Storia di Reggio di Calabria (Spanò Bolani)/Libro primo/Capo secondo
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CAPO SECONDO
(Dall’Olimp. LXX alla LXXIX, 4.)
I. Tirannide di Anassila il giovine: suoi disponi. Fa guerra a’ Zanclei. Zancle è occupata, e ceduta a’ Samii. II. Rottura tra Anassila ed i Samii. Zancle cade in potere di Anassila, che le muta il nome in Messena. Si fa tiranno di Reggio e di Messena. Toglie Scilla a’ Tirreni: prende per moglie Cidippe, figliuola di Terillo, tiranno d’Imera. Apprensioni delle repubbliche Italiote. III. Alleanza di queste repubbliche. Reggio è esclusa dalla Magna Grecia. I Pitagorici, espulsi da Crotone, sono accolti da Anassila in Reggio. IV. Pitagorici stranieri: Pitagorici Reggini. Anassila ottiene in Atene il premio nella corsa delle bighe. Ippi, storico reggino. V. Anassila s’ingerisce nelle faccende di Sicilia. Vengono nell’isola i Cartaginesi. Fatti di Anassila nella Magna Grecia. Sua morte. VI. Micito e suo governo. Colonia di Pissonte. Mala signoria de’ figliuoli di Anassila. Reggio ritorna allo stato libero.
I. A egregii fatti aveva l’animo Anassila. (Olimp. 70, 4. av. Cr. 497.) E’ voleva, la prima cosa, che Reggio divenisse grande e temuta, perchè ciò servisse principalmente a far grande e temuto il suo nome, e la sua famiglia. Voleva di supremo reggitore della repubblica tradursi in tiranno; e il suo disegno fu mutato in atto: tanto gli fu amica la fortuna. Soprattutto egli non poteva sofferire che la vicina Zancle, con cui era in continue brighe, gli stesse dirimpetto, a poche miglia, come uno stecco negli occhi; e gli faceva mille anni poter metterle le unghie addosso. Nè la cagione mancò.
Mentre la Magna Grecia era tutta assettata a governo di popolo, la Sicilia all’incontro stava alla discrezione del tirannico reggimento. Tiranno di Zancle era Scite; il quale non solo era in guerra coi Siculi circostanti, ma era inoltre in aperta discordia con Anassila. Scite, per contrapporsi ad Anassila ed a’ Siculi, chiamò dall’Ionia in suo ajuto talune bande di Samii, che in quel tempo stesso, sconfitti dalle armi persiane, fuggivano dalla loro patria unitamente ai Milesii, la cui città era testè caduta in potere di Dario. Ma innanzi che costoro arrivassero, Anassila, andato loro incontro presso le rive locresi, tanto seppe dire che persuase Cratàmene, loro capo, di congiungersi a lui, e correre all’oppugnazione di Zancle; mentre Scite intento a battere una città de’ Siculi, aveva lasciato Zancle sguernita di quasi tutto il presidio. Promise Anassila altresì di ceder loro l’imperio di quella città, come subito se ne fossero fatti padroni. Venuto a conoscenza di Scite che i Samii, tirati da Anassila, avevano corso da nemici il territorio di Zancle, prese modo alla sua salvezza, chiedendo solleciti ajuti al suo alleato Ippocrate, tiranno di Gela. Ma quando Ippocrate fu prossimo a Zancle colle sue milizie, circonvenuto dalle sagaci pratiche di Anassila, anche a questi si unì contro Scite: e ad un animo Samii, Gelesi e Reggini mossero a’ danni di Zancle. La quale, non avuto nè tempo, nè bastevole forza alla difesa, ivi a non molto piegò all’impeto dei nemici, e si rese a discrezione. Lo sventurato Scite fu incatenato, e chiuso nella rocca d’Inico presso Gela. Zancle col suo territorio fu data in dominio a’ Samii, co’ quali Anassila ed Ippocrate fermarono lega.
II. Non fu lunga però l’amicizia tra Anassila ed i Samii. I vecchi rabbuffi tra due potenti vicini mai non si spengono; anzi viapiù prendono forza dal tempo. Questi rabbuffi avevano indotto Anassila il vecchio ad istigare i Messenii contro i Zanclei; questi spingevano testè il giovine Anassila a dar la città medesima a’ Samii; questi cominciavano dappoi ad accendere nel costui animo la smania di ridurre Zancle in sua potestà, togliendola a’ Samii. Consolidando così il suo stato sulle due opposte rive dello stretto Siculo, ben si avvisava aver piana la via alla sua futura grandezza. Tenace nel suo scopo, colse agevole cagione di ottenerne l’effetto. Mosse guerra a’ Samii, i quali rimasero finalmente battuti; (Olimp. 71, 1. av. Cr. 496.) ed il vittorioso Anassila, insignoritosi di Zancle, ne cangiò l’antico nome in Messena, a ricordanza della perduta patria e del nuovo acquisto. Mise in Messena a governarla in suo cambio il reggino Micito, uomo virtuoso e suo fidatissimo familiare. Nè è a dirsi a quanta potenza e floridità siensi sollevate le città di Reggio e di Messena sotto l’energia e l’unità del governo di Anassila. Costui, se facendosene tiranno, tagliò molti nerbi alla pubblica libertà, fece nondimeno gloriosi i due popoli, e ne ampliò il territorio. Messa in ordine un’armata considerevole, cominciò a percuotere nelle navi de’ Tirreni, che solcavano senza contrasto quel mare Italico, a cui da rimoti tempi avevano imposto il loro nome. Per la qual cosa i Tirreni, mal sopportando che altri molestasse loro quel predominio marittimo che avevano conservato per tanti secoli, si spinsero a dar la caccia alle navi di Anassila, uscendo di continuo dalla rada di Scilla, e delle isole Eolie ch’erano da loro occupate. Ma Anassila stette loro contro con imperterrita fermezza, e gli venne fatto al fine di scovarli da Scilla, che fu resa da lui inespugnabile, e posta a baluardo validissimo del territorio reggino contro le incessanti correrie delle navi nemiche, (Olimp. 71, 4. av. Cr. 493.) Così diventò potentissimo; e non a torto le vicine repubbliche Italiote cominciarono ad averne sospetto. Il quale poi s’accrebbe sopra ogni credere, quando seppero gl’Italioti che Anassila aveva chiesta ed ottenuta per moglie Cidippe, figliuola di Terillo, tiranno d’Imèra; (Olimp. 72, 1. av. Cr. 492.) e che oltre a questo si era stretto in lega con parecchi tiranni della vicina Sicilia. Imperciocchè a’ più avveduti allora fu chiaro, come Anassila, accostandosi alle tirannidi, avvisasse non solo a confermarsi tiranno di Reggio, ma premeditasse eziandio di condurre, aspettando tempo e luogo, alla sua soggezione le contigue repubbliche della magna Grecia.
In memoria del dominio sulle due città dello stretto, Anassila ordinò che in esse fosse battuta una moneta, la quale recasse incisa sul diritto l’effigie di lui, e sul rovescio una lepre: forse a dinotare che i Samii e gli altri suoi nemici, erano fuggiti come lepri all’urto delle sue valorose armi.
III. Gl’Italioti, per premunirsi contro gli arditi disegni di Anassila, fecero tra loro una più stretta alleanza; ed in odio alla costui tirannide, cacciarono Reggio fuori de’ termini della Magna Grecia; nella quale intanto gravissimi avvenimenti si maturavano. Una parte di popolo, concitata e diretta in Crotone dal demagogo Cilone, uomo di grande stato e nemicissimo de’ pitagorici, percuoteva improvvisamente nel loro sinedrio, ch’era collocato nella casa di Milone, e lo incendiava. I pitagorici, cacciati dalla furia popolare, (Olimp. 72, 1. av. Cr. 492.) fuggivansi da quella Crotone, alla cui splendida rinomanza si erano tanto adoperati colle loro scuole, e co’ loro pratici ammaestramenti. A questo tumulto de’ Crotoniati consentirono ancora le contermine repubbliche; dove i popolani, aizzati da’ demagoghi, corsero addosso a’ Pitagorici ed a’ nobili e potenti cittadini, i quali per lo più erano educati a’ sani principii di quella scuola. E questi scandali avvenivano, perchè le esagerazioni democratiche davano a credere alla illusa moltitudine, che la scuola di Pitagora deferisse occultamente al principato de’ magnati, in detrimento della libertà popolare.
De’ pitagorici, che dovettero uscir di Crotone, parte si sparse per la Grecia e per le isole dell’Egeo, parte fu ricevuta in Reggio sotto il patrocinio di Anassila. Nè sembri strano che costui abbia fatto buon viso a questi filosofi; i quali al postutto, repubblicani moderati essendo, non amavano al certo la tirannide di lui. Ma Anassila astuto e previdente sapeva quanto un dì più che l’altro s’invogliassero delle forme largamente democratiche le repubbliche Italiote: e sapeva altresì essere scopo e carattere della scuola italica non favoreggiare la democrazia, ma propugnare l’aristocrazia moderata, contemperando per bel modo l’ordine colla libertà, e col dovere il diritto. Considerava perciò Anassila come in questo caso importerebbe al suo concetto l’attraversare per il mezzo delle massime pitagoriche le ulteriori eccedenze della democrazia. Ed aggraduendosi ad un tempo i ricchi ed i patrizii, giudicava che gli sarebbe da costoro agevolato il cammino al soggiogamento di quelle repubbliche. Quindi i Pitagorici, ricevuti in Reggio con molte dimostrazioni di onore, vi apersero con piena sicurezza il loro sinedrio. Ma la nostra storia dirà che ad Anassila non tornò bene il suo conto; perchè all’incontro la pitagorica sapienza, traendo frutto da tanta protezione, fece rivivere la Repubblica di Reggio; distrasse le città italiota dalle intemperanze democratiche, richiamandole a’ non fallaci precetti della morale, del diritto, della libertà; e rimosse dalla Sicilia e dalla Grecia le tirannidi.
IV. De’ Pitagorici stranieri, che ributtati da Crotone elessero di dimorare in Reggio, conosciamo Fantone, Polinnasto da Fliunte, Diocle da Fliunte, Echècrate, e Senòfilo da Calcedonia. Nè furon pochi i Reggini che in varii tempi si vennero educando alla scuola pitagorica di Reggio, e che poi salirono in grido di chiarissimi Filosofi e legislatori. Fra costoro sono annoverati Aristocle, Demòstene, Mnesibulo, Ippàrchide, Atosìone, Eùticle, Opsimo, Calàide, Aristòcrate, Pitòne, Glàuco, Teetèto, Tèocle, Elicaòne, Teerèto, ed Androdamante, di ciascuno de’ quali diremo a suo luogo.
Anassila alle gravi cure dello stato sapeva tramezzare que’ civili esercizii, che nobilitano l’animo, e la persona. Al modo de’ tiranni della Sicilia, si cimentò varie volte nell’aringo de’ giuochi che celebravansi in Grecia, e tornò vincitore dalla corsa della biga tirata da mule. Ed il vecchio poeta Simonide ne cantò in versi bellissimi la vittoria. La quale volle Anassila che fosse tramandata alla posterità con una moneta che in tal circostanza fece coniare in Reggio e in Messena. Essa rappresentava sul diritto la testa del tiranno, e sul rovescio le mule appajate alla vincitrice biga.
Comechè parecchi uomini illustri e nelle lettere e nelle arti abbian dovuto fiorire in Reggio durante la signoria del secondo Anassila, non pervennero a noi, in tanta oscurità di tempi, che poche e non compiute notizie dello storico Ippi, tra quegli antichi assai celebrato.
V. Ma la domestica gioja di Anassila fu perturbata dalle inattese nuove venutegli di Sicilia. Terillo, tiranno d’Imera e suocero di Anassila, era stato cavato di seggio da Terone, tiranno di Agrigento, il quale sottomise a sè quella città. Nè furono a tempo gli ajuti speditigli da Anassila, i quali prima che fossero giunti a Terillo, questi era già fuggitivo; e non trovando alcuno efficace sostegno presso i Sicilioti, prese il partito di recarsi in Cartagine, ed implorare qualche sovvenzione da quella repubblica. Anassila mandò pure ai Cartaginesi suoi commissarii a pro di Terillo, (Olimp. 75, 1. av. Cr. 480.) promettendo di allearsi con loro per rivendicare al suocero il perduto stato. Ed in argomento della lealtà della sua profferta diede in ostaggio a’ Cartaginesi due suoi figliuoli. Cartagine già da tempo antichissimo teneva un piede in Sicilia nell’importante città di Lilibeo, ove avevano dedotto una colonia i Fenicii, da’ quali traevano origine i Cartaginesi. Quindi assai volentieri quella repubblica colse una sì favorevole occasione d’ingerirsi nelle cose dell’isola; e promise all’esule Terillo i chiesti sussidii, dichiarando guerra a Terone. Al che tanto maggiormente si deliberarono i Cartaginesi, in quanto che n’erano incoraggiti da Serse.
Questo re di Persia, già allestitosi con gagliardo e numeroso esercito a precipitarsi sulla Grecia, aveva indotto i Cartaginesi a fare altrettanto contro la Sicilia e la Magna Grecia. E queste due imprese furono messe ad atto nel medesimo tempo, acciocchè i popoli invasi non avessero alcuna comodità di soccorrersi a vicenda. Ed infatti a’ Greci, che contro Serse domandavano ajuti a Gelone, questi si scusò che, preoccupato com’era a difendere lo stato suo dalla invasione cartaginese, non ne poteva far nulla.
In Amilcare figliuolo di Annone fu commessa la condotta della spedizione cartaginese in Sicilia. Alle genti cartaginesi Anassila congiunse le sue, composte di Messenii e di Reggini. Ma Gelone, tiranno di Siracusa, collegato con Terone che gli era suocero, affrontò impavido i nemici ad Imera, (0limp. 75, 1. av. Cr. 480.) e sì gli urtò che diede loro una memoranda sconfitta. Ed è singolare che in quella stessa giornata che in Sicilia nella battaglia d’Imera i Cartaginesi erano sdruciti e rotti da Gelone, in quella stessa Leonida combattesse alle Termopili la meravigliosa battaglia contro i Persiani. E quando poi Gelone divisava, dopo la vittoria d’Imera, di condurre ajuti a’ Greci contro Serse, gli giunse la grata novella che il re persiano, disfatto a Salamina dalle collegate armi greche capitanate da Temistocle, era già uscito di Grecia e di Europa. Ma diverso fu il guiderdone che consegui a’ due illustri guerrieri da’ loro magnanimi fatti: a Gelone in Sicilia la corona di re; a Temistocle in Grecia l’ostracismo.
Come sia rimasto mortificato Anassila da tale infortunio, niun ne domandi. Gli stessi tiranni di Sicilia odiavano ormai un uomo che non aveva avuto ritegno di chiamar lo straniero all’oppressione dell’isola; e le repubbliche Italiole abbominavano un tiranno, che covava il proposito di sormontare sulle ruine della loro libertà. Ma Anassila ritornò di Sicilia in Reggio, determinato di sfogarsi sulle repubbliche sopradette della dura lezione che Gelone gli aveva dato. E cominciò a dar loro incessanti travagli, e ne mandava a male il territorio ad ogni picciol pretesto. Provocò i Crotoniati a battaglia, e n’usci vincitore; ma non gli venne fatto, com’era suo pensiero, d’impadronirsi della loro città. Poscia invase il territorio di Locri, e gli fu compagno nell’impresa il suo figliuolo Leofrone ancor giovanetto. Ed avea così strettamente assediata ed investita la città che i Locresi, condotti allo stremo, (Olimp. 76, 1. av. Cr. 476.) avevano fatto a Venere il disperato voto di consacrarle il fior verginale di tutte le loro giovinette, se loro succedesse di liberarsi delle armi di Anassila. Ma per loro buona ventura al campo di Anassila giunse Cromio, nunzio di Gerone re di Siracusa, a significargli che, se gli era cara la sua amicizia, dovesse levarsi dall’assedio di Locri, della quale era esso re alleato. Anassila cedette, ma di assai mala voglia, alle rimostranze di Cerone; e Locri fu salva. Ma il tiranno di Reggio ebbe tale increscimcnto dell’essergli impedito aver Locri, che ne morì di crepacuore, dopo aver signoreggiato per diciotto anni i Reggini. Questo fatto di Anassila contro i Locresi fece loro un’amarissima e profonda impressione; onde procedette che l’antica amicizia co’ Reggini, così gloriosamente raffermata nella battaglia della Sagra, si convertisse in odio invincibile, e contribuisse in processo a far cadere nelle mani di Dionisio, non queste due sole repubbliche, ma le rimanenti della Magna Grecia.
VI. Anassila, come si appressò al termine della sua vita, commise la tutela de’ due suoi figliuoli, ancor minori di età, al reggino Micito. Il quale per le sue eccellenti virtù tanto entrò nell’amore de’ Reggini, che amarono meglio di esser da lui governati, quando avrebber potuto riformarsi a quel pristino e più largo reggimento che Anassila aveva loro tolto. Certa cosa è nondimeno che dopo la morte di questo tiranno scadde in parte la prosperità di Reggio, non per difetto del governo di Micito, ma perchè gli animi de’ cittadini, aspirando a cose nuove, ed all’antico assetto popolare, cominciavano a partirsi, ed a mettersi in umore. E pare inoltre che a ciò non avesse dato poca materia la guerra tra i Tarentini ed i Japigii per controversie dì confini; alla quale cooperarono anche tremila de’ Reggini, che erano alleati de’ primi. Imperciocchè in una decisiva battaglia rimanendo i Japigii vittoriosi, (Olimp. 77, 1. av. Cr. 472.) i Reggini ed i Tarentini furono profligati, e presso che tutti quali morti, quali fatti prigionieri. Da questo avvenimento in fuori, che oscurò tanto o quanto il governo di Micito, in tutti gli altri suoi fatti si comportò con tanta rettitudine ed integrità, che i Reggini ed i Messeni lo ebbero sempre in grande estimazione e riverenza. E così rilevò poi le sorti di Reggio, che potette dedurre da essa città parecchie colonie, fra le quali è ricordata <span class="errata" title="Pissunti">Pissunte, che a’ Romani fu Bussento. (Olimp. 77, 2. av. Cr. 471.)
Non erano ancora usciti di pupillo i figliuoli di Anassila, quando Cerone, re di Siracusa, a sè invitatili, esortolli ad emanciparsi dalla tutela di Micito, a chiedergli ragione dell’amministrazione tenutane, ed a rivocare nelle loro mani lo stato. Costoro, tornatisi a casa, fecero in conformità de’ consigli avuti, e Micito ch’era uomo dabbene ed onestissimo non volle opporsi alle pretensioni di que’ giovani. Ma convocato il consiglio de’ cittadini, diede loro così netto conto di tutto, e con tanto bel modo, che quanti eran presenti ebbero a restare ammirati di tanta sua fede e giustizia. E gli stessi figliuoli di Anassila, come ciò videro, si ripresero e pentirono del fatto loro, e volevano a ogni modo che Micito, dimenticando l’affronto fattogli, ripigliasse il governo dello stato. Ma costui non volle più impacciarsene, e preso quanto aveva di suo, dopo nove anni d’irriprensibile governo, (Olimp. 78, 2. av. Cr. 467.) si partì dalla sua patria, proseguito dal favore di tutti i Reggini. Egli andò per la Grecia, e ritiratosi in Tegea nell’Arcadia, vi passò onorato e riverito l’avanzo della sua vita.
Dopo la costui partenza occuparono il governo i figliuoli di Anassila, e se ne divisero la signoria. L’uno, che era Leofrone, rimase tiranno di Reggio; l’altro, il cui nome è ignoto, ebbe lo stato di Messena. Ma giovani essendo, e di rotti costumi, si diedero a bruttare la loro vita d’ingiustizie, di concussioni, e di stupri. Questo fece che i Messeni ed i Reggini, sopportate tali infamie per lo spazio di sei anni, si unissero in un volere, e li cacciassero a rumor di popolo fuori delle loro città. E schiantando senza dimora le forme della tirannide, riassunsero la loro primiera libertà ed indipendenza. (Olimp. 79, 4. av. Cr. 461.) Ed è qui da por mente che nel tempo medesimo quasi ogni città di Sicilia espulse i suoi tiranni e si costituì a libero stato, adottando ad un dipresso riti ed istituzioni conformi a quelle delle città italiote.