Storia d'Italia/Libro XV/Capitolo II
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II
Trattavasi in questo tempo medesimo continuamente la concordia tra Cesare e i viniziani; la quale, per molte difficoltá che nascevano e per varie dilazioni interposte da loro, teneva sospesi di quello che avesse a seguirne gli animi di ciascuno. Accrebbe la dilazione, e forse anche le difficoltá di questa pratica, la morte di Ieronimo Adorno il quale, persona di grande spirito ed esperienza benché giovane, la trattava con molta autoritá e con destrezza singolare: in luogo del quale vi fu mandato da Milano, in nome di Cesare, Marino Caracciolo protonotario apostolico, il quale molti anni poi fu da Paolo terzo pontefice promosso alla degnitá del cardinalato. Trattoronsi queste cose in Vinegia molti mesi, perché da altra parte il re di Francia faceva assiduamente, per gli imbasciadori suoi, diligenza grandissima in contrario, promettendo, ora con lettere ora con uomini propri, di passare presto con potentissimo esercito in Italia: perché tra’ senatori erano varietá grandi di pareri e assidue disputazioni. Perché molti consigliavano che non si abbandonasse la confederazione del re di Francia, confidandosi che presto avesse a mandare l’esercito in Italia; la quale speranza il re sforzandosi con somma diligenza di nutrire aveva, oltre a molti altri, mandato di nuovo Renzo da Ceri a Vinegia, a promettere questo medesimo e a dimostrare che giá le cose erano preparate: altri, considerando per l’esperienza delle cose passate le negligenti esecuzioni di quel re, non confidavano che avesse a passare, e questa opinione si accresceva per le lettere di Giovanni Baduero oratore loro in Francia, il quale, prestando fede a quello che gli era referito dal duca di Borbone (il quale, giá congiunto occultissimamente contro al re, desiderava che i viniziani si unissino con Cesare), affermava che ’l re di Francia per quello anno non passerebbe né manderebbe esercito in Italia. Spaventava altri la mala fortuna del re di Francia la prospera di Cesare, il considerare che in Italia seguitavano Cesare il duca di Milano, i genovesi e i fiorentini con la Toscana tutta, e si credeva che avesse a fare il medesimo il pontefice; e che fuora d’Italia erano congiunti seco l’arciduca suo fratello, vicino allo stato de’ viniziani, e il re d’Inghilterra, il quale continuamente faceva la guerra in Piccardia. Nella quale varietá di pareri, non meno tra i principali del senato che tra gli altri, non si potendo, per la maturitá delle cose e per la instanza grandissima degli imbasciadori di Cesare, differire piú il farne deliberazione, convocato finalmente per determinarsi il consiglio de’ pregati, Andrea Gritti, uomo, per importantissime amministrazioni e fatti molto egregi, di somma autoritá in quella repubblica e di nome molto chiaro per tutta Italia e appresso ai príncipi esterni, parlò, secondo si dice, in questa sentenza:
— Ancora che io conosca essere pericolo, prestantissimi senatori, che se io consiglierò che noi non ci partiamo dalla confederazione del re di Francia alcuni non interpretino che in me possa piú il rispetto della lunga conversazione che io ho avuta co’ franzesi che quello della utilitá della republica, non mi asterrò per questo da esprimere liberamente il parere mio, come è propriamente ufficio de’ buoni cittadini; anzi è inutile, e cittadino e senatore, quello il quale per qualunque cagione si ritrae da persuadere agli altri quello che in se medesimo sente essere il beneficio della republica: benché io mi persuada che appresso agli uomini prudenti non ará luogo questa interpretazione, perché considereranno non solo quali siano stati in ogni tempo i costumi e le azioni mie ma che io non ho trattato, col re di Francia né cogli uomini suoi, se non come uomo vostro e per vostra commissione e comandamento; e mi giustificherá oltre a questo, se io non mi inganno, la probabilitá delle ragioni le quali mi fanno condiscendere in questa sentenza. Noi trattiamo se si debba fare nuova confederazione con Cesare, contraria alla fede data da noi agli oblighi della confederazione che abbiamo col re di Francia; cosa che, a giudicio mio, non vuole dire altro che stabilire in modo la potenza di Cesare, giá terribile a ciascuno, che non ci essendo mai piú rimedio di moderarla o di abbassarla cresca continuamente in nostro manifestissimo pregiudicio. Non abbiamo cagione alcuna che possa giustificare questa deliberazione, perché il re ha sempre osservato la nostra confederazione; e se gli effetti non sono stati cosí pronti a rinnovare la guerra in Italia si conosce chiaramente che, poiché a questo lo stimolavano i propri interessi, non è proceduto da altro che dagli impedimenti che ha avuti e ha nel regno di Francia; i quali hanno potuto prolungare i disegni suoi ma non potranno giá annichilargli, perché la volontá è sí ardente alla recuperazione dello stato di Milano, la potenza è sí grande che sostenuti che ará questi primi impeti degli inimici, i quali sosterrá facilmente, niuna cosa lo ritarderá che di nuovo non mandi forze grandissime di qua da’ monti. Vedemmo dell’una cosa e dell’altra piú volte lo esempio del re Luigi; il quale, essendo assaltata la Francia con armi molto piú potenti che non sono queste che al presente la molestano, congiuratogli contro quasi tutto il mondo, con la grandezza delle sue forze, con la fortezza de’ luoghi che sono in su i confini, con la fede de’ popoli, facilmente si difese; e quando era nell’opinione di tutti gli uomini che per la stracchezza della guerra gli fusse necessario il riposo di qualche tempo, mosse subito in Italia potenti eserciti. Non fece questo medesimo ne’ primi anni del regno suo il presente re? quando ciascuno credeva che, per essere nuovo re, per avere trovata esausta la corona per le spese infinite dello antecessore, fusse necessitato differire la guerra a uno altro anno. Non ci debbe adunque spaventare questa tarditá; né sarebbe sufficiente scusa delle nostre variazioni, perché il confederato, ritardato non dalla volontá ma dagli impedimenti sopravenuti, non dá giusta causa di querelarsi al compagno né onesto colore di partirsi dalla collegazione. Questa deliberazione ricerca da noi il rispetto della onestá il rispetto della degnitá del senato viniziano, ma non la ricerca meno il rispetto della utilitá anzi della salute nostra. Perché chi è che non conosca di quanto profitto ci sia e da quanti pericoli ci liberi se il re di Francia recupera lo stato di Milano, e quanto riposo partorisca per molti anni alle cose nostre? Ammuniscecene l’esempio delle cose succedute pochi anni innanzi; perché l’averlo recuperato questo re fu cagione che noi, che prima con grandissime spese e pericoli difendevamo Padova e Trevigi, recuperassimo Brescia e Verona; fu cagione che, mentre ch’egli tenne pacifico quel ducato, noi possedessimo con grandissima pace e sicurtá tutto lo imperio nostro: esempli che ci hanno a muovere molto piú che la memoria antica della lega di Cambrai, perché i re di Francia compresono per esperienza quel che non avevano compreso per le ragioni: quanto detrimento ricevessino dello essersi partiti dalla nostra congiunzione; cosa che senza comparazione conosceranno meglio nel tempo presente, nel quale ha questo re per emulo uno imperadore, principe di tanti regni e di tanta grandezza, la cui potenza lo necessita a desiderare e avere carissima la nostra confederazione. Ma per contrario, chi è quello che non vegga, che non conosca, in quanto pericolo resterebbono le cose nostre escluso che fusse totalmente il re di Francia dalle imprese d’Italia? Perché chi può proibire a Cesare che non appropri a sé o al fratello il ducato di Milano? del quale insino a ora non ha mai conceduta la investitura a Francesco Sforza; e se, come è chiarissimo, ará potestá di farlo, chi è quello che possa assicurare della volontá? chi è quello che possa promettere che, essendo il ducato di Milano una scala di salire allo imperio di tutta Italia, che abbi a potere piú in Cesare il rispetto della giustizia e dell’onestá che l’ambizione e la cupiditá propria e naturale di tutti i príncipi grandi? Assicureracci forse la moderazione e la temperanza de’ ministri che ha in Italia? che sono quasi tutti spagnuoli, gente infedele rapacissima insaziabile sopra tutte l’altre? Se adunque Cesare o Ferdinando suo fratello si attribuiscono Milano, in che grado rimane lo stato nostro, circondato da loro dalla parte d’Italia e di Germania? che rimedio possiamo sperare a’ nostri pericoli essendo in mano sua il reame di Napoli, il pontefice e gli altri stati di Italia dependenti da lui, e ciascuno sí esausto e attrito di forze che da loro non possiamo sperare favore alcuno? Ma se il re di Francia possedesse il ducato di Milano, restando le cose bilanciate tra due tali príncipi, chi avesse da temere della potenza dell’uno sarebbe riguardato e lasciato stare per la potenza dell’altro; anzi, il timore solamente della sua venuta assicura tutti gli altri, perché costrigne gli imperiali a non si muovere, a non si impegnare a impresa alcuna. Però a me pareva piú presto ridicola che spaventosa la vanitá de’ minacci loro che se non ci confederiamo con Cesare ci volteranno contro l’esercito; come se il muovere la guerra contro al senato viniziano sia impresa facile e da sperarne presto la vittoria, e come se questo fusse il rimedio di fare che il re di Francia non passasse, e non piú presto cagione del contrario: perché, chi dubita che provocati da loro proporremmo per necessitá condizioni tali al re che, quando bene ne avesse l’animo alieno, lo inducessino a passare? Non accadde egli questo medesimo a tempo del re Luigi? che le ingiurie e i tradimenti fattici da loro ci indussono a stimolare in modo quel re (quando io di suo prigione diventai vostro imbasciadore), che al tempo che piú temeva di essere assaltato potentissimamente in Francia mandò l’esercito suo, benché con mala fortuna, in Italia. Non crediate che se gli imperiali pensassino che la via di tirarci alla amicizia loro o di assicurarsi della venuta del re di Francia fusse lo assaltarci, che avessino differito insino a questo dí a dargli principio. Forse che non hanno i capitani loro cupiditá di arricchirsi delle prede e de’ guadagni delle guerre? forse che non hanno avuto necessitá, per sgravare il paese degli amici e sgravandolo avere facoltá di trarne danari, di nutrire l’esercito ne’ paesi d’altri? ma hanno conosciuto che per la potenza nostra è troppo difficile lo sforzarci; che per loro non fa, temendo ogni dí della guerra del re di Francia, implicarsi in una altra guerra, né dare cagione a uno stato potente di forze e di danari di stimolare con la grandezza delle offerte i franzesi a passare. Mentre che staranno in questi sospetti e in queste ambiguitá non occuperanno per sé il ducato di Milano, non tratteranno se non con minaccie vane di offenderci; se noi gli assicureremo da questo timore sará in potestá loro di fare l’uno e l’altro: e se lo faranno, come è verisimile, di chi altri potremo noi piú lamentarci che di noi medesimi e della nostra troppa timiditá e del desiderio immoderato della pace? La quale è desiderabile e santa, quando assicura da’ sospetti, quando non augumenta il pericolo, quando induce gli uomini a potersi riposare e alleggierirsi dalle spese; ma quando partorisse gli effetti contrari è, sotto nome insidioso di pace, perniciosa guerra; è, sotto nome di medicina salutifera, pestifero veleno. Se adunque il fare noi confederazione con Cesare esclude il re di Francia dalle imprese d’Italia, dá a lui facoltá di occupare ad arbitrio suo il ducato di Milano, occupato quello pensare a deprimere noi, ne séguita che noi comperiamo, con grandissima infamia del nome nostro con maculare la fede di questa republica, la grandezza di un principe il quale non ha manco distesa l’ambizione che la potenza e che pretende, egli e il fratello, che tutto quello che noi possediamo in terra ferma appartenga a loro; e che escludiamo da Italia uno principe che con la grandezza assicuri la libertá di tutti gli altri e che sarebbe necessitato a essere congiuntissimo con noi. Chi propone queste ragioni, tanto evidenti e tanto palpabili, non può giá essere imputato che lo muova l’affezione piú che la veritá, piú gli interessi propri che l’amore della republica. Della salute della quale non abbiamo da dubitare, se Dio alle vostre deliberazioni concederá tanto di felicitá quanto ha conceduto di sapienza a questo eccellentissimo senato. —
Ma in contrario Giorgio Cornaro, cittadino di pari autoritá e di nome celebrato di prudenza quanto alcuno altro di quel senato, si oppose con orazione tale a questo consiglio: — Grande certamente, prestantissimi senatori, e molto difficile è la presente deliberazione; nondimeno, quando io considero quale sia ne’ tempi nostri l’ambizione e la infedeltá de’ príncipi e quanto la natura loro sia difforme dalla natura delle republiche, le quali, non si governando con l’appetito di uno solo ma col consentimento di molti, procedono con piú moderazione e maggiori rispetti, né si partono mai sfacciatamente, come spesso fanno essi, da quel che ha qualche apparenza di giusto e di onesto, io non posso se non risolvermi che a noi sia perniciosissimo che il ducato di Milano sia di uno principe piú potente che noi, perché una tale vicinitá ci necessita a stare in continui sospetti e tormenti e, ancora che siamo nella pace, quasi sempre ne’ pensieri della guerra, non ostante qualunque confederazione o convenzione che abbiamo insieme. Di questo si leggono nelle istorie antiche infiniti esempli, nelle nostre qualcuno: ma quale maggiore e piú illustre che quello che, con acerba memoria, è scolpito nel cuore di tutti noi? Introdusse questo senato Luigi re di Francia nel ducato di Milano, alla quale infelice deliberazione molti di noi furno presenti; conservogli sempre intera la fede delle capitolazioni, quantunque con premi grandi e con varie occasioni fussimo invitati a discostarsi da lui dagli spagnuoli e da’ tedeschi, quantunque fussimo certi che per lui si trattavano spesso molte cose contro a noi. Non piegò né il beneficio ricevuto né la fede data né tanti perpetui offici nostri l’animo suo, pieno di tanta cupiditá di offenderci che finalmente, reconciliatosi per questa cagione con gli antichi e acerbissimi inimici suoi, contrasse contro a noi la collegazione perniciosissima di Cambrai. Però, per fuggire i pericoli che dalla insidiosa e fraudolenta vicinitá de’ príncipi grandi ci sarebbono del continuo imminenti, siamo necessitati (se io non mi inganno) dirizzare tutte le nostre deliberazioni a questo fine: che il ducato di Milano non sia né del re di Francia né dello imperadore, ma sia di Francesco Sforza o di qualunque altro che non abbia regni e imperi maggiori; donde depende nel tempo presente la sicurtá nostra, donde nel futuro può dependere, se si variassino le condizioni de’ tempi presenti, grande augumento ed esaltazione del nostro stato. Noi consultiamo se è o da continuare l’amicizia col re di Francia o da confederarci con Cesare: l’una di queste due deliberazioni esclude totalmente dal ducato di Milano Francesco Sforza e dá adito di entrarvi al re di Francia, principe tanto piú potente di noi; l’altra deliberazione tende a confermare e assicurare Francesco Sforza in quello ducato, il quale Cesare propone di includere come principale nella nostra confederazione, promette la conservazione sua al re di Inghilterra: però quando tentasse di spogliarlo di quello stato non solo offenderebbe noi e gli altri d’Italia, a’ quali darebbe causa di volgere di nuovo l’animo a’ franzesi, ma offenderebbe il re d’Inghilterra, al quale gli conviene, come ognuno sa, avere grandissimi rispetti; provocherebbesi contro tutti i popoli del ducato di Milano inclinatissimi a Francesco Sforza. Cosí, sottoponendosi a molte difficoltá e pericoli, e a grandissima infamia, contraverrebbe alla fede sua, la quale non si è insino a ora veduto segno alcuno che mai abbia disprezzata, cosa che non possiamo giá dire noi de’ franzesi; anzi, avendo restituito, dopo la morte del pontefice Leone, Francesco Sforza in quello stato, consegnatogli le fortezze secondo che successivamente si sono acquistate, e ultimamente, contro alla opinione di molti, il castello di Milano, non si può dire che non abbia fatto segni contrari. Perché adunque non dobbiamo fare piú presto quella deliberazione nella quale è speranza grande di conseguire lo intento nostro che quella che manifestamente tende a fine contrario a’ nostri bisogni? A questo si oppone che di maggiore pericolo sarebbe a questa republica che il ducato di Milano fusse in potestá di Cesare che se fusse in potestá del re di Francia; perché quel re, per la grandezza di Cesare e per la emulazione che ha con lui, arebbe quasi necessitá di perseverare nella nostra congiunzione, ma in Cesare tutto il contrario, per la potenza sua e per le ragioni che contro allo stato nostro pretendono egli e il fratello. Credo che chi cosí sente di Cesare non si inganni, per la natura e consuetudine de’ príncipi tanto grandi; volesse Dio non si ingannasse chi non sente il medesimo del re di Francia! Militavano nel suo antecessore molte delle medesime ragioni, e nondimeno potette piú la cupiditá, l’ambizione, che l’onestá, che l’utilitá propria. Senza che, non sono perpetue quelle cagioni che l’arebbono a conservare unito con noi, ma variabili, secondo la natura delle cose umane, di momento in momento: perché e Cesare è uomo mortale come gli altri uomini; è, secondo l’esempio di molti príncipi stati maggiori di lui, sottoposto a infiniti accidenti di fortuna. E quanto tempo è che, concitatagli contro tutta la Spagna, pareva piú presto degno di commiserazione che di invidia? E almeno non è tanta differenza dall’uno pericolo all’altro quanto è differenza da una deliberazione che ci escluda certo dal fine nostro a una che piú verisimilmente vi ci conduca. Dipoi queste ragioni risguardano il tempo futuro e lontano; ma se consideriamo lo stato presente delle cose, non è dubbio che il rifiutare la confederazione di Cesare ci mette per ora in maggiori molestie e pericoli; perché separandoci noi dal re di Francia è credibile riserberá il fare la guerra a migliori tempi e occasioni, ma stando noi congiunti con lui potrebbe pure essere che di presente la facesse, cosa che di necessitá ci porterá molestie e spese. Ma in quale caso è piú pericoloso per noi l’esito della guerra? Congiugnendoci con Cesare si può quasi tenere per certo che la vittoria sará da questa parte, cosa che non si può tanto sperare se saremo congiunti col re di Francia; e confederandoci con Cesare non ci sarebbe tanto pericolosa la vittoria del re come sarebbe per il contrario, perché in caso tale tutte l’armi de’ vincitori si volterebbono contro a noi, e Cesare non solo arebbe minore freno e minori ostacoli ma quasi necessitá di occupare il ducato di Milano. A quel che si dice del vincolo della confederazione è facile la risposta: perché promettemmo al re di Francia di aiutarlo a difendere gli stati che possedeva in Italia, non a recuperargli poi che gli avesse perduti. Non dice questo la scrittura delle nostre capitolazioni, né ci militano le medesime ragioni. Adempiemmo le obligazioni nostre quando, alla perdita di Milano, causata per il mancamento delle loro provisioni, ricevetteno piú danno le nostre genti d’arme che le franzesi; adempiemmole quando, tornando Lautrech co’ svizzeri alla guerra, gli mandammo i nostri aiuti; abbiamle trapassate quando, pasciuti da lui con vane speranze e promesse, abbiamo aspettato tanti mesi l’esercito suo. Se la volontá lo ritiene, perché cerchiamo noi di sopportare la pena delle sue colpe? se la necessitá, non basta egli questa ragione, quando bene fussimo obbligati, a giustificarci? Non so di che siamo piú oltre debitori al re di Francia poiché prima siamo stati abbandonati noi: non so a che piú oltre sia tenuto uno confederato per l’altro, né che possino giovare a lui i nostri pericoli. Non affermo che i capitani di Cesare pensino a muoverci al presente la guerra, ma né ardirei affermare il contrario, considerato la necessitá che hanno del nutrire lo esercito nello stato degli altri, la speranza che potrebbono avere di tirarci per questa via alla loro congiunzione, massime se il re di Francia non passerá: di che chi dubita non ne dubita, a giudizio mio, senza ragione, per la loro negligenza, per essere esausti di danari, per la guerra che hanno di lá da’ monti con due tali príncipi; né può essere ripreso chi di questo presta fede al vostro imbasciadore perché gli imbasciadori sono l’occhio e l’orecchio degli stati. Replico insomma il medesimo, che con sommo studio debbiamo cercare che di Francesco Sforza sia il ducato di Milano: donde ne nasce, in conseguenza, che sia piú utile quella deliberazione che ci può condurre a questo effetto che quella che totalmente ce ne esclude. —
L’autoritá di due tali uomini e la efficacia delle ragioni aveva renduto piú presto piú perplessi che piú resoluti gli animi de’ senatori, donde il senato allungava quanto piú poteva il determinarsi, inducendolo a questo la natura loro, la gravitá della cosa, il desiderio di vedere piú innanzi de’ progressi del re di Francia; e ne erano anche causa molte difficoltá che nascevano di necessitá nella concordia con l’arciduca. Accresceva la sospensione degli animi loro che il re di Francia, preparandosi sollecitamente alla guerra, avea mandato il vescovo di Baiosa a pregargli che differissino tutto il mese prossimo a deliberare, affermando che innanzi alla fine del termine passerebbe con maggiore esercito che mai avesse veduto in Italia l’etá presente. Nella quale ambiguitá mentre che stanno, essendo morto Antonio Grimanno doge di quella cittá, fu eletto in suo luogo Andrea Gritti, che piú presto nocé alle cose franzesi che altrimenti: perché egli, collocato in quel grado, lasciata meramente la deliberazione al senato, non volle mai piú né con parole né con opere dimostrarsi inclinato in parte alcuna. Finalmente, mandando il re al senato continuamente uomini nuovi con offerte grandissime, e intendendosi che per le medesime cagioni venivano Anna di Memoransi, che fu poi gran conestabile di Francia, e Federico da Bozzole, gli oratori cesareo e inghilesi, a’ quali la dilazione era sospettissima, protestorono al senato che dopo tre dí prossimi si partirebbono, lasciando imperfette tutte le cose. Perciò il senato necessitato a determinarsi, e togliendo fede alle promesse del re di Francia l’essere stati tanti mesi nutriti con vane speranze, e molto piú quel che in contrario affermava lo imbasciadore residente appresso a lui, deliberò d’abbracciare l’amicizia di Cesare, col quale convenne con queste condizioni: che tra Cesare, Ferdinando arciduca d’Austria, Francesco Sforza duca di Milano da una parte e il senato viniziano dall’altra fusse perpetua pace e confederazione: dovesse il senato mandare, quando fusse il bisogno, alla difesa del ducato di Milano secento uomini d’arme secento cavalli leggieri e seimila fanti; il medesimo per la difesa del regno di Napoli, ma questo in caso fusse molestato da’ cristiani, perché i viniziani recusavano obligarvisi generalmente per non irritare contro a sé l’armi de’ turchi: la medesima obligazione avesse Cesare, per la difesa contro a qualunque, di tutte le cose che i viniziani possedevano in Italia: pagassino all’arciduca in otto anni, per conto di antiche differenze e concordia fatta a Vuormazia, dugentomila ducati. Le quali cose come furno convenute, il senato, avendo giá rimosso dagli stipendi suoi Teodoro da Triulzi, elesse governatore generale della sua milizia, con le condizioni medesime, Francesco Maria duca di Urbino.