Storia delle scienze agrarie/III/5
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Capitolo quinto - La macchina propaga nelle campagne la rivoluzione industriale
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CAPITOLO QUINTO
La nuova protagonista della civiltà dell’Occidente
Nel crepuscolo del Settecento pervade la società europea la sensazione che il secolo venturo segnerà una trasformazione senza precedenti tra quante l’umanità ha conosciuto dalle proprie origini, il balzo verso una società di cui la fantasia di filosofi e saggisti intravvede i tratti essenziali, che l’immaginazione più fervida non è in grado di disegnare compiutamente. Se sul terreno dei rapporti civili è la Rivoluzione francese a imporre la percezione della frattura che sta compiendosi tra ere diverse, in tutte le sfere in cui l’uomo manipola esseri o forze della natura le conquiste del metodo sperimentale diffondono il convincimento che, perfezionate le proprie fondamenta, la scienza e la tecnologia si apprestino a trasformare il volto della civiltà: dai loro progressi si attende il rinnovamento delle procedure per lo sfruttamento dei giacimenti minerari e delle terre coltivate, nuove macchine per convertire le materie prime in manufatti e le derrate in alimenti, apparecchi capaci di accelerare le comunicazioni, preparati per la cura di malattie fino ad allora incurabili.
La tecnologia, sottolineano i cultori di storia delle scienze, ha operato le prime conquiste prima di fondare le proprie realizzazioni sulla conoscenza delle leggi correlative. Dell’utilità economica, civile o militare di ogni congegno capace di moltiplicare la forza degli uomini, consentendo di ridurne il numero rispetto a quello necessario all’esecuzione manuale, sono state consapevoli le società del passato, i cui governanti hanno sempre perseguito, seppure con lucidità ed efficacia diversa, gli obiettivi del progresso tecnologico. Ne forniscono la prova il prestigio goduto dagli architetti ad Atene e a Roma, gli onori tributati, nella Rinascenza, a progettisti e inventori, il più insigne tra i quali, Leonardo, è stato l’artista più conteso, con doni e favori, del secolo.
Tra gli impulsi che eccitano, sulle soglie dell’Ottocento, la passione collettiva per la tecnologia, le conquiste dell’ingegneria negli ultimi decenni del Settecento accendono un’incontenibile febbre delle macchine, che investe l’agricoltura dilatandosi dai focolai originari a paesi nuovi. Trasformandosi in processo tumultuoso, la creazione di apparecchi per effettuare le operazioni colturali si unisce alla chimica e alla fisiologia vegetale nella sommatoria di forze che, dopo i preludi settecenteschi, imprimono alla rivoluzione agraria l’impeto con cui trasformerà, nel secolo successivo, il volto delle campagne.
Seppure processi destinati ad interagire, una differenza capitale distingue l’alba della meccanizzazione agricola dal primo cammino percorso, tra il Seicento e il Settecento, dalle discipline biologiche propedeutiche dell’agronomia: tanto è lento e laborioso, infatti, il procedere delle scienze naturali per decifrare le leggi della nutrizione delle piante, e tanto è tortuosa, segnata da errori e contraddizioni, la loro conversione in pratiche colturali, tanto è repentina e irrefrenabile la diffusione degli apparecchi concepiti per sostituire il braccio dell’uomo nelle fatiche dei campi. Se è sostanzialmente esiguo, si deve rilevare d’altro canto, il numero degli artefici delle conquiste della biologia vegetale, frutto di un impegno sperimentale e deduttivo in cui pochi ingegni si levano irraggiungibili dalla folla degli emuli, la schiera di quanti contribuiscono a diffondere le macchine nelle campagne è tale da rendere vano qualsiasi proposito di elencazione esauriente, aleatorio ogni impegno di ordinare invenzioni e innovazioni secondo un ordine cronologico inconfutabile.
In una sfera, infatti, in cui l’invenzione estemporanea e la realizzazione occasionale possono assicurare allo sviluppo di un apparecchio un contributo equivalente ad un progetto formalmente ineccepibile, in cui la traduzione commerciale di un’idea geniale è condizionata alla disponibilità di capitali e all’abilità imprenditoriale, facoltà che non sempre si associano alla creatività tecnologica, in cui la curiosità pubblica può favorire il ritrovato bizzarro rispetto a quello funzionale, la schiera dei pretendenti al riconoscimento della storia è inevitabilmente più numerosa di quello degli scienziati che competono per l’individuazione della funzione del fosforo nella nutrizione delle piante, o per la comprensione del meccanismo della fotosintesi.
Se il carattere empirico delle innovazioni meccaniche spiega il numero dei fabbri, piccoli costruttori, ingegneri e magnati di ferriere che si cimentano nella congegnazione di nuovi apparecchi, a sospingere l’introduzione della macchina nelle campagne sono due ordini di ragioni le cui radici risalgono ai processi che rimodellano, tra il Settecento e l’Ottocento, la società europea, le prime intrinseche al mondo agricolo, le seconde inerenti all’espansione delle manifatture. Logicamente distinguibili, esse costituiscono volti complementari della medesima realtà: la metamorfosi industriale dell’Occidente, quel contesto di popoli di cui sono parte, ormai, con le nazioni del Vecchio Continente, la Confederazione americana e alcuni insediamenti europei minori. E’ ragione intrinseca alla sfera agraria la rarefazione delle braccia disponibili al lavoro dei campi che si manifesta tra l’ultimo scorcio del ’700 e l’alba dell’800. Le cause del sono identificabili nel tributo di uomini preteso dalle guerre napoleoniche, le prime guerre di popoli della storia moderna, nell’attrazione dell’economia urbana, nell’emigrazione verso le colonie: qualsiasi sia lo stimolo, o la costrizione, che allontana i contadini dalla terra, la loro partenza impone ai proprietari di sopperire rendendo più produttivo il lavoro di coloro che rimangono, nelle cui mani debbono porre attrezzi più efficienti.
E’ ragione estrinseca al contesto agrario la ricerca di sbocchi produttivi nuovi da parte delle ferriere, che stanno moltiplicando con rapidità le proprie capacità produttive, protese quindi ad ampliare il volume della produzione accrescendo tanto il numero dei congegni costruiti quanto quello dei pezzi fabbricati di ogni congegno. Emblematico, nella gamma delle apparecchiature che si diffondono nelle campagne, il caso della macchina a vapore, destinata ad assurgere a simbolo della meccanizzazione dell’agricoltura: nata come apparecchio minerario, dall’azionamento delle pompe di miniera è applicata al trasporto dei materiali su binari, quindi introdotta nelle filande. Viene sperimentata, contemporaneamente, sul mare e nei campi, nella sfida dei costruttori per porne la potenza a servizio degli armatori commerciali e delle marine militari, dei proprietari fondiari e degli affittuari.
L’interesse con cui magnati del commercio marittimo, ammiragliati e imprenditori agricoli accolgono, nonostante la rudimentalità, i primi prototipi, conferma l’esistenza di potenzialità mercantili tali da ripagare i sacrifici del costruttore che riesca a congegnare un modello funzionale, la meta che ravviva la passione dei progettisti e dei fonditori.
Interagendo nell’alveo di una società in rapida trasformazione, la rarefazione della manodopera agricola e l’ampliarsi dei cataloghi dei costruttori alimentano un processo che assume rapidità senza paragone maggiore della diffusione delle innovazioni che concorrono, sul terreno agronomico e su quello zootecnico, al compimento della rivoluzione agraria. Tanto che se possono affaticare lo storico della scienza gli interrogativi sul ruolo relativo, nella nascita dell’agricoltura moderna, della teoria della rotazione di Tull, della dottrina degli ordinamenti di Thaer e delle scoperte fisiologiche di De Saussure, al cultore delle realizzazioni della tecnica è difficile sottrarsi alla suggestione che la svolta storica dell’agricoltura si compia, repentinamente, tra la diffusione di un aratro di acciaio che al tiro di una pariglia rivolta una superficie doppia di quella che poteva lavorare un aratro tradizionale trainato da due buoi, e la comparsa di una mietitrice a traino equino capace di sostituire l’opera di venti mietitori.
Macchine e costruttori nell’agone del mercato
Ho sottolineato la pluralità dei protagonisti della meccanizzazione dell’agricoltura: per completare il disegno del processo, al rilievo del loro numero deve aggiungersi quello della vastità del teatro sul quale si confrontano, e della molteplicità delle operazioni colturali per svolgere le quali concepiscono e perfezionano le proprie creature. Seppure spetti all’Inghilterra, infatti, il titolo di epicentro del grande moto, lo scenario della meccanizzazione si dilata alla Francia, al Belgio e alla Germania, varca l’Oceano abbracciando, al procedere della colonizzazione, le praterie di Midwest statunitense e quelle del Canada, penetra progressivamente nella Pianura padana, in Cecoslovacchia, in Svezia.
Tra i lavori rurali per la cui esecuzione i primi costruttori si impegnano ad accrescere, con i propri apparecchi, l’efficienza del lavoro, prima quello umano e quello animale, che sostituiscono, poi, con quello termomeccanico, assistiamo alla progressiva inclusione di tutte le operazioni agrarie fondamentali. Al primo posto l’aratura, il più gravoso tra i lavori campestri, alla cui funzionalità sono diretti gli sforzi per il perfezionamento del tradizionale aratro a trazione animale, che si rivolgeranno, successivamente, allo studio di attrezzi di concezione originale da associare alle macchine a vapore.
Destinate a perfezionare l’opera dell’aratro, possiamo collocare al secondo posto le apparecchiature per i lavori colturali complementari e per la semina, al terzo quelle per la trebbiatura, tradizionalmente una delle operazioni agrarie più dispendiose di lavoro umano, cui si aggiungeranno, successivamente, le macchine per la mietitura, per la brevità del tempo in cui deve essere compiuta la strozzatura più grave del calendario dei lavori annuali. Gli apparecchi per la sua esecuzione costituiranno, peraltro, il precedente ingegneristico di quelli per la falciatura dei foraggi, che avranno origine dall’applicazione del sistema di taglio congegnato per i cereali all’esecuzione di un lavoro alquanto più semplice.
In ognuno dei terreni sui quali si sviluppa il cimento dei costruttori, idee, tentativi e soluzioni si confrontano, si contrappongono e si integrano alimentando, per ciascun apparecchio, un processo evolutivo che interseca quello di apparecchi diversi: le macchine destinate alle differenti operazioni prendono forma, così, nello scambio incessante di parti e di accorgimenti, in una competizione ingegneristica e mercantile che non di rado sfocia in dispute accese per la priorità di un’invenzione e per la sua più proficua traduzione commerciale. Nel fervore creativo, fabbricanti geniali sacrificano patrimoni nel tentativo di imporre modelli che gli agricoltori non sono pronti ad accogliere, imprese e società costruttrici si dissolvono con rapidità equivalente a quella con cui altre ne sorgono per sfruttare un brevetto geniale, o inseguire una nuova chimera.
In questo scenario di turbinoso dinamismo segnano le tappe dell’evoluzione delle singole macchine i concorsi sul terreno promossi dalle società agrarie, prima tra tutte la Royal agricultural society inglese, nel corso dei quali le speranze degli inventori sono coronate dagli applausi dei gentiluomini in bombetta e dal premio assegnato dalla giuria, o si dissolvono per la rottura di un coltro, l’arresto di un congegno costato anni di paziente fatica, la cui macchinosità si impone impietosamente al primo cimento.
Esibiti in azione nelle gare in campo, o schierati nelle esposizioni, aratri e trebbiatrici, seminatrici, falciatrici e trinciaforaggi registrano, ad ogni edizione, perfezionamenti e integrazioni: cadute quelle che non apportano alla macchina autentici vantaggi, sommandosi quelle che ne migliorano la funzionalità, la fisionomia di ciascun apparecchio si evolve, ad ogni esposizione, acquisendo efficienza e sviluppando maggiori capacità operative. Mentre se ne definisce la forma, e ogni macchina diventa più produttiva, più sicura e maneggevole, i costruttori ne moltiplicano i modelli per soddisfare la domanda di aziende di dimensioni diverse, nelle quali si debbano affrontare condizioni differenti di clima, di suolo, di pendenza.
Le tre età della meccanizzazione
Nel caleidoscopio delle innovazioni, e nell’agone della concorrenza, tracciare la cronologia esauriente dell’evoluzione di ciascun apparecchio è impresa che presuppone la considerazione di elementi oltremodo numerosi, in più di un caso di rilievo opinabile, tanto da rendere improbabili risultati univoci, il cui perseguimento esulerebbe, comunque, dalle mete dell’itinerario che stiamo percorrendo. Ove si eccettuino, peraltro, le vicende dell’aratro, al cui perfezionamento contribuisce una folla di costruttori di nazioni diverse, tanto da rendere assolutamente soggettiva la scelta delle innovazioni nella cui progressione scandirne l’evoluzione, per le altre macchine fondamentali non è difficile ordinare le notizie reperibili nelle cronache contemporanee e nelle storie della tecnica nella successione di tre fasi che è possibile distinguere, per ciascun apparecchio, con sufficiente precisione.
Possiamo includere nella prima i congegni ideati dai precorritori, quei cultori di agronomia che, identificata l’esigenza, economica e sociale, di effettuare meccanicamente un’operazione, per la sua esecuzione immaginano apparecchi la cui concezione, qualsiasi perfezionamento venga loro apportato, è inadeguata al compimento del lavoro al quale sono preordinati, per la cui effettuazione dovranno essere ideate macchine diverse. Possiamo fissare la seconda in coincidenza delle esperienze che conducono alla realizzazione del meccanismo capace, per l’intrinseca funzionalità, di costituire il nucleo dell’apparecchio di cui l’inventore si è proposto la costruzione. Nella terza fase si susseguono le integrazioni che, senza alterare il congegno essenziale, completano l’insieme della macchina potenziandone l’efficienza, consentendone l’azionamento mediante motori diversi, rendendone più agevole e più sicuro il controllo da parte degli operatori.
Volendo tratteggiare un disegno che, pure rischiando lo schematismo, cerchi di cogliere i tratti comuni delle vicende delle macchine fondamentali, si può collocare la prima tappa nell’arco dei cinque decenni che separano la congegnazione, da parte di Tull, degli strumenti per la "nuova agricoltura", la zappa da cavallo e la seminatrice, ed il fervore creativo di cui offrono la testimonianza i viaggi di Young nelle contee del Regno Unito. Contemporaneamente agli ultimi viaggi di Young, costruttori privi dell’aureola del segretario del Board of agricolture realizzano meccanismi che nei lustri successivi riveleranno la propria straordinaria funzionalità imponendosi come il fulcro di macchine fondamentali.
Si svolge entro uno scenario alquanto più ampio dell’Inghilterra e della Scozia la seconda tappa del processo, che si inoltra nel primo quarto dell’800: seguendo, peraltro, traiettorie diverse e peculiari, l’aratro e gli altri apparecchi essenziali compiono il passaggio tra le due fasi secondo modalità che alle analogie combinano significative differenze.
Nel crepuscolo del Settecento la costruzione dell’aratro conosce la transizione dal lento sommarsi di innovazioni anonime alla creazione di modelli che saranno diffusi e conosciuti col nome del costruttore. Contemporaneamente alle innovazioni pratiche si registra il primo studio sulla geometria del versoio, con l’enucleazione della teoria fisico-meccanica che orienterà l’evoluzione futura dell’attrezzo. Per le altre macchine fondamentali, la seminatrice, la trebbiatrice, la falciatrice-mietitrice, negli stessi decenni si verifica l’emergere, dal caleidoscopio degli apparecchi ideati da precursori fantasiosi, la maggior parte priva di ogni potenzialità operativa, del congegno che esegue in modo originale il lavoro che gli è affidato, il congegno che, integrato da organi complementari sempre più efficienti, rappresenta il nucleo delle macchine che trasporranno l’operazione cui sono destinate dalla sfera del lavoro manuale a quella del lavoro inanimato.
A fare del tornante tra i due secoli l’età della grande svolta della meccanizzazione agraria, l’epoca della trasformazione della produzione dei campi da successione di dure fatiche dell’uomo e degli animali ad alternanza di operazioni eseguite mediante congegni meccanici, concorre, con l’evoluzione dell’aratro e la costruzione delle prime seminatrici, trebbiatrici e mietitrici funzionali, un evento di risonanza clamorosa nelle cronache dell’epoca, di importanza essenziale nella storia della tecnica: il compimento dei primi tentativi, nessuno coronato, ancora, dal successo, di applicare alle macchine agricole la forza del vapore.
Come la realizzazione delle apparecchiature agricole fondamentali, anche la costruzione di macchine capaci di fornire, per il loro azionamento, energia inanimata con cui sostituire, moltiplicandone l’entità, quella animale, è preceduta da esperienze al confine tra la congegnazione tecnologica e il sogno di creature meccaniche fantastiche : precisati gli obiettivi ingegneristici, l’aspirazione si concretizzerà negli apparecchi che un’evoluzione turbinosa imporrà, oltre la metà del secolo, nelle pianure europee e americane, estendendo nelle campagne il dominio delle forze della Rivoluzione industriale.
I nuovi aratri, creature della metallurgia
Schematizzando un processo il cui polimorfismo ne impedisce la coartazione in un tracciato lineare, nella propria Storia della tecnologia Derry e Williams fissano la data dell’abbandono, da parte dell’aratro, della sfera dell’empirismo artigianale, e del suo ingresso in quella dell’ingegneria meccanica, nel 1789, l’anno in cui Robert Ransome costruisce a Ispwich un modello al cui telaio, realizzato interamente in ghisa e acciaio, si applica, attraverso viti che ne consentono la sostituzione, un versoio di ferro sagomato all’atto della fusione, e temprato in grado diverso sulla faccia anteriore e su quella posteriore.
Nonostante l’autorevolezza della fonte, all’evento, che pure apre l’era in cui l’evoluzione dello strumento sarà scandita dal deposito dei brevetti delle manifatture rivali, una considerazione meno semplicistica impone di attribuire un ruolo meno clamoroso: la sostituzione del ferro, o, secondo le parti, dell’acciaio, al legno della struttura dello strumento, è processo il cui inizio deve essere collocato, infatti, non pochi anni prima della fusione del versoio di Ransome. Il giorno della fusione dell’artigiano di Ispwich esso ha già compiuto un lungo cammino, sospinto da una molteplicità di contributi tale da rendere l’assegnazione di una paternità univoca ingenua semplificazione.
Altrettanto discutibile della data appare la ragione addotta dai due studiosi a giustificare l’importanza che attribuiscono alla realizzazione, di cui identificano l’elemento rivoluzionario nella procedura ideata da Ransome per la fusione del versoio, che il fonditore inglese esegue con l’impiego di sabbia nella matrice, quindi dell’acqua salata nella tempra: i due accorgimenti imprimono un grado diverso di durezza alle due facce, che offriranno, così, una resistenza differente all’attrito del terreno, un espediente che assicura che la stessa usura del metallo mantenga affilato il taglio. Senza disconoscere l’importanza della riduzione delle resistenze, che a parità di forza consente di aumentare la velocità di avanzamento, né i vantaggi dell’eliminazione del periodico ricorso al fabbro per affilare coltro e vomere, la conseguenza più significativa della sagomatura degli aratri attraverso la fusione deve individuarsi, infatti, nella possibilità di realizzarne in un solo corpo gli elementi essenziali, il vomere e il versoio, e, soprattutto, di unire al versoio uno stelo con cui fissare il corpo lavorante alla bure, un espediente che rende superflua la presenza del dentale, l’elemento centrale di tutti gli aratri di legno.
Sarà l’eliminazione del fulcro dei modelli tradizionali ad innescare quella trasformazione dello strumento che ne muterà la struttura fino a rendere irriconoscibili, negli aratri industriali che si diffonderanno nel corso dell’800, i discendenti degli arnesi di legno che hanno rivoltato le zolle nei lunghi secoli dall’alba dell’agricoltura. Proporranno l’emblema della metamorfosi gli aratri polivomeri a bilanciere costruiti, a metà dell’Ottocento, per la trazione funicolare, apparecchi che uno spazio stellare separerà dagli arnesi artigianali che negli stessi anni, non di rado in campi attigui, continueranno a rivoltare le zolle nelle aziende contadine. Ma se è nella connessione del corpo lavorante agli elementi di supporto e di trazione che deve identificarsi l’innovazione fondamentale assicurata dalla fusione in metallo all’evoluzione dell’aratro, la trasformazione dell’attrezzo non può essere considerata evento autonomo, siccome l’analisi meccanica impone di identificarne il precedente nella fabbricazione dei vomeri del coltivatore, l’attrezzo per la rimozione del suolo negli interfilari delle colture seminate a righe. Di dimensioni minori, costituito da una lama orizzontale portata da uno stelo che funge, insieme, da supporto e da coltro, il vomere del coltivatore viene realizzato in ferro fino dalle proprie origini, negli anni in cui Tull ne fa il simbolo delle nuove tecniche agrarie. Presentano la forma che gli organi lavoranti del coltivatore conserveranno, immutata, fino al nostro tempo, le tavole del New System of practical Husbandry, il trattato di agronomia che John Mills pubblica a Londra nel 1767.
Costituisce strumento analogo al coltivatore l’estirpatore, l’attrezzo dotato di una serie di vomeri per realizzare la rimozione di tutta la superficie del suolo, non solo delle strisce interposte tra le file di piante operata dal coltivatore. Destinato ad un lavoro più profondo, il secondo arnese richiede organi lavoranti più solidi, la cui costruzione possiamo considerare un passo ulteriore verso la fabbricazione dei vomeri metallici degli aratri.
Sperimentata nella costruzione dei coltivatori e degli estirpatori, la fusione di un supporto solidale agli organi lavoranti viene applicata, per coerente estrapolazione, nella fabbricazione degli aratri. Un aratro in cui vomere e versoio sono fissati alla bure da montanti di ferro è proposto dalle tavole della stessa opera di Mills, forse il primo testo agronomico che testimonia la conversione del dentale in una semplice sbarra di ferro fissata alla bure, tramite gli stessi montanti, in modo da formare un solido rettangolo. Un rettangolo, o un trapezio, formato da quattro segmenti metallici, costituirà la struttura essenziale della maggior parte degli aratri leggeri dell’Ottocento.
Rappresenta innovazione ancora più radicale della sostituzione del dentale con una struttura quadrilatera la sua eliminazione, che verifichiamo in alcuni modelli più arditi, dei quali costituiscono un esempio gli aratri fissati da Young nelle tavole del Six Months Tour trough the North of England, containing an account of the present state of Agricolture, stampato nel 1770, ed in quelle del Farmer’s Tour trough the East of England, il viaggio di cui pubblica la relazione l’anno successivo. La registrazione dell’impiego di attrezzi simili, realizzati in regioni diverse da costruttori differenti, è la prova eloquente della vastità del moto attraverso il quale si sviluppa, nella patria della meccanica agraria, l’evoluzione dello strumento.
Procedono parallelamente alla metamorfosi della struttura dell’aratro tre processi collaterali. Il primo è la moltiplicazione dei modelli destinati alle esigenze di regioni particolari, il secondo la costruzione di attrezzi nella cui conformazione qualcuno degli elementi dell’aratro classico è sostituito da organi di concezione nuova, o alle parti canoniche viene aggiunto qualche organo originale, il terzo la realizzazione di arnesi dalla struttura dell’aratro, ideati per assolvere a funzioni diverse dalla rottura e dal rivoltamento della superficie del suolo.
Sono tre aree di evoluzione dell’attrezzo connesse, necessariamente, da correlazioni molteplici. Non è privo di significato, al fine di distinguere il frutto delle modifiche successive degli antichi archetipi dal prodotto del nuovo impegno ingegneristico, rilevare che alla fine del Settecento la maggior parte degli aratri impiegati nelle campagne europee è ancora contraddistinta dal nome di una regione: seppure più di uno sia stato modificato applicando nuovi espedienti costruttivi, la denominazione prova che sono ancora gli arnesi che nelle stesse regioni hanno rivoltato le zolle nei secoli. I testi di agronomia descrivono l’aratro del Lincolnshire e quello dell’Oxfordshire, quello della Champagne e quello della Provenza, quello del Macklemburg e quello della Slesia. Sono rari, invece, gli strumenti identificati col nome del costruttore: la prova della percezione, da parte degli osservatori, del loro carattere di creature prive di ascendenti nella tradizione.
Espressione di una frattura profonda negli orizzonti del lavoro dei campi, la denominazione personale si afferma, al procedere della trasformazione, con estrema lentezza: a metà del ’700 la menzione, nei testi agronomici, dell’aratro del signor Duhamel è circostanza isolata piuttosto che prova di un uso comune. Alla fine del secolo, qualora sia menzionato, il nome del costruttore si associa ancora, ordinariamente, a quello della regione di cui egli abbia migliorato l’attrezzo tradizionale: Thaer esalta, ad esempio, la versione di Dikson dell’aratro di Norfolk. Lo stesso Thaer menziona, peraltro, due strumenti che identifica soltanto col nome del costruttore: l’aratro di James Small, autore, nel 1784, di un Treatise on Ploughs and Wheel Carriages, forse l’aratro più celebre progettato nel crepuscolo del Settecento, e quello di John Bailey, autore, anch’egli, nel 1795, di un Essay on the Construction of the Plough. Sarà frutto dei progressi della metallurgia, che assicurano ai costruttori una libertà di disegno sempre più ampia, la diffusione di denominazioni che, abbandonato ogni riferimento geografico, ascriveranno il modello a colui che lo ha ideato, un fenomeno che si dilata nel primo quarto dell’Ottocento e si intensifica ulteriormente in quello successivo, per assumere, nel terzo, una connotazione nuova: l’identificazione di ogni modello col nome della manifattura che lo ha prodotto. La fabbricazione di aratri si sarà trasformata, ormai, in produzione industriale, e il nome con cui ogni nuovo attrezzo sarà proposto agli acquirenti non sarà più, necessariamente, quello del creatore, ma quello dell’industriale che ne ha depositato il brevetto, che lo costruisce e lo vende con il proprio marchio.
Possiamo includere nella categoria degli aratri la cui conformazione presenta varianti rispetto alla struttura tradizionale quelli a doppio vomere, quelli voltaorecchio, quelli a disco. Dopo il curioso precorrimento cinquecentesco di François Beroalde, che ha incluso un attrezzo polivomere nel proprio Theatrum instrumentorum, di un aratro a vomere doppio hanno proposto il primo disegno le tavole dell’English Improver improved di Walter Blith, una delle opere più singolari della letteratura agronomica britannica del Seicento. Archetipo ancora rudimentale dello strumento, l’arnese di Blith è il semplice risultato della connessione di due aratri amputati entrambi di alcuni elementi: ad un attrezzo privo di stiva, collocato anteriormente, è fissato un secondo arnese dalla bure raccorciata in proporzione alla distanza prevista tra i vomeri.
Nelle tavole con cui correda le proprie relazioni di viaggio, anche per gli aratri doppi Arthur Young registra la pluralità delle soluzioni che prendono forma nelle province inglesi. Tra i modelli che ha osservato, nel dedica un’attenzione particolare a quello che ha fatto costruire lord Somerville. E’ con un attrezzo acquistato in Inghilterra di forma analoga a quello del patrizio britannico che effettua una serie di esperienze sulla funzionalità del bivomere Albrecht Thaer. Riferendone i risultati, nella seconda parte dei Principj, l’agronomo tedesco asserisce che ad un unico vantaggio, il migliore sfruttamento della forza di una pariglia di vigore esuberante per un aratro ordinario, l’attrezzo unisce svantaggi tanto numerosi da privare il suo impiego, nella generalità delle circostanze, di qualsiasi convenienza.
Al rigetto dell’agronomo tedesco corrisponde un dato inequivocabile: l’aratro polivomere resta, nell’età delle costruzioni di legno, mera esercitazione per cultori di agronomia. Sarà solo l’eliminazione del dentale consentita dalla fusione del versoio, l’innovazione in cui abbiamo identificato la chiave della rivoluzione dell’aratro, a rendere possibile, a metà dell’Ottocento, il disegno di attrezzi a doppio corpo di concezione assolutamente nuova: la sagomatura della bure in forma sinusoidale, con la fissazione, mediante staffe, degli steli di versoi diversi, permetterà di aumentare gli elementi lavoranti con un appesantimento della struttura portante irrilevante rispetto all’accrescimento della capacità di lavoro. Le riserve di Thaer saranno risolte alla radice.
Dell’aratro voltaorecchio, lo strumento in grado di rivoltare la terra tagliata, secondo la necessità, sulla destra o sulla sinistra, il mezzo di maggiore praticità per l’aratura "in piano", propongono modelli sostanzialmente simili le Planches dell’Encyclopédie di Diderot e le tavole annesse alla voce Charrue del Cours di Rozier. Ad entrambi gli attrezzi la possibilità di mutare il senso di rivoltamento della zolla è assicurata dalla presenza, su ambedue i lati del dentale, di un gancio e di un foro cui può essere fissata una tavola, che funge, secondo il lato cui sia applicata, da versoio destro o sinistro, determinando il rivoltamento delle zolle su uno o sull’altro lato dell’attrezzo.
Dell’impiego di strumenti analoghi in Italia fornisce la prova la memoria pubblicata, sugli Annali di Re, dall’ingegner Franceschi a commento delle modifiche apportate da don Zappoli, parroco di Gaggio, all’aratro simmetrico di impiego tradizionale tanto a settentrione quanto a mezzogiorno degli Appennini.
Sarà dalla combinazione delle caratteristiche essenziali degli aratri voltaorecchio e degli aratri polivomero che a metà dell’Ottocento prenderà corpo l’attrezzo che assurgerà a emblema dell’evoluzione degli strumenti per la lavorazione del suolo dell’età del vapore: l’aratro polivomero a bilanciere costruito per percorrere, trainato da un cavo, i campi che le prime vaporiere, fonti di energia di cospicua potenza ma incapaci di locomozione, non saranno in grado di solcare. Rappresenta termine intermedio tra gli strumenti destinati al taglio e al rivoltamento della zolla nella forma caratteristica dell’aratro e quelli che verranno costruiti per la rimozione del suolo secondo modalità diverse l’aratro con versoio a disco, un attrezzo che compie il proprio ingresso nel novero degli arnesi agricoli nel corso dell’Ottocento, di cui possiamo identificare l’ascendente nei coltri a disco che hanno sostituito quelli a coltello in alcuni aratri impiegati nel Seicento: proponendone il primo esempio nelle proprie tavole Blith lo ha definito coltro olandese. Nelle tavole con cui correda la relazione del proprio viaggio nello Yorkshire, Young propone il disegno di un aratro di forma alquanto primitiva, dotato di un coltro a disco di acciaio, che dice impiegato nelle aree palustri della costa, dove la sua diffusione può facilmente spiegarsi con l’incapacità di un coltro ordinario di recidere l’agglomerato torboso costituito dal suolo dei fens.
Arnesi per i lavori complementari
Possiamo iscrivere nella categoria degli strumenti dalla struttura analoga a quella dell’aratro ma destinati ad operazioni essenzialmente diverse la gamma multiforme degli assolcatori, gli attrezzi a versoi simmetrici impiegati per tracciare un solco riversando la terra rimossa su entrambi i lati, utilizzati nella rottura delle praterie o nel tracciamento dei fossi per drenare i terreni soggetti a ristagni. Nella varietà dei modelli, un interesse particolare presentano quelli costruiti per il tracciamento di trincee di profondità maggiore, destinati a affrontare sforzi che la struttura di un aratro ordinario non sarebbe in grado di sopportare. Alla ricerca di espedienti capaci di rafforzare gli organi portanti senza aggravarne eccessivamente la mole e il peso, i costruttori dell’ultimo scorcio del ’700 applicano all’attrezzo tiranti di ferro che collegano le parti essenziali fissandosi ai punti di incontro dei vettori che interagiscono durante il lavoro: quello prodotto dal traino, la resistenza del terreno, la forza di approfondimento, le reazioni laterali: una soluzione di indubbio rilievo per l’evoluzione meccanica dello strumento.
Non costituiscono una diramazione quanto, piuttosto, una diversione dall’albero genealogico del più antico degli strumenti agrari, i congegni ideati per realizzare meccanicamente lo stesso lavoro che l’uomo svolge con la vanga e con la zappa, due strumenti che differenzia dall’aratro la destinazione ad un’operazione discontinua, consistente nella reiterata infissione della lama nel suolo e nella successiva applicazione di una forza che si esercita, nella forma della leva, in direzione dell’operatore nel caso della vanga, in senso opposto in quello della zappa. La natura discontinua del lavoro dei due strumenti comporta, evidentemente, un dispendio di energia maggiore di quello richiesto per rimuovere lo stesso volume di terra con l’aratro: la concentrazione dello sforzo consente, tuttavia, di eseguire le due operazioni utilizzando una fonte di energia, le braccia di un uomo, incapace di erogare la forza necessaria a rivoltare, mediante un aratro, zolle di dimensioni identiche.
La prima macchina concepita per realizzare il lavoro della vanga viene disegnata, nel 1822, da M. J. Roberts: le notizie disponibili non precisano la fonte di energia mediante la quale l’inventore intendesse azionarla. Alla costruzione di una vangatrice affideranno le proprie speranze i costruttori più dubbiosi sulla funzionalità dell’aratura funicolare: i prototipi dell’apparecchio si moltiplicheranno, dopo la metà del secolo, in rapporto speculare alla diffusione degli aratri destinati ad essere azionati da una locomobile, alla dimostrazione della loro efficienza, a quella, che le sarà correlata, della rigidità dei loro limiti.
Un apparecchio capace di trasformare la forza di una macchina a vapore nel lavoro di una serie di zappe viene concepito, nel 1813, da Richard Trevithick, uno dei pionieri della locomozione ferroviaria, che non pare avere mai realizzato, però, il progetto. Il primo prototipo sarà costruito, nel 1842, da James Smith. Negli anni successivi anche questo genere di macchina conoscerà un’autentica esplosione di modelli e di brevetti, che proporranno un’alternativa ulteriore all’aratro per il migliore sfruttamento della potenza del vapore.
A fronte delle difficoltà intrinseche delle realizzazioni che si prefiggono, la rudimentalità dei mezzi a disposizione non consentirà alla maggior parte degli inventori di intraprendere la fabbricazione in serie degli apparecchi ideati, che assicureranno loro, comunque, un posto tra i precursori delle macchine che solcheranno, nel Novecento, i campi dei sei continenti.
Geometria e meccanica dell’aratura
Mentre ferve, tra le officine, i campi ed i recinti fieristici, la competizione tra gli ideatori dei nuovi strumenti per la lavorazione del suolo, con clamore minore una cerchia ristretta di studiosi ricerca la chiave geometrica per la sagomatura razionale dell’organo essenziale dell’aratro, il versoio. Nella molteplicità delle varianti apportate allo strumento, tutti i costruttori comprendono, infatti, che è dalla conformazione del versoio che dipende tanto la sua capacità di rivoltare convenientemente la zolla ritagliata quanto l’entità della forza necessaria al suo traino: secondo la diversa forma del versoio aratri di identica struttura possono realizzare, cioè, un rivoltamento di diversa completezza della terra, e, a parità di risultati, imporre un diverso dispendio di energia.
Lo studio della geometria dell’aratro ha i propri precursori, nel corso della prima fioritura settecentesca della meccanica, in John Arbuthnot, l’agronomo inglese per i cui modelli esprime la propria considerazione Young, nello scozzese John Bailey e James Small, autori, abbiamo rilevato, dei primi saggi teorici sull’aratro, e in Thomas Jefferson, il presidente degli Stati Uniti condotto dall’esperienza di piantatore e dal proverbiale eclettismo a dedicarsi, con lucidità ingegneristica, anche agli studi agronomici. In un articolo famoso pubblicato, nel 1774, sul Journal of Phisics, Arbuthnot sostiene che le particelle del suolo sospinte dalla superficie del versoio compirebbero uno spostamento di forma cicloidale, che sarebbe perciò entro una gamma di curve cicloidali che dovrebbe ricercarsi la forma ideale per sagomare l’organo essenziale dell’attrezzo. In un saggio egualmente famoso pubblicato, nel 1799, nelle Transactions of the American Philosophical Society, e tradotto in francese per il Musée d’histoire naturelle, Jefferson propone, invece, l’ipotesi che il rivoltamento della terra prodotto dall’aratro sia la risultante dell’azione di due cunei, rappresentati, rispettivamente, dal vomere e dal coltro, che taglierebbero simultaneamente il terreno secondo piani ortogonali sospingendo, insieme, la fetta separata di lato e verso l’alto.
Rilevato che, affidandone la realizzazione alla pratica dei fabbri, del versoio più funzionale non potrà mai ottenersi una copia identica, l’eclettico presidente americano suggerisce di fissare in una forma di legno la matrice sulla quale modellare quante copie si voglia di un versoio di cui sia stata sperimentata la funzionalità: al fine, quindi, di ottenere la matrice ideale, ha escogitato un ingegnoso procedimento di sagomatura geometrica, che illustra servendosi di una tavola che riproducono, a gara, i manuali agronomici coevi.
Predisposto un prisma irregolare le cui basi siano quadrati di lato diverso, due dei cui lati siano ortogonali alle basi, due obliqui, in corrispondenza ai lati obliqui verrà estratta dal prisma una piramide la cui base sarà la base minore del prisma, il cui apice corrisponderà all’angolo della base maggiore del prisma in cui convergono i lati obliqui. Dopo l’asportazione, il solido primitivo si sarà trasformato nella composizione di due cunei solidali dai taglienti indipendenti, aventi due facce prospicienti che si saldano lungo la linea obliqua che congiungeva due spigoli diametralmente opposti del prisma originario. Ai fini del lavoro cui è destinato, la caratteristica essenziale del solido è l’obliquità, rispetto ad un ideale piano verticale, della faccia interna che, collocato su un piano orizzontale il lato esterno del cuneo minore, risulta rivolta verso l’alto.
Immaginando l’ideale procedere nel suolo del doppio cuneo è facile comprendere che esso produrrà la resezione di una zolla di forma prismatica di cui l’avanzamento dell’attrezzo determinerà il sollevamento dal fondo del solco e la traslocazione orizzontale: sommandosi, i due movimenti ne produrranno la rotazione sullo spigolo esterno del cuneo orizzontale. La misura della stessa rotazione sarà superiore a 90 gradi dell’angolo corrispondente all’obliquità della faccia interna del cuneo verticale. Se non sussistesse quell’obliquità, se i due cunei fossero realizzati, cioè, con assi perfettamente ortogonali, il loro moto nel suolo non produrrebbe che il taglio della zolla, la sua rotazione di 90 gradi e il suo spostamento a fianco della posizione originaria: entrambi i lati del taglio si disporrebbero su piani ortogonali a quelli originari, quello orizzontale divenendo verticale, quello verticale orizzontale. Il campo arato assumerebbe l’aspetto di serie di prismi disposti a pettine, un assetto che renderebbe oltremodo ardua l’esecuzione dei lavori successivi. La rotazione superiore a 90 gradi sospingerà, invece, ogni prisma di terra a lasciare la posizione di equilibrio verticale, e a cadere fino ad adagiarsi, obliquamente, su quello adiacente. Usando le misure proposte da Jefferson, l’inclinazione laterale risulterà di 20,5 gradi rispetto alla perpendicolare, la misura che lo studioso americano reputa la più conveniente per la sagomatura della superficie lavorata. Precisando i criteri per determinare le proporzioni tra le dimensioni del versoio, Jefferson asserisce che la sua ampiezza dovrebbe essere fissata in rapporto alla profondità del solco, un’asserzione di cui dimostrerà l’inesattezza, nel proprio saggio sull’argomento, Raffaello Lambruschini, uno degli studiosi che proseguiranno lo studio del complesso problema geometrico e fisico.
Si fonda sull’ipotesi elaborata dallo studioso americano l’analisi del lavoro di aratura che sviluppa, nella seconda parte dei Principj, Albrecht Thaer, che, affrontando il tema secondo coordinate agronomiche piuttosto che fisico-meccaniche, rivolge un’attenzione preminente alla disposizione in cui il lavoro dell’aratro deve lasciare le zolle rimosse, che devono risultare ordinate come una serie di parallelepipedi rettangolari inclinati, appoggiati sul fondo del campo per uno spigolo, con lo spigolo opposto rivolto verso l’alto, i due restanti addossati alle zolle adiacenti: l’inclinazione sul piano orizzontale del lato tagliato orizzontalmente sarà equivalente alla differenza tra la rotazione effettuata e un angolo retto, quell’angolo di cui Jefferson ha indicato la misura ideale in 20,5 gradi. Tra gli spigoli inferiori dei prismi attigui correranno, sul fondo del campo, altrettanti canali a sezione triangolare, che, ripieni d’aria al termine dell’aratura, alle prime piogge verranno ricolmati d’acqua. Tanto per la presenza degli spazi vuoti sul fondo dei solchi, quanto per l’ampiezza della superficie esposta all’aria e alla pioggia, a ragione della forma spezzata assunta dalla superficie del campo, la disposizione delle zolle al termine del lavoro moltiplica gli scambi e le interazioni tra la terra e gli agenti atmosferici: la ragione, spiega, con lucida penetrazione, Thaer, degli effetti benefici che essa esercita sulla fertilità della terra.
Le metamorfosi di un aratro tradizionale
Sviluppano, integrandoli e modificandoli, i concetti enunciati da Jefferson e da Thaer, i due studiosi che maggiore impegno teorico dedicano, nei primi decenni dell’Ottocento, all’analisi della meccanica dell’aratro, Joseph Alexandre Mathieu de Dombasle, il più illustre degli imprenditori-sperimentatori che suggellano una stagione luminosa dell’agricoltura francese, e Raffaello Lambruschini, il religioso ligure che il dissenso verso la politica papale spinge ad abbandonare gli impegni curiali per dedicarsi, nella proprietà di Figline Valdarno, all’attività educativa e agli studi storici e agronomici.
Le indagini di entrambi hanno il proprio perno, è interessante rilevare, nel medesimo archetipo di aratro, l’attrezzo di impiego generale nelle pianure della Francia settentrionale, dove è noto come aratro del Brabante: è muovendo dal proposito di migliorare l’efficienza di due versioni diverse dell’arnese tradizionale che ambedue si protendono verso originali riflessioni teoriche. Dell’aratro brabantino Mathieu de Dombasle si impegna a perfezionare la forma originaria realizzandone una versione di cui, risultato favorevole il collaudo, affronta la produzione industriale nell’azienda che conduce a Roville, in Lorena, e di cui promuove la diffusione con il proprio nome.
Interessato esclusivamente alla sagomatura del versoio, Lambruschini adotta per le proprie esperienze il modello realizzato, modificando la versione di Machet dell’attrezzo tradizionale, dall’amico Ridolfi. Lo scopo della rielaborazione di Ridolfi è stato l’apprestamento di un aratro per partecipare al concorso bandito, nel 1823, dall’Accademia dei Georgofili, che ha offerto un premio di quaranta zecchini per un’invenzione capace di sospingere il progresso degli strumenti in uso nel Granducato. Fedele al convincimento che l’attrezzo ideale dovrebbe eseguire un lavoro identico alla vanga, un pregiudizio irremovibile tra gli agronomi toscani, a conclusione delle prove la giuria non assegna il premio, attribuendo comunque al miglior attrezzo presentato, che reputa quello del giovane marchese, il vistoso riconoscimento di venticinque zecchini.
Incoraggiato dal successo, sulle orme di Mathieu de Dombasle l’intraprendente patrizio trasforma la fucina del castello in Valdelsa in officina e affronta la produzione in serie dell’attrezzo congegnato: non potendo convertire il primordiale laboratorio in manifattura, lo predispone per la costruzione delle parti in legno e di quelle in ferro più semplici, commissionando a una ferriera inglese i versoi: il primo esempio, probabilmente, di divisione industriale del lavoro nella storia delle macchine agricole. Seppure muovendo da basi tanto prossime, l’impegno dei due teorici dell’aratro è diretto a mete diverse, e profondamente diversi ne risultano, logicamente, gli esiti: ineccepibili in termini fisico-geometrici, ma prive di autentica originalità, le indagini dello sperimentatore francese portano alla creazione di uno degli aratri che riscuoteranno, nel corso del secolo, il consenso più duraturo tra gli agricoltori di paesi diversi; assolutamente originali sul terreno teorico, le indagini di Lambruschini non produrranno, invece, specifiche conseguenze pratiche. Il primo enuclea le idee definite nel corso delle proprie esperienze in un saggio che pubblica, nel 1820, nelle memorie della Société centrale d’agriculture con il titolo De la charrue, lo studioso ligure illustra i risultati del proprio lavoro in un articolo che compare, nel 1832, sul Giornale agrario toscano con il titolo D’un nuovo orecchio da coltri.
Accomunati dalla della genesi tecnologica degli attrezzi cui si dedicano, orientati in direzioni diverse, gli studi di geometria dell’aratro dei due agronomi conosceranno destini radicalmente difformi: seppure non costituisca che un’integrazione del teorema di Jefferson, il saggio dell’autore francese susciterà considerevole risonanza; espressione di ipotesi teoriche assolutamente innovative, quello di Labruschini sarà ignorato dalla cultura agraria europea, tanto che scrittori francesi non privi di prestigio potranno farlo oggetto, a cinque anni dalla pubblicazione, di plagio servile nella fondata presunzione di appropriarsi di un lavoro che l’oblio ha trasformato in fonte di libero attingimento.
I corollari del teorema dei cunei
Pubblicati su una rivista destinata agli studiosi di agronomia, i principi di fisica dell’aratura di De Dombasle raggiungono l’universo dei lettori di cose agrarie nel brillante riassunto che ne propone il primo volume della Maison rustique du XIX siècle, l’enciclopedia agraria di maggior successo tra quante vedono la luce nel corso dell’Ottocento. Diretta da agronomi prestigiosi, Charles François Bailly, Jacques Alexandre Bixio e François Malepeyre, compilata da redattori competenti e capaci di grande chiarezza, dalla prima edizione, stampata nel 1835, all’ultima, pubblicata nel 1865, i quattro volumi che la compongono conoscono oltre sei edizioni. Il loro successo induce i promotori al varo di un periodico, che offrono agli acquirenti come aggiornamento permanete dell’opera, della quale la rivista ripete il titolo, assunto come ragione sociale della casa editrice che per un secolo sarà, in Francia, sinonimo di stampa agricola.
" Si è spesso confrontata l’azione del corpo dell’aratro nella terra- scrivono François Emmanuel Molard e Oscar Leclerc Thouin, gli estensori della seconda sezione del VI capitolo, dedicato all’aratro-a quella di un cuneo; ci se ne farebbe un’idea più precisa immaginando la sua forma derivata da quella di due cunei collegati o piuttosto confusi alla loro base comune. Uno, che il signor Mathieu de Dombasle chiama cuneo anteriore, siccome il suo taglio si trova collocato un poco davanti all’altro, ha una delle facce orizzontale: è il piano che è formato dalla suola, ossia la faccia inferiore del vomero e del dentale, così come dal bordo inferiore del versoio che tocca il fondo del solco. Il taglio del cuneo, che è orizzontale e sullo stesso piano, è rappresentato dalla parte tagliente del vomero:invece di essere collocato perpendicolarmente alla linea di movimento dell’aratro, riceve sempre una posizione più o meno obliqua a questa direzione, ma senza uscire dal piano orizzontale…La faccia superiore di questo primo cuneo, che, per la sua posizione non può che sollevare la striscia di terra dal basso all’alto, è rappresentata in parte dalla superficie superiore del vomero. L’altro cuneo, cioè il cuneo posteriore, è collocato ad angolo retto sul primo; ha una delle sue facce verticale: è quella che scorre contro il terreno sodivo. Questo secondo cuneo per la sua posizione non può che agire lateralmente. La parte posteriore del versoio forma l’estremità della sua faccia destra, nel punto di maggio distanza dalla faccia sinistra.
Se fosse possibile immaginare col pensiero ciascuno di questi due cunei indipendente dall’altro, è evidente che il risultato dell’azione del primo sarebbe di staccare la striscia di terra, di sollevarla e di lasciarla ricadere dietro di sé nella stessa posizione e allo stesso posto che occupava precedentemente, mentre il secondo, al contrario, si limiterebbe a sospingerla di fianco, senza sollevarla né rivoltarla in nessun modo.
Negli aratri più perfetti, ed è proprio ciò che distingue i nuovi da quelli antichi, è stata collegata, o piuttosto sostituita, con una superficie ricurva più o meno regolare, la faccia superiore del cuneo anteriore e la faccia destra del cuneo posteriore, così da condurre insensibilmente, e con la minore resistenza possibile, la striscia di terra dall’estremità anteriore dell’uno a quella posteriore dell’altro.
Dopo avere considerato in questo modo il corpo dell’aratro, risulta più facile determinare il punto preciso del centro della resistenza che esso prova durante l’avanzamento. Si trova: 1° che la linea di resistenza è sullo stesso asse del cuneo, e passa dal suo taglio, se esso agisce dividendo in due parti uguali l’angolo formato dal cuneo, come con lo scalpello a due taglienti… 2° che essa è nel piano della faccia del cuneo, parallela alla linea del moto, passando sempre dal tagliente, … 3° che la potenza motrice, per produrre il maggiore effetto possibile, deve essere applicata nella direzione della linea della resistenza; e 4° che siccome i cunei che compongono il corpo dell’aratro sono della seconda delle due specie, la linea di resistenza del cuneo anteriore sarà necessariamente una linea retta posta sul fondo del solco, a metà della sua larghezza, e parallela alla sua direzione; quella del cuneo posteriore sarà una linea retta posta sulla superficie sinistra del corpo dell’aratro, a metà della profondità del solco e parallela alla sua direzione. Se si immagina un piano passante per queste due linee parallele tra loro, la risultante delle due linee di resistenza si troverà su questo piano e a distanza eguale dalle due linee: il punto in cui questa risultante incontrerà la superficie superiore del vomero e quella del versoio sarà il punto che deve essere considerato come quello di accumulo della resistenza che il corpo dell’aratro prova nella propria azione…
Perché la forza motrice fosse impiegata nell’aratro nel modo più utile sarebbe quindi necessario non solo che essa agisse sul prolungamento della linea di resistenza… ma anche che il motore si trovasse sotto la superficie del suolo alla stessa profondità della linea di resistenza. Sfortunatamente ciò è impossibile.” E’ il lucido sviluppo del teorema dei due cunei di Jefferson, la cui spiegazione del principio da lui stesso enucleato non era stata altrettanto nitida e coerente. Parafrasando, ancora, il saggio di De Dombasle, Leclerc Touin e Molard ricavano dall’articolata analisi meccanica una serie di importanti deduzioni, la più significativa delle quali, autentico corollario della dimostrazione della diversità dei piani sul quale agiscono il vettore del traino e quello della resistenza, è il rilievo dell’impossibilità di evitare, qualsiasi espediente si possa escogitare, che una parte della forza impiegata nella trazione di un aratro sia consumata nella neutralizzazione delle spinte laterali.
Enunciato il criterio essenziale per la terminazione della forza necessaria al traino di un aratro, i due redattori della Maison rustique affrontano l’interrogativo, oggetto di calorosi dibattiti tra gli agronomi contemporanei, della funzionalità dinamica relativa degli aratri a traino diretto e di quelli dotati di avantreno. Rilevato che mentre nei primi la resistenza del suolo, la forza di traino e le reazioni laterali si compongono in un punto dell’attrezzo unito da una linea retta al gancio attraverso il quale si esercita la forza degli animali, che nei secondi quella linea assume, invece, la forma della spezzata, causando, inevitabilmente, l’insorgere di spinte laterali ulteriori, ne desumono che solo qualora esse siano perfettamente neutralizzate un aratro del secondo tipo potrà essere azionato con la forza sufficiente ad uno del primo, ma che in tutti i casi in cui la neutralizzazione sia imperfetta, l’attrezzo più complesso imporrà, per eseguire il medesimo lavoro, uno sforzo tanto saranno maggiori le resistenze da vincere.
“La perdita di forza prodotta dall’obliquità del tiro –leggiamo ancora all’articol II- è dunque al minimo nell’aratro semplice, e la più grande perfezione cui possa giungere, sotto questo punto di vista, l’aratro composto, è di eguagliarlo.” Qualsiasi congegno si immagini, peraltro, per neutralizzare le reazioni prodotte dall’avantreno, per contrastare le quali i costruttori hanno escogitato gli espedienti più ingegnosi, la sua applicazione aumenterà inevitabilmente, il peso dell’attrezzo, decurtando, così, la forza utile per il dirompimento del suolo: seppure teoricamente possibile, l’equivalenza dinamica tra i due strumenti è praticamente irrealizzabile. E’ la dimostrazione fisica del principio enunciato da Thaer, in anni di unanime entusiasmo per la costruzione di complessi aratri ad avantreno, della maggiore razionalità di quelli a traino diretto, che, se dotati di organi di taglio funzionali e di organi di regolazione efficienti, rappresentano, ha affermato lo studioso tedesco, lo strumento più razionale per l’utilizzazione della forza di cui si disponga.
Da una matrice elicoidale il nuovo versoio
Se l’analisi di De Dombasle non costituisce che l’integrazione del teorema di Jefferson, di quel teorema dimostra l’erroneità, proponendo una teoria dell’aratura fondata su basi geometriche originali, Raffaello Lambruschini nella memoria che pubblica, nel 1832, nel Giornale agrario toscano, di cui è condirettore con Cosimo Ridolfi e Lapo de’ Ricci.
Introducendo la propria analisi, lo studioso genovese esamina le finalità agronomiche della rimozione del suolo, che asserisce essere assolte in forma ideale dal lavoro della vanga, un’asserzione inusuale in un saggio di meccanica dell’800, adempimento rituale per un rappresentante della scuola agronomica toscana, da tre secoli impegnata a proclamare l’inimitabile perfezione del lavoro dell’antico strumento: dai raffinati endecasillabi con cui ha descritto l’opera del vangatore Alamanni al bando con cui i Georgofili hanno auspicato l’invenzione di un aratro capace di ripetere la funzione dell’arnese, si distende un filo che lo studioso ligure, figlio adottivo della Toscana agraria, non vuole infrangere.
Dall’enunciazione rituale Lambruschini desume, peraltro, che lo scopo cui deve mirare la costruzione di aratri razionali è il più ampio capovolgimento delle zolle ritagliate, e la loro contemporanea frantumazione, due operazioni che il vangatore compie con gesti successivi, che un aratro funzionale deve compiere con un’azione continua. Da un postulato di impronta tradizionalista ricava, quindi, una deduzione di ingente valore innovativo in una regione il cui aratro caratteristico rimuove il suolo praticamente senza rivoltarlo. A cavaliere degli Appennini, tra la valle del Reno e quella dell’Arno, si distende, infatti, l’area dell’arà, il termine bolognese che definisce uno strumento senza eguali in Europa: un primitivo aratro a chiodo dotato di due orecchie. Assolcatore piuttosto che aratro, è incapace di rompere omogeneamente l’intera superficie di un campo, un’anomalia di cui ha mancato, di sottolineare l’anomalia chi ha tracciato la storia dell’evoluzione dell’attrezzo.
Definito l’obiettivo agronomico del lavoro dell’aratro, quindi i propositi ingegneristici che ne debbono informare la costruzione, l’accademico georgofilo affronta il nodo dell’analisi fisica dell’aratura asserendo che la sua scomposizione nell’azione di due cunei proposta da Jefferson deve reputarsi astrazione erronea: è geometricamente impossibile, infatti, argomenta, trasporre, senza deformazioni, una forza agente nello spazio secondo un moto curvilineo, quale quello imposto dal versoio alle particelle di terra che lo lambiscono, in un numero qualsiasi di forze che si sviluppino su altrettante superfici piane. Chiedendosi, coerentemente ai propositi dell’indagine, quale sia il movimento che un versoio deve imprimere alla superficie della zolla per compierne il rivoltamento, lo studioso ligure risponde che esso consiste in un moto curvilineo che si compie sulla superficie di un cilindro animato, a sua volta, da un movimento rettilineo. Dalla traiettoria delle particelle di terra può desumersi la forma della superficie che ne produce il moto: siccome, per definizione geometrica, la superficie generata da un punto animato da moto circolare entro un cilindro in traslazione orizzontale è una superficie elicoidale, il versoio deve possedere la forma dell’elica. E’ l’impossibilità di trasporre una superficie elicoidale su una superficie piana, spiega Lambruschini, non sono le pure evidenti difficoltà tecniche addotte da Jefferson, a impedire la realizzazione di copie identiche di qualunque versoio con i mezzi disponibili nelle fucine dei fabbri. La ragione postulata dal presidente degli Stati Uniti non sarebbe, quindi, che la traduzione pratica di un principio geometrico più complesso. Con precisa conseguenzialità, al rigetto delle fondamenta teoriche che hanno condotto Jefferson alla realizzazione del proprio modello, l’agronomo di Figline unisce la proposta di un procedimento diverso per la sagomatura di una matrice corrispondente, in termini geometrici, al versoio ideale. Sostituendo alle operazioni eseguite dal predecessore su solidi a facce piane la manipolazione di corpi curvilinei, l’accademico toscano predispone un tronco di cilindro di diametro e di altezza adeguati al versoio che progetta, e delinea sulla sua superficie, quale operazione preliminare, una serie di circonferenze parallele. Tracciati, quindi, su ciascuna base, due diametri ortogonali, tali da individuare due piani che dividano idealmente il cilindro in quattro sezioni rette, unisce, mediante una linea avvolgente metà cilindro, i punti di intersezione con la superficie cilindrica di due diametri paralleli: per le operazioni svolte la linea tracciata risulta una semispirale.
Segato, quindi il tronco cilindrico in due semicilindri secondo il piano individuato dagli stessi diametri, immaginando la futura elica sceglie il lato di cui eseguire l’incavo così da imprimerle un orientamento levogiro, quale è necessario a modellare un versoio destinato a rivoltare la terra sulla destra dell’aratro che avanza. Con una sega ed un’ascia procede, quindi, ad asportare, sul lato prefissato, la parte del solido compresa tra la linea curva e l’asse del semicilindro. Ricava, così, la superficie concavo-convessa costituente l’elica desiderata.
Per trasformare il solido che ha ottenuto nella matrice che si prefigge, esegue, spiega procedendo nell’illustrazione, l’ultima operazione: l’eliminazione di quella parte dell’elica che, posteriormente al punto in cui il suo bordo si eleva perpendicolarmente all’asse del cilindro, imprimerebbe alla fetta di terra una rotazione eccedente quella necessaria ad addossarla con l’inclinazione più conveniente alla precedente. Alla ricerca dell’ampiezza ideale, il religioso ligure dimostra, preliminarmente, l’erroneità dell’opinione di Jefferson, che ha sostenuto che l’elemento cui commisurare l’angolo di rotazione sarebbe l’altezza della zolla: siccome il lato del prisma staccato dal suolo che ruota sul versoio è, invece, la sua base, è alla misura della base, ribadisce Lambruschini, che deve commisurarsi la rotazione necessaria a disporre la zolla rivoltata in posizione di equilibrio. Perché la zolla superi, ruotando, la posizione perpendicolare, e si adagi sul fianco dovrà eliminarsi circa un sesto della lunghezza dell’elica.
Realizzata la matrice, l’agronomo di Figline Valdarno deve affrontare problemi tecnici non meno ardui di quelli geometrici superati per trasporre la figura che ha costruito dal legno al metallo. Confermando l’incompatibilità sancita dalla teoria tra una superficie piana ed una elicoidale, tutti i fabbri cui si rivolge si dimostrano incapaci, con gli strumenti a loro disposizione, di conformare alla matrice, senza gravi deformazioni, una lastra di ferro piana.
Verificato che il risultato migliore che può sperarsi da una bottega artigiana è un vomere di rame, un materiale più facile da modellare, ma altrettanto sensibile agli attriti e all’usura, per condurre a conclusione la propria esperienza, tramite l’amico Ridolfi, dignitario alla corte ducale, Lambruschini ricorre alla collaborazione del direttore dell’arsenale di stato, che fa eseguire, secondo il modello, la fusione del il versoio desiderato. Neppure la sagomatura del versoio esaurisce, tuttavia, gli ostacoli al compimento dell’impresa geometrica e ingegneristica. La connessione del versoio al vomero propone, infatti, nuove difficoltà meccaniche e operative. Montato su un aratro costruito da Ridolfi e collaudato su un suolo alquanto tenace, il nuovo versoio provoca lo sfascio dell’attrezzo, ritardando ulteriormente la verifica della sua funzionalità in condizioni di lavoro opportune.
Quando, finalmente, esse si presentano, l’esito della prova è tale da ripagare il dotto genovese delle cure e degli incomodi affrontati. Migliorata l’applicazione del versoio all’aratro con l’adozione degli accorgimenti suggeriti dai collaudi, al compimento di un’organica serie di esperienze Lambruschini può concludere il proprio lavoro comunicandone i risultati, sulle pagine del Giornale agrario toscano, ai confratelli georgofili. Termina l’articolata relazione proponendo un’analisi dell’azione del versoio sulla fetta di terra rivoltata che rappresenta la conclusione più coerente dell’argomentazione agronomica iniziata con l’illustrazione dell’azione sul suolo della vanga, il complemento applicativo più funzionale del teorema di geometria solida sviluppato nel corso dello studio: "Nell’accennare gli uffizi dell’orecchio -scrive al paragrafo XVII della memoria- ho detto che, sebbene lo sminuzzamento della terra sia generalmente riservato agli altri strumenti agrarj, pur si operava abbastanza dal mio orecchio nell’atto medesimo del rivolgimento della fetta di terra. Io lo aveva già notato come un buon effetto dell’orecchio Machet...e come cosa connessa colla piega medesima che dà alla terra il rivolgimento. Voglio ora spiegarmi meglio. La fetta di terra da rompersi e rivoltarsi ha una data lunghezza, uguale a quella del campo. Ora il suo rovesciamento non si può operare contemporaneamente su tutta la linea della lunghezza.
Se ciò fosse, la fetta si rizzerebbe come un asse che, senza piegarsi nella sua larghezza, girasse sopra una delle costole. Operandosi invece il rivolgimento successivamente, le parti della lunghezza vengono alzandosi e girando una dopo l’altra, come tante bacchette che fossero imperniate in un asse lungo, e staccate una dall’altra. Se ne può vedere un’immagine nelle linee segnate sulla superficie spirale della matrice del mio orecchio...esse, notiamolo bene, non si piegano punto nella direzione della larghezza della fetta, perché...sono raggi di circolo: ma poiché girano successivamente, una prima, una poi, esse vengono a staccarsi una dall’altra, e la continuità della superficie della fetta di terra, nella direzione della sua lunghezza, viene ad essere interrotta. La terra dunque si disgrega, si trita di più quanto la superficie dell’orecchio è più adatta ad operare un completo e regolare rivolgimento. Non è dunque maraviglia che il nuovo orecchio da me descritto sia insieme un acconcio mezzo di sminuzzare le zolle."
Classi, tipi, modelli a confronto
Sulle fondamenta delle innovazioni accumulatesi, in un lento processo di sedimentazione, nella seconda metà del Settecento, sulle coordinate tracciate dai primi studi teorici, e rispondendo agli impulsi di un mercato sempre più ricettivo, la costruzione di aratri di forma originale conosce nel primo quarto dell’Ottocento un’accelerazione prodigiosa. Delle creature di una stagione irripetibile della storia dell’attrezzo, tutte contraddistinte, ormai, dal nome del costruttore, compongono un accurato inventario, nella sezione dedicata all’aratro della Maison rustique du XIX siècle, Molard e Leclerc Thouin, che di ogni modello eseguono la descrizione più dettagliata, fornendo le misure, riferendo i giudizi sulla sua funzionalità, spesso trascrivendo i prezzi ai quali l’attrezzo è posto in vendita. La loro rassegna propone la sintesi più organica degli apprezzamenti e delle valutazioni che hanno accolto gli strumenti presentati in occasione di fiere e concorsi, il risultato delle comparazioni tecniche ed economiche cui li hanno sottoposti gli alfieri della sperimentazione agraria nazionale, Joseph Mathieu De Dombasle e Auguste Bella.
Procedendo secondo un disegno funzionale, i due redattori descrivono, innanzitutto, i modelli più comuni di aratro semplice, affrontano, successivamente, l’esame dei tipi dotati di zoccolo, il più rudimentale embrione dell’avantreno, quelli ad una sola ruota, quelli a due ruote fissate alla bure, quelli, infine, ad avantreno completo di timone. Compiuto il quadro dei tipi distinguibili sulla base delle modalità del traino, ordinano le tipologie degli aratri che si allontanano dalla conformazione ordinaria nelle categorie degli aratri voltaorecchio, di quelli a versoio mobile, di quelli a doppio versoio, concludendo la propria rassegna con la descrizione degli aratri polivomere.
Nella molteplicità delle forme, non è privo di interesse notare la presenza, nelle stesse categorie, di attrezzi costruiti mirando alla maggiore semplicità, i cui ideatori si sono avvalsi, cioè, della versatilità delle nuove tecniche meccaniche per realizzare strumenti caratterizzati da leggerezza e maneggevolezza, e di attrezzi più complessi, i cui creatori hanno impiegato, invece, le stesse possibilità tecnologiche per dotare i propri aratri di meccanismi immaginati per agevolarne l’impiego, ottenendo, nella generalità dei casi, apparecchi complicati, quindi destinati ad essere abbandonati nel corso di un’evoluzione che procederà, accantonando ogni deviazione, nella direzione della maggiore capacità di lavoro e praticità di impiego.
Tra gli aratri semplici Molard e Leclerc Thouin elencano, al primo posto, quello di James Small, che abbiamo menzionato, un attrezzo dal massiccio vomere sormontato da un’alta fascia metallica e dalla caratteristica bure ricurva, uno strumento che ha segnato una tappa significativa del cammino verso l’aratro industriale, per la propria razionalità oggetto, abbiamo rilevato, dell’apprezzamento di Thaer, negli anni della compilazione della rassegna ancora estesamente impiegato. Seppure venga descritto tra gli aratri muniti di zoccolo, le derivazioni che ha prodotto inducono a includere tra quelli semplici l’aratro belga, popolarmente denominato del Brabante: la bure diritta è fissata al dentale da una larga tavola rettangolare e da un montante quadrato, ha un versoio rettangolare a sommità concava che prolunga un grande vomero carenato. E’ unanimemente ritenuto il più funzionale tra gli aratri tradizionali diffusi in Francia, tanto che De Dombasle e Machet lo hanno assunto a paradigma per la realizzazione di versioni perfezionate. In quella realizzata del primo la tavola di congiunzione della bure al dentale è stata sostituita da un secondo montante, così che l’ossatura dello strumento ha assunto la forma rettangolare che sarà caratteristica comune tra gli aratri di maggior successo dell’Ottocento. Dal secondo discendente dell’attrezzo tradizionale, quello di Machet, al momento in cui i due redattori compilano il proprio repertorio ha preso forma, per derivazione successiva, l’aratro di Ridolfi insignito del riconoscimento dei Georgofili, un altro strumento destinato ad una lunga stagione di popolarità: quando, nel 1855, sarà presentato all’esposizione di Parigi, dove varrà al costruttore un nuovo riconoscimento, l’applicazione del versoio di Lambruschini e di una bure ricurva renderanno impossibile, anche all’occhio più esperto, riconoscere nell’attrezzo l’archetipo da cui ha avuto origine.
Molard e Leclerc Thouin non includono nella propria rassegna l’aratro fiammingo, parente stretto, per la prossimità delle terre natali, del tipo brabantino, dal quale lo distinguono, non senza ragioni fondate, alcuni testi coevi. Esso presenta, infatti, un versoio terminante, superiormente, in una prominenza che è facile trasformare nella piastra di attacco alla bure che costituisce, constateremo, elemento caratteristico degli aratri inglesi. Poco significativa sul piano pratico, la differenza consente di individuare nell’attrezzo il termine di transizione tra gli aratri dell’Europa centrale e quelli dell’Inghilterra, con la cui agricoltura le Fiandre hanno sviluppato, nei secoli, i legami di cui abbiamo rilevato il ruolo nella storia dell’agronomia.