Storia della colonna infame/Introduzione
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In una parte dello scritto antecedente, l’autore aveva manifestata l’intenzione di pubblicarne la storia; ed è questa che presenta al pubblico, non senza vergogna, sapendo che da altri è stata supposta opera di vasta materia, se non altro, e di mole corrispondente. Ma se il ridicolo del disinganno deve cadere addosso a lui, gli sia permesso almeno di protestare che nell’errore non ha colpa, e che, se viene alla luce un topo, lui non aveva detto che dovessero partorire i monti. Aveva detto soltanto che, come episodio, una tale storia sarebbe riuscita troppo lunga, e che, quantunque il soggetto fosse già stato trattato da uno scrittore giustamente celebre (Osservazioni sulla tortura, di Pietro Verri), gli pareva che potesse esser trattato di nuovo, con diverso intento. E basterà un breve cenno su questa diversità, per far conoscere la ragione del nuovo lavoro. Così si potesse anche dire l’utilità; ma questa, pur troppo, dipende molto più dall’esecuzione che dall’intento.
Pietro Verri si propose, come indica il titolo medesimo del suo opuscolo, di ricavar da quel fatto un argomento contro la tortura, facendo vedere come questa aveva potuto estorcere la confessione d’un delitto, fisicamente e moralmente impossibile. E l’argomento era stringente, come nobile e umano l’assunto.
Ma dalla storia, per quanto possa esser succinta, d’un avvenimento complicato, d’un gran male fatto senza ragione da uomini a uomini, devono necessariamente potersi ricavare osservazioni più generali, e d’un’utilità, se non così immediata, non meno reale. Anzi, a contentarsi di quelle sole che potevan principalmente servire a quell’intento speciale, c’è pericolo di formarsi una nozione del fatto, non solo dimezzata, ma falsa, prendendo per cagioni di esso l’ignoranza de’ tempi e la barbarie della giurisprudenza, e riguardandolo quasi come un avvenimento fatale e necessario; che sarebbe cavare un errore dannoso da dove si può avere un utile insegnamento. L’ignoranza in fisica può produrre degl’inconvenienti, ma non delle iniquità; e una cattiva istituzione non s’applica da sè. Certo, non era un effetto necessario del credere all’efficacia dell’unzioni pestifere, il credere che Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora le avessero messe in opera; come dell’esser la tortura in vigore non era effetto necessario che fosse fatta soffrire a tutti gli accusati, nè che tutti quelli a cui si faceva soffrire, fossero sentenziati colpevoli. Verità che può parere sciocca per troppa evidenza; ma non di rado le verità troppo evidenti, e che dovrebbero esser sottintese, sono in vece dimenticate; e dal non dimenticar questa dipende il giudicar rettamente quell’atroce giudizio. Noi abbiam cercato di metterla in luce, di far vedere che que’ giudici condannaron degl’innocenti, che essi, con la più ferma persuasione dell’efficacia dell’unzioni, e con una legislazione che ammetteva la tortura, potevano riconoscere innocenti; e che anzi, per trovarli colpevoli, per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia. Non vogliamo certamente (e sarebbe un tristo assunto) togliere all’ignoranza e alla tortura la parte loro in quell’orribile fatto: ne furono, la prima un’occasion deplorabile, l’altra un mezzo crudele e attivo, quantunque non l’unico certamente, nè il principale. Ma crediamo che importi il distinguerne le vere ed efficienti cagioni, che furono atti iniqui, prodotti da che, se non da passioni perverse?
Dio solo ha potuto distinguere qual più, qual meno tra queste abbia dominato nel cuor di que’ giudici, e soggiogate le loro volontà: se la rabbia contro pericoli oscuri, che, impaziente di trovare un oggetto, afferrava quello che le veniva messo davanti; che aveva ricevuto una notizia desiderata, e non voleva trovarla falsa; aveva detto: finalmente! e non voleva dire: siam da capo; la rabbia resa spietata da una lunga paura, e diventata odio e puntiglio contro gli sventurati che cercavan di sfuggirle di mano; o il timor di mancare a un’aspettativa generale, altrettanto sicura quanto avventata, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sè le grida della moltitudine, col non ascoltarle; il timore fors’anche di gravi pubblici mali che ne potessero avvenire: timore di men turpe apparenza, ma ugualmente perverso, e non men miserabile, quando sottentra al timore, veramente nobile e veramente sapiente, di commetter l’ingiustizia. Dio solo ha potuto vedere se que’ magistrati, trovando i colpevoli d’un delitto che non c’era, ma che si voleva1, furon più complici o ministri d’una moltitudine che, accecata, non dall’ignoranza, ma dalla malignità e dal furore, violava con quelle grida i precetti più positivi della legge divina, di cui si vantava seguace. Ma la menzogna, l’abuso del potere, la violazion delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura, son cose che si posson riconoscere anche dagli uomini negli atti umani; e riconosciute, non si posson riferire ad altro che a passioni pervertitrici della volontà; nè, per ispiegar gli atti materialmente iniqui di quel giudizio, se ne potrebbe trovar di più naturali e di men triste, che quella rabbia e quel timore.
Ora, tali cagioni non furon pur troppo particolari a un’epoca; nè fu soltanto per occasione d’errori in fisica, e col mezzo della tortura, che quelle passioni, come tutte l’altre, abbian fatto commettere ad uomini ch’eran tutt’altro che scellerati di professione, azioni malvage, sia in rumorosi avvenimenti pubblici, sia nelle più oscure relazioni private. «Se una sola tortura di meno,» scrive l’autor sullodato, «si darà in grazia dell’orrore che pongo sotto gli occhi, sarà ben impiegato il doloroso sentimento che provo, e la speranza di ottenerlo mi ricompensa2.» Noi, proponendo a lettori pazienti di fissar di nuovo lo sguardo sopra orrori già conosciuti, crediamo che non sarà senza un nuovo e non ignobile frutto, se lo sdegno e il ribrezzo che non si può non provarne ogni volta, si rivolgeranno anche, e principalmente, contro passioni che non si posson bandire, come falsi sistemi, nè abolire, come cattive istituzioni, ma render meno potenti e meno funeste, col riconoscerle ne’ loro effetti, e detestarle.
E non temiamo d’aggiungere che potrà anche esser cosa, in mezzo ai più dolorosi sentimenti, consolante. Se, in un complesso di fatti atroci dell’uomo contro l’uomo, crediam di vedere un effetto de’ tempi e delle circostanze, proviamo, insieme con l’orrore e con la compassion medesima, uno scoraggimento, una specie di disperazione. Ci par di vedere la natura umana spinta invincibilmente al male da cagioni indipendenti dal suo arbitrio, e come legata in un sogno perverso e affannoso, da cui non ha mezzo di riscotersi, di cui non può nemmeno accorgersi. Ci pare irragionevole l’indegnazione che nasce in noi spontanea contro gli autori di que’ fatti, e che pur nello stesso tempo ci par nobile e santa: rimane l’orrore, e scompare la colpa; e, cercando un colpevole contro cui sdegnarsi a ragione, il pensiero si trova con raccapriccio condotto a esitare tra due bestemmie, che son due deliri: negar la Provvidenza, o accusarla. Ma quando, nel guardar più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì esser forzatamente vittime, ma non autori.
Non ho però voluto dire che, tra gli orrori di quel giudizio, l’illustre scrittore suddetto non veda mai, in nessun caso, l’ingiustizia personale e volontaria de’ giudici. Ho voluto dir soltanto che non s’era proposto d’osservar quale e quanta parte c’ebbe, e molto meno di dimostrare che ne fu la principale, anzi, a parlar precisamente, la sola cagione. E aggiungo ora, che non l’avrebbe potuto fare senza nocere al suo particolare intento. I partigiani della tortura (chè l’istituzioni più assurde ne hanno finchè non son morte del tutto, e spesso anche dopo, per la ragione stessa che son potute vivere) ci avrebbero trovata una giustificazione di quella. — Vedete? — avrebbero detto, — la colpa è dell’abuso, e non della cosa. — Veramente sarebbe una singolar giustificazione d’una cosa, il far vedere che, oltre all’essere assurda in ogni caso, ha potuto in qualche caso speciale servir di strumento alle passioni, per commettere fatti assurdissimi e atrocissimi. Ma l’opinioni fisse l’intendon così. E dall’altra parte, quelli che, come il Verri, volevano l’abolizion della tortura, sarebbero stati malcontenti che s’imbrogliasse la causa con distinzioni, e che, con dar la colpa ad altro, si diminuisse l’orrore per quella. Così almeno avvien d’ordinario: che chi vuol mettere in luce una verità contrastata, trovi ne’ fautori, come negli avversari, un ostacolo a esporla nella sua forma sincera. È vero che gli resta quella gran massa d’uomini senza partito, senza preoccupazione, senza passione, che non hanno voglia di conoscerla in nessuna forma.
In quanto ai materiali di cui ci siam serviti per compilar questa breve storia, dobbiam dire prima di tutto, che le ricerche fatte da noi per iscoprire il processo originale, benchè agevolate, anzi aiutate dalla più gentile e attiva compiacenza, non han giovato che a persuaderci sempre più che sia assolutamente perduto. D’una buona parte però è rimasta la copia; ed ecco come. Tra que’ miseri accusati si trovò, e pur troppo per colpa d’alcun di loro, una persona d’importanza, don Giovanni Gaetano de Padilla, figlio del comandante del castello di Milano, cavalier di sant’Iago, e capitano di cavalleria; il quale potè fare stampare le sue difese, e corredarle d’un estratto del processo, che, come a reo costituito, gli fu comunicato. E certo, que’ giudici non s’accorsero allora, che lasciavan fare da uno stampatore un monumento più autorevole e più durevole di quello che avevan commesso a un architetto.
Di quest’estratto, c’è di più un’altra copia manoscritta, in alcuni luoghi più scarsa, in altri più abbondante, la quale appartenne al conte Pietro Verri, e fu dal degnissimo suo figlio, il signor conte Gabriele, con liberale e paziente cortesia, messa e lasciata a nostra disposizione. È quella che servì all’illustre scrittore per lavorar l’opuscolo citato, ed è sparsa di postille, che sono riflessioni rapide, o sfoghi repentini di compassion dolorosa, e d’indegnazione santa. Porta per titolo: Summarium offensivi contra Don Johannem Cajetanum de Padilla; ci si trovan per esteso molte cose delle quali nell’estratto stampato non c’è che un sunto; ci son notati in margine i numeri delle pagine del processo originale, dalle quali son levati i diversi brani; ed è pure sparsa di brevissime annotazioni latine, tutte però del carattere stesso del testo: Detentio Morae; Descriptio Domini Johannis; Adversatur Commissario; Inverisimile; Subgestio, e simili, che sono evidentemente appunti presi dall’avvocato del Padilla, per le difese. Da tutto ciò pare evidente che sia una copia letterale dell’estratto autentico che fu comunicato al difensore; e che questo, nel farlo stampare, abbia omesse varie cose, come meno importanti, e altre si sia contentato d’accennarle. Ma come mai se ne trovano nello stampato alcune che mancano nel manoscritto? Probabilmente il difensore potè spogliar di nuovo il processo originale, e farci una seconda scelta di ciò che gli paresse utile alla causa del suo cliente.
Da questi due estratti abbiamo naturalmente ricavato il più; ed essendo il primo, altre volte rarissimo, stato ristampato da poco tempo, il lettore potrà, se gli piace, riconoscere, col confronto di quello, i luoghi che abbiam presi dalla copia manoscritta.
Anche le difese suddette ci hanno somministrato diversi fatti, e materia di qualche osservazione. E siccome non furon mai ristampate, e gli esemplari ne sono scarsissimi, non mancherem di citarle, ogni volta che avremo occasion di servircene.
Qualche piccola cosa finalmente abbiam potuto pescare da qualcheduno de’ pochi e scompagnati documenti autentici che son rimasti di quell’epoca di confusione e di disperdimento, e che si conservano nell’archivio citato più d’una volta nello scritto antecedente.
Dopo la breve storia del processo abbiam poi creduto che non sarebbe fuor di luogo una più breve storia dell’opinione che regnò intorno ad esso, fino al Verri, cioè per un secolo e mezzo circa. Dico l’opinione espressa ne’ libri, che è, per lo più, e in gran parte, la sola che i posteri possan conoscere; e ha in ogni caso una sua importanza speciale. Nel nostro, c’è parso che potesse essere una cosa curiosa il vedere un seguito di scrittori andar l’uno dietro all’altro come le pecorelle di Dante, senza pensare a informarsi d’un fatto del quale credevano di dover parlare. Non dico: cosa divertente; chè, dopo aver visto quel crudele combattimento, e quell’orrenda vittoria dell’errore contro la verità, e del furore potente contro l’innocenza disarmata, non posson far altro che dispiacere, dicevo quasi rabbia, di chiunque siano, quelle parole in conferma e in esaltazione dell’errore, quell’affermar così sicuro, sul fondamento d’un credere così spensierato, quelle maledizioni alle vittime, quell’indegnazione alla rovescia. Ma un tal dispiacere porta con sè il suo vantaggio, accrescendo l’avversione e la diffidenza per quell’usanza antica, e non mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare, e, se ci si lascia passar quest’espressione, di mescere al pubblico il suo vino medesimo, e alle volte quello che gli ha già dato alla testa.
A questo fine, avevam pensato alla prima di presentare al lettore la raccolta di tutti i giudizi su quel fatto, che c’era riuscito di trovare in qualunque libro. Ma temendo poi di metter troppo a cimento la sua pazienza, ci siam ristretti a pochi scrittori, nessuno affatto oscuro, la più parte rinomati: cioè quelli, de’ quali son più istruttivi anche gli errori, quando non posson più esser contagiosi.