Storia dei Mille/La marcia ad Alcamo
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La marcia ad Alcamo.
Garibaldi non perdeva tempo: all’alba del 17 rimise la sua gente in cammino.
Da Calatafimi un’ultima occhiata d’addio al colle del Pianto Romano, poi via per Alcamo. E fu una marcia mattutina di poca fatica anche per quelli dei feriti che, sentendo di potersi reggere, piuttosto che starsene inoperosi, avevano voluto seguire la colonna, chi col braccio al collo, chi con la testa bendata, chi a piede nelle file, chi su quei carri di laggiù storiati di Madonne e di Santi, illustrati da sentenze e leggende paesane. Parlavano dei compagni rimasti a Vita nella chiesa o nelle case, dove mancavano di tutto e pativano, e qualcuno stava forse per morire, sebbene il vecchio Ripari e Ziliani e Boldrini e gli altri medici facessero prodigi d’amore.
Erano cose meste; eppure la campagna meravigliosa metteva nei cuori il proprio rigoglio, onde si sentivano senza troppi rimpianti. Ah che paese! Se quel trionfo di verde fosse venuto crescendo così come pareva, la via doveva menare davvero alla terra promessa. Intanto qualche cosa di paradisiaco si vedeva già. La fama di Garibaldi era andata a rinnovare le fantasie già note altrove; onde, agli sbocchi delle stradicciole campestri che mettevano in quella via, gruppi di donne dinanzi ai loro uomini e coi bimbi al collo o per mano, gli gridavano dei saluti quasi religiosi. Alcune si inginocchiavano, altre dicevano «Beddi!» ai giovani soldati.
Via via andando si scoprivano, tra le biade péste, arnesi militari dei borbonici; e quei villici li additavano imprecando agli schifiosi che li avevano gettati nella ritirata. Poi, già nelle vicinanze di Alcamo, comparvero delle carrozze di signori che venivano incontro a Garibaldi, tirate da pariglie superbe. A un certo punto comparve il mare del Golfo così azzurro, sotto un cielo così terso, che tra per quella vista e la bella campagna e il tutt’insieme, fu un’ora d’incanto. In qualche gruppo della colonna scoppiarono canti lombardi, di quelli della regione dei laghi.
Quella era proprio la terra degna che vi fosse sbocciato uno dei primi fiori della nostra poesia, perchè tutto ciò che vi si vedeva ricordava la Rosa fresca aulentissima di Ciullo o di Cielo. Allora la variante non importava. E poi ecco Alcamo con le sue belle case e i suoi giardini coi muri passati dai palmizi, che si spandevano fuori torpidi nel caldo meriggio. Non poteva essersi dato che il delizioso Contrasto fosse avvenuto davvero con di mezzo uno di quei muri o la siepe d’uno di quegli orti? Tutto vi pareva così antico!
La città, quasi moresca d’aspetto, quasi mesta, era in festa religiosa, ma pareva allegrarsi a poco a poco, per l’arrivo di quegli ospiti d’oltremare. E poi si esaltò addirittura per un fatto quasi incredibile, di cui si parlava già sin dal giorno avanti in Calatafimi come di cosa avvenuta o da avvenire. Garibaldi si era lasciato indurre da fra Pantaleo a ricevervi la benedizione in chiesa. Egli schiettamente, semplicemente, in mezzo al popolo, si sottomise alla Croce che il frate gli impose sulla spalla, proclamandolo guerriero mandato da Dio. La scena fu un po’ strana, ma il Generale stette con tanta sincerità di spirito, che neppure i più filosofanti della spedizione trovarono nulla a ridire. Fu un lampo di misticismo sprigionato dall’anima di lui, formata d’un po’ di tutte le anime grandi che furono, e anche di quella di Francesco d’Assisi, dietro al quale, nato nel suo tempo, egli si sarebbe scalzato dei primi a seguirlo.