanna per la partenza d’Alfonso riprese fiato; e Lodovico III venne ad Aversa in soccorso della regina, la quale indi a non molto ricuperò Napoli (1424). Lodovico fu fatto partecipe della sovranità, e prese il titolo di re. Molte città del regno però si tennero ferme alla fede di Alfonso; e fra queste fu Reggio. Ma questa sventurata città, nella quale quanto crescevano le sciagure tanto sminuiva la popolazione, era ridotta quasi deserta. Circondata dalle armi angioine, che avevano condotto all’ultimo esizio il suo territorio, non pareva più dessa. Le molte migliaja de’ suoi fuochi, che si erano ristretti a mille trecento verso il 1421, dopo cinque anni, cosa lagrimevole a dirsi, eransi attenuati a meno di duecento! E contuttociò i cittadini, per serbar fede ad Alfonso che continuava a stare nella lontana Spagna, sofferivano con maravigliosa pazienza e longanimità le percosse delle armi di Lodovico, che voleva ad ogni costo dominarli.

In mezzo a tanti profondi mali ed irreparabili, i Reggini trovarono conforto (1426) nel capitanio Giovanni de Ultrera, uomo di grandi virtù, il quale rintuzzando con esimio coraggio la baldanza nemica, non lasciava di sollevare colle sue opere e colla dolcezza della sua amministrazione l’afflitto popolo reggino, ed era benedetto da tutti. E quando i sindaci della città Marco de Salerno e Galgano Filocamo si recarono in Valenza per rappresentare ad Alfonso lo stato infelicissimo della patria loro, questo re si commosse al racconto de’ loro dolori, patiti in gran parte per la loro divozione verso di lui. E a farli contenti ordinò che l’Ultrera, giusta il loro desiderio, rimanesse capitanio di Reggio per tutta la sua vita. Abolì il diritto della scannatura e del sigillo, concesse la nuova fiera di S. Marco da durare dal 25 aprile al 10 maggio, e confermando quella di agosto, dispose che invece di quindici durasse giorni diciassette.

VII. Reggio pertanto, battuta nell’agosto del 1427 dalle armi angioine comandate da Ulpiano Caracciolo e da Battista Capece, cadeva finalmente; ma tutti gli Aragonesi, ed i cittadini loro aderenti si chiudevano e resistevano nel castello, animati e tenuti fermi dall’egregio capitanio Giovanni de Ultrera. Altri cittadini fuggirono in Sicilia, altri furono imprigionati, altri morti nella sanguinosa mischia, durante l’assalto e l’espugnazione della città. Altri finalmente rimasero in città sotto la fede loro data dal Caracciolo e dal Capece che non sarebbero in nulla nulla molestati, purchè riconoscessero Lodovico d’Angiò, e dessero loro mano all’oppugnazione del castello. E Lodovico ordinò che sinchè questo non fosse conquistato, [p. 220 modifica]i Reggini della colletta generale di once venti per ogni quota non dovessero pagarne che cinque, a fine di poter far fronte alla riedificazione e riparazione delle mura, e di esser alleviati dalle cotidiane spese che sostenevano per la dimora degli armigeri che tenevano in assedio il castello. Ma questo però, manchevole di viveri e di munizioni, non potè lungamente durare; ed il presidio aragonese ne patuì la resa verso la fine di settembre.

Lodovico III, dimenticando tutto il passato, diede ampio indulto (1428) a’ Reggini che avevano impugnato le armi contro di lui, richiamò i fuggitivi, e cancellò a favor loro qualunque penal procedimento. Dopo tale indulto i sindaci di Reggio Roberto de Logoteta ed Alberico Illio si condussero presso il re in Aversa, ed ottennero la conferma de’ vecchi privilegi della città, e l’approvazione de’ seguenti:

1.° Che atteso lo stato deplorabile di Reggio, questa, in vece delle once sessanta che pagava della colletta generale, ne contribuisse solo quarantacinque, cioè quindici per ogni quota, in luogo di venti. Più, che a’ Giudei fosse rimesso il diritto della mortafa che pagavano alla regia corte.

2.° Che il capitanio della città non potesse procedere ex officio contro l’università ed i cittadini in modo alcuno, sotto qualsivoglia pretesto, anche nei casi dalla legge permessi.

3.° Che in qualunque pena criminalissima, tranne solo il reato di lesa maestà, fosse lecito alle parti sino alla sentenza diffinitiva desistere, trattare e pacificarsi. E che per tal sentenza il capitanio non potesse esigere dalle parti che tre tareni, quando vi fosse luogo a pena di sangue, e di morte naturale o civile; nelle altre ingiurie o due o un tareno, secondo la qualità delle medesime.

4.° Che i mastridatti non potessero ricevere per diritto di fideiussione e cassazione che grani cinque, e che nulla si pagasse per chiamata di testimoni, o per presentazione d’istanze.

5.° Che niun cittadino potesse esser condotto prigioniero nel castello per qualunque delitto, eccetto quello di lesa maestà; ma che il carcere fosse nella città, secondo il grado e la condizione delle persone.

6.° Che il capitanio ed il castellano non fossero dello stesso paese.

7.° Che la città fosse sempre ed in perpetuo di regio demanio.

VIII. Lodovico III venne poi nel suo Ducato di Calabria, e fermò l’ordinaria dimora in Cosenza; donde con diploma del venti febbrajo 1428 garantì la libertà di commercio tra Reggio e Messina, a patto però che in caso di rottura di guerra con Alfonso re di Sici[p. 221 modifica]lia, si facesse prevenzione a’ trafficanti quindici giorni prima, perchè potessero mettere in sesto e cautela i loro affari in Messina ed in Reggio. Nel corso di questo stesso anno Lodovico, in compagnia del Conte di Terranova, di Antioco de Fuscaldo, di Tristano de la Aillec, e di Guglielmo de Villanova, si condusse da Cosenza a Reggio. E per dare a questa città un argomento della sua alta benevolenza, le confermò la nuova fiera franca da tenersi fuori Porta Mesa, nel luogo ov’era la chiesa di San Marco, da celebrarsi annualmente in aprile, dalla vigilia di San Marco per otto giorni consecutivi. Poi fece ritorno in Cosenza, e nell’anno appresso (1429) ordinò che le galee veneziane che navigavano ogni anno da Venezia in Fiandra o verso Ponente, tanto nell’andata che nel ritorno, qualora prendessero porto in Reggio, potessero sbarcare le lor merci, e venderle o permutarle in città, senza alcuna gravezza di dogana, o di qualsisia altra imposizione o gabella.

Ivi a due anni (1431) recarono in Cosenza presso Lodovico III i sindaci di Reggio Aloisio Sparella e Nicola de Mirabello, ed ottennero:

1.° Che l’università di Reggio potesse per proprio uso pubblico imporre nuove gabelle, e rinnovar le vecchie come meglio le paresse conveniente.

2.° Che i cittadini reggini fossero immuni di qualunque diritto di biada (jus blavae) in tutte le terre e luoghi della provincia di Calabria.

3.° Che potessero per loro uso introdurre in città sale e ferro, o nel nome privato o in quello dell’università, con franchigia di ogni diritto di dogana e di portolania.

4.° Che i cittadini non fossero tenuti nè alla pena, nè all’ammenda del danno clandestino, eziandio se criminalissimo.

5.° Che, a maggior incremento della città, tutti quelli che venissero ad abitarvi fossero considerati di fatto cittadini, e godessero de’ suoi privilegi; e che i loro beni situati altrove nelle provincie restassero liberi da qualunque imposizione o aggravio per parte dei cittadini di que’ luoghi. E posto il caso che soffrissero molestie dai Baroni o da altre Università, allora i sindaci di Reggio potessero far rappresaglia a lor grado ed impunemente.

6.° Che niun capitanio o altro uffiziale potesse far bandi senza averli fatti legger prima a’ sindaci della città, per veder se ne’ medesimi si contenesse alcuna cosa opposta a’ privilegi locali. Ed ove ciò fosse, il capitanio dovesse astenersi dall’emanazione e pubblicazione di tali bandi. [p. 222 modifica]

7.° Che nessun cittadino potesse esser arrestato e detenuto in carcere prima della pubblicazione del processo.

8.° Che, come al solito, fosse sola attribuzione dei sindaci il vigilar su’ pesi e sulle misure, ed intorno ad altre novità che accader potessero dentro e fuori città.

9.° Che ogni capitanio, nell’entrar in uffizio, dovesse dar giuramento di conservare ed osservare i privilegi, le consuetudini ed i costumi della città; e stare personalmente a sindacato al termine della sua gestione.

10.° Che i cittadini per loro difesa, e non ad altrui offesa potessero asportar l’armi proibite per tutto il Regno.

11.° Che il capitanio fosse nazionale e non estero, e che nè direttamente nè indirettamente potesse esercitare altra carica simul et semel.

12.° Che il capitanio non potesse ordinare il carcere contro alcun cittadino senza il consiglio e l’assenso dell’assessore e dei mastrodatti.

13.° Che i creati de’ capitanii, dopo sonate due ore di notte, non potessero camminar per la città senza la presenza del mastrogiurato.

14.° Che i debitori cittadini non potessero esser convenuti arrestati o molestati da’ creditori fuori dell’ambito della città.

15.° Che se incontrasse esservi così empio cittadino che scientemente ardirebbe tentare alcuna cosa contro la patria, i privilegi, le consuetudini, gli usi, i buoni costumi, e la giurisdizione de’ sindaci, fosse costui privato issofatto del privilegio della cittadinanza, ed ottenuta la regia licenza, cacciato anche dalla città.

16.° Che se mai avvenisse, per qualunque causa, che la città fosse sottratta al regio demanio, e data in governo e potestà di baroni, potessero i suoi cittadini, in ogni tempo, impugnar le armi, resistere, uccidere con ogni mezzo di difesa, senza incorrer per questo in pena alcuna.

IX. In questo medesimo anno nacquero talune controversie per cagion di confine tra i Reggini e que’ di Santagata. Di che andata notizia a Lodovico commise a Fra Martino de Hispania, Vicario dell’Arcivescovo di Reggio, che intorno a tali fatti prendesse le debite informazioni, e ne compilasse il processo. E che intanto, sino a che la quistione non fosse diffinita, restasse proibito a’ contendenti di venir ad alcuna via di fatto, o con armi, o con qualunque altro mezzo. Da questa regia Lettera, diretta da Lodovico al Vicario de Hispania, apparisce che allora Reggio e quasi tutto il suo distretto era travagliato dalla pestilenza, poichè vi si leggono queste parole: [p. 223 modifica]vigente in civitate nostra Regii, et toto fere districtu, peste. Ma da queste parole in fuori, niun altro documento abbiam potuto rinvenire che ci dia i ragguagli di tal pestilenza, e della sua durata.

Da quanto è stato da noi narrato ne’ precedenti capi si fa manifesto in che maniera que’ Sovrani cercassero di largheggiar di benefizii e di privilegi verso la città di Reggio, per consolarla alcun poco delle interminate desolazioni che le inferivano nel contrastarsene il dominio.