Storia d'Italia/Libro XIV/Capitolo XIV
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Capitolo quattordicesimo
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XIV
Cosí ridotta la guerra da speranza di presta espugnazione a cure e fatiche di lungo assedio, il duca di Milano, la partita del quale per mancamento di danari si era differita molti dí, e si sarebbe differita piú lungamente se il cardinale de’ Medici non l’avesse sovvenuto di novemila ducati, partito finalmente da Trento co’ seimila fanti tedeschi, e occupata, per aprirsi il passo, la rocca di Croara sottoposta a’ viniziani, passò senza ostacolo per il veronese; donde per il mantovano, passato Po a Casalmaggiore, giunse a Piacenza e, seguitandolo di quivi il marchese di Mantova con trecento uomini d’arme della Chiesa, si fermò a Pavia, stando intento alla occasione di passare a Milano; ove estremamente era desiderata la venuta sua, perché, diminuendo ogni dí piú la facoltá del fare danari per sostentare le genti, si giudicava necessario unirsi il piú presto che si potesse, co’ tedeschi, per uscire in campagna e cercare di terminare la guerra. Ma era difficile il passare, perché Lautrech, come intese essere arrivati a Piacenza, era andato ad alloggiare a Casino, cinque miglia lontano da Milano in su la strada di Pavia; avendo messo i viniziani a Binasco in su la medesima strada, e l’uno e l’altro esercito in alloggiamento bene riparato e fortificato. Dove poi che furono dimorati qualche dí, avendo in questo tempo preso Santo Angelo e San Colombano, Lautrech, inteso che lo Scudo suo fratello, tornato con danari di Francia, dove era andato a dimostrare al re lo stato delle cose, soldati fanti a Genova, era arrivato nello stato di Milano, mandò a unirsi con lui Federigo da Bozzole con quattrocento lancie e settemila fanti tra svizzeri e italiani. Per la venuta de’ quali, il marchese di Mantova, uscito di Pavia, andò a Gambalò per opporsi loro; ma o, avendo essi mostrato per il sospetto, come diceva egli, di ritirarsi verso il Tesino, non giudicando piú necessaria la stanza sua a Gambalò o, come piú presto credo, temendo di loro per essere piú grossi di quello gli era stato referito, se ne ritornò in Pavia: ma loro, venuti a Gambalò e uniti con lo Scudo, se ne andorono a Novara; e prese l’artiglierie della rocca che si teneva per loro, avendola battuta, la presono per forza al terzo assalto, con la morte della piú parte de’ fanti che vi erano dentro, e restato prigione Filippo Torniello. Per il quale caso il marchese di Mantova, il quale, sollecitato da lettere e spessi messi del Torniello che andasse a soccorrerlo, era uscito di nuovo di Pavia, subito che n’ebbe notizia, cavate le sue genti di Vigevano, lasciata solamente guardata la rocca, ritornò a Pavia. Nocé, in caso piú importante, l’unirsi con lo Scudo e l’acquisto di Novara a’ franzesi, perché facilitò l’andata di Francesco Sforza co’ fanti tedeschi a Milano. Il quale convenutosi con Prospero, partito occultamente una notte di Pavia, alla guardia della quale restorno [dumila] fanti col marchese di Mantova, (il quale, negando d’allontanarsi tanto dallo stato della Chiesa, recusò di procedere piú oltre), e camminando per altra strada che per la diritta, fu raccolto a Sesto da Prospero; il quale, uscitogli incontro con una parte delle genti, lo condusse a Milano: dove è incredibile a dire con quanta letizia fusse ricevuto dal popolo milanese, rappresentandosi innanzi agli occhi degli uomini la memoria della felicitá con la quale era stato quel popolo sotto il padre e gli altri duchi Sforzeschi, e desiderando sommamente d’avere uno principe proprio come piú amatore de’ popoli suoi, come piú costretto ad avere rispetto e fare estimazione de’ sudditi né disprezzargli per la grandezza immoderata.
La partita del duca da Pavia dette speranza a Lautrech di potere espugnare quella cittá; però, raccolto subitamente l’esercito, vi andò a campo; e da altra parte Prospero, conoscendo il pericolo manifesto, vi mandò con somma celeritá mille fanti còrsi e alcuni fanti spagnuoli: i quali giunti allo improviso in su gli alloggiamenti dello esercito franzese, passati per quello, parte combattendo parte camminando, e ammazzatine molti, si ridussono salvi in Pavia; dove oltre all’altre incomoditá era carestia grande di polvere di artiglierie. Batteva intanto Lautrech le mura di Pavia da due parti, cioè al borgo di Santa Maria in Pertica verso il Tesino e a Borgoratto; e avendo gittato in terra trenta braccia di muro, dicono alcuni che a’ dieci dí dette l’assalto invano, altri che non lo tentò, veduto quegli di dentro bene ripararsi e disposti a difendersi. Aggiugnevansegli molte difficoltá: l’essere giá cominciati a mancare i danari i quali il gran maestro aveva condotti di Francia; carestia non piccola di vettovaglie, causata dalle pioggie grandissime per le quali era molto difficile il venirne all’esercito per terra né manco difficile il venirne su per il Tesino, perché le barche urtate dall’acque del fiume troppo grosse non potevano andare innanzi contro all’impeto del suo corso. Nel quale tempo Prospero, uscito con tutto lo esercito di Milano per accostarsi a Pavia, impedito dalle pioggie medesime, si era fermato a Binasco che è a mezzo il cammino tra Milano e Pavia; donde poi essendosi spinto alla Certosa che è nel barco a cinque miglia di Pavia, monasterio forse piú bello che alcuno altro che sia in Italia, Lautrech non sperando piú di pigliare Pavia, si ritirò col campo a Landriano, non molestato nel levarsi dagli inimici se non con leggiere scaramuccie. Da Landriano andò a Moncia, per ricevere piú facilmente i danari che gli erano mandati di Francia; i quali si erano fermati ad Arona, perché Anchise Visconte, mandato da Milano a questo effetto a Busto presso ad Arona, impediva non venissino piú innanzi. Questa difficoltá ridusse in ultimo disordine le cose de’ franzesi. Perché i svizzeri, i pagamenti de’ quali erano ritardati giá molti dí, impazienti secondo il costume loro, mandorono i loro capitani a Lautrech a querelarsi gravemente che, essendo stata quella nazione prodiga in ogni tempo del sangue proprio per la esaltazione della corona di Francia, fusse contro a ogni giustizia mancato loro de’ debiti pagamenti e dimostrato, con questa ingratitudine e avarizia, a tutto il mondo quanto poco fusse stimato la virtú e la fede loro: essere deliberati, avendo aspettato tanti dí invano, non aspettare piú termine alcuno, né fidarsi di quelle promesse che replicate tante volte gli erano mancate; però volere ritornarsene assolutamente alle case loro, ma fatto prima manifesto a tutto il mondo che non gli induceva a questo il timore dello essere usciti in campagna gli inimici né il desiderio di fuggire i pericoli a’ quali sono sottoposti gli uomini militari, disprezzati sempre mai, come per tante esperienze si era veduto, da’ svizzeri. Notificargli che erano pronti a combattere il dí seguente, con intenzione di partirsi poi l’altro dí: menassegli a trovare gli inimici, usasse l’occasione della prontezza loro mettendogli nella prima fronte di tutto l’esercito; sperare che, avendo vinto con forze molto minori nel proprio alloggiamento lo esercito franzese intorno a Novara, vincerebbono anche nel loro alloggiamento gli spagnuoli, i quali se bene di astuzie di fraudi e di insidie avanzavano i franzesi, non gli reputavano giá superiori dove si combattesse con la ferocia del cuore e con la virtú dell’armi. Sforzossi Lautrech, considerando con quanto pericolo si andasse ad assaltare li inimici nelle fortezze loro, di temperare questo furore, dimostrando non per difetto del re ma per i pericoli del cammino procedere la tarditá de’ danari, i quali nondimeno arriverebbono fra pochissimi dí; ma non potendo convincergli o fermargli, né con l’autoritá né co’ prieghi né con le promesse né con le ragioni, deliberò piú presto, avendo massime a essere il primo pericolo loro, con disavvantaggio grande tentare la fortuna della giornata che, ricusando di farla, perdere totalmente la guerra, come era manifesto che si perdeva poiché, non consentendo di combattere, i svizzeri avevano determinato di partirsi.
Alloggiava l’esercito degli inimici alla Bicocca, villa propinqua tre miglia poco piú o meno a Milano ove risiede un casamento assai spazioso, circondato di giardini non piccoli che hanno per termine fosse profonde; i campi che sono attorno sono pieni di fonti e di rivi, condotti, secondo l’uso di Lombardia, a innaffiare i prati. Verso il quale luogo camminando da Moncia Lautrech con l’esercito, e pensando che gli inimici avendo l’alloggiamento tanto forte starebbono fermi alla difesa di quello, aveva ordinato l’assalto in questo modo: che i svizzeri con l’artiglierie andassino ad assaltare la fronte dell’alloggiamento e le artiglierie degli inimici, nel quale luogo erano a guardia i fanti tedeschi guidati da Giorgio Frondsperg; che dalla mano sinistra lo Scudo, con trecento lancie e con uno squadrone di fanti franzesi e italiani, camminasse per la via che andava a Milano, verso il ponte per il quale si poteva entrare nello alloggiamento degli inimici: egli tolse l’assunto di ingegnarsi di entrare con uno squadrone di cavalli nello alloggiamento degli inimici, piú con artificio che con aperta forza, perché per ingannargli comandò che ciascuno de’ suoi mettesse in su la sopravesta la croce rossa, segnale dello esercito imperiale, in cambio della croce bianca segnale dello esercito franzese. Da altra parte Prospero Colonna, tenendo, per la fortezza del sito, per certa la vittoria, e perciò deliberato di aspettare (cosí diceva) gli inimici al fossone, fatto, come intese la venuta loro, armare l’esercito e distribuito ciascuno a’ luoghi suoi, mandò subito a Francesco Sforza che con la moltitudine armata del popolo venisse senza indugio all’esercito; il quale, raccolti al suono della campana quattrocento cavalli e seimila fanti, fu da lui come giunse collocato alla guardia del ponte. Ma i svizzeri, come si furno accostati all’alloggiamento, con tutto che per l’altezza delle fosse, piú eminente che essi non aveano creduto, non potessino, come era la prima speranza, assaltare l’artiglierie, non diminuita per questo l’audacia, assaltorno il fosso sforzandosi con ferocia grande di salirvi; e nel tempo medesimo lo Scudo andato verso il ponte, trovandovi fuora della opinione sua guardia sí grande, fu costretto di ritirarsi. Scoperse anche prestamente Prospero l’arte di Lautrech; e perciò, fatto comandamento a’ suoi che si mettessino in su la testa fasci di spighe e di erbe, fece inutili le insidie sue: donde restando tutto il pondo della battaglia a’ svizzeri, che per la iniquitá del sito e per la virtú de’ difensori si affaticavano senza fare frutto alcuno, ricevendo grandissimo danno non solo da quegli che combattevano alla fronte ma da molti archibusieri spagnuoli, i quali occultatisi tra le biade giá presso che mature fieramente per fianco gli percotevano, furno finalmente, poi che con molta uccisione ebbono pagata la mercede della loro temeritá, necessitati a ritirarsi, e uniti co’ franzesi ritornorno tutti insieme, con gli squadroni ordinati e con l’artiglierie, a Moncia, non ricevendo nel ritirarsi danno alcuno. Importunavano, il marchese di Pescara e gli altri capitani, Prospero che, poi che gli inimici aveano voltate le spalle, desse il segno di seguitargli; ma egli, credendo quel che era, che si ritirassino ordinatamente e non fuggendo, e certificatone tanto piú per la relazione di alcuni che per comandamento suo salirno in su certi alberi alti, rispose sempre non volere rimettere alla potestá della fortuna la vittoria giá certamente acquistata né cancellare con la temeritá sua la memoria della temeritá d’altri. — Il dí di domani — disse — chiaramente vi mostrerá quel che si sia fatto questo giorno, perché gli inimici, sentendo piú le ferite raffreddate, perduti d’animo passeranno i monti: cosí senza pericolo conseguiteremo quel che oggi tenteremmo ottenere con pericolo. — Morirno de’ svizzeri intorno al fosso circa tremila, di quegli che per essere piú valorosi e feroci si messono piú prontamente al pericolo, e ventidue capitani; degli inimici morirno pochissimi, né persona alcuna di qualitá eccetto Giovanni di Cardona conte di Culisano, percosso di uno scoppietto nell’elmetto. Il dí seguente Lautrech, perduta interamente la speranza della vittoria, si levò da Moncia per passare il fiume dell’Adda appresso a Trezzo: donde i svizzeri, preso il cammino per il territorio di Bergamo, ritornorno alle loro montagne; diminuiti di numero ma molto piú di audacia, perché è certo che il danno ricevuto alla Bicocca gli afflisse di maniera che per piú anni poi non dimostrorno il solito vigore. Partirono insieme con loro il grande scudiere e il gran maestro e molti de’ capitani franzesi, Lautrech con le genti d’arme andò a Cremona per ordinare la difesa di quella terra; ove lasciato il fratello passò pochi dí poi i monti, riportando al re di Francia non vittorie o trionfi ma giustificazione di sé proprio e querele di altri, per la perdita di uno stato tale, perduto parte per colpa sua parte per negligenza e imprudenti consigli di quegli che erano appresso al re, parte, se è lecito a dire il vero, per la malignitá della fortuna.
Ordinò ancora Lautrech, innanzi partisse da Cremona, che nella cittá di Lodi, la quale in tutta la guerra si era tenuta per il re, entrassino con sei compagnie di gente e con presidio sufficiente di fanti Buonavalle e Federigo da Bozzole, perché i capitani cesarei erano stati impediti a voltarvi subito l’armi da uno tumulto nato da’ fanti tedeschi che insieme con Francesco Sforza erano venuti da Trento, i quali dimandavano che per premio della vittoria fusse donato loro lo stipendio di un mese; cosa che i capitani dicevano essere dimandata indebitamente, perché era differente il difendersi da chi assalta a vincere gli assaltatori, né potersi dire essere stati rotti o vinti gli inimici i quali si erano ritirati non fuggendo ma cogli squadroni ordinati e salve l’artiglierie e impedimenti; ma potendo piú la insolenza de’ tedeschi che la ragione o l’autoritá de’ capitani, furno alla fine costretti di consentire, promettendo di pagargli fra certo tempo. Ma essendosi in questa cosa consumati piú dí, accadde che il dí medesimo che le lancie franzesi erano entrate nella cittá, dietro alle quali venivano i fanti, veniva dall’altra parte l’esercito imperiale, e innanzi a tutti il marchese di Pescara colla fanteria spagnuola, non avendo per ancora i franzesi distribuite tra loro le guardie, anzi pieni tuttavia di confusione e di tumulto, come accade quando entrano ad alloggiare le genti d’arme in una terra; la quale occasione usando il marchese, con grandissima celeritá assaltò uno borgo della cittá cinto di muraglia, nel quale, difeso leggiermente, entrato con piccola fatica, tutti i franzesi che erano nella cittá, spaventati da questo caso e perché ancora non erano entrati i fanti loro, si messono tumultuosamente in fuga verso il ponte che avevano gittato in su Adda; e gli spagnuoli, entrati nel tempo medesimo nella cittá per le mura e per i ripari, gli seguitorono insino al fiume, presi nella fuga molti soldati e, da Federico e Buonavalle infuori, quasi tutti i capitani: e col medesimo impeto saccheggiorno quella infelice cittá. Da Lodi andato il marchese a Pizzichitone l’ottenne a patti, e poco dipoi Prospero passò con tutto l’esercito il fiume dell’Adda per andare a campo a Cremona. Alla quale cittá come fu accostato, lo Scudo inclinò l’animo alla concordia: perché non avendo altra speranza di sostentarsi che la venuta dell’ammiraglio, il quale il re, desideroso di conservare quel che per lui si teneva ancora in quello stato, mandava in Italia con quattrocento lancie e diecimila fanti, assai provedeva alle cose sue se, senza mettersi in pericolo, poteva oziosamente aspettare quel che partoriva la sua venuta; e Prospero, da altra parte, desiderava spedirsi presto delle cose di Cremona per potere, innanzi che ’l soccorso degli inimici in Italia pervenisse, tentare di rimettere i fratelli Adorni in Genova. Convennono adunque che lo Scudo si partisse fra quaranta dí, con tutti i soldati, di Cremona, avendo facoltá di uscirne con le bandiere spiegate e con l’artiglierie, se infra ’l detto tempo, il quale terminava il vigesimo sesto dí di giugno, non veniva soccorso tale che passasse per forza il fiume del Po o pigliasse una delle cittá dello stato di Milano nella quale fusse presidio; procurasse similmente che fusse abbandonato tutto quello che in nome del re si teneva nel ducato di Milano eccettuate da questa promessa le fortezze di Milano di Cremona e di Novara: per l’osservanza delle quali cose prestasse [quattro] statichi: restituissinsi nel caso predetto i prigioni da ciascuna delle parti, e a’ franzesi fusse conceduto il passare con l’artiglierie e robe loro sicuramente in Francia. Fatta la concordia e ricevuti gli staggi, l’esercito cesareo si mosse subito verso Genova; alla quale si accostò da due lati: il marchese di Pescara co’ fanti spagnuoli e italiani dalla parte del Codifaro, Prospero con le genti d’arme e co’ fanti tedeschi alloggiò dalla parte opposita di Bisagna.
Reggevasi la cittá di Genova sotto il governo del doge Ottaviano Fregoso, principe certamente di eccellentissima virtú, e per la giustizia sua e altre parti notabili amato tanto in quella cittá quanto può essere amato uno principe nelle terre piene di fazioni e nelle quali non è ancora del tutto spenta nelle menti degli uomini la memoria della antica libertá. Aveva soldati [dumila] fanti italiani, ne’ quali soli si collocava la speranza del difendersi, perché il popolo della terra, diviso nelle sue parti, con tutto che avesse intorno uno esercito tanto potente e mescolato di lingue tanto varie, risguardava oziosamente il progresso della cosa, con quegli occhi medesimi che era solito per il passato a riguardare gli altri travagli loro: ne’ quali, senza pericolo o danno di coloro che non prendevano l’armi, traportandosi l’autoritá publica di una famiglia in un’altra, non si vedeva altra mutazione che nel palagio ducale altri abitatori, altri capitani e soldati alla custodia della piazza. Accostato che fu l’esercito alla terra, cominciò subito il doge a trattare di concordia, mandato a’ capitani Benedetto di Vivaldo genovese; ma si raffreddò alquanto la pratica per la venuta di Pietro Navarra, il quale, mandato dal re di Francia con due galee sottili al presidio di Genova, entrò nel tempo medesimo nel porto. Nondimeno, avendo cominciato il Davalo a percuotere con l’artiglierie la muraglia, si ritornò con maggiore efficacia a’ ragionamento del convenire; e giá rimasti in concordia non appariva piú alcuna difficoltá, quando i fanti spagnuoli, che avevano quel dí battuto una torre presso alla porta, essendo negligenti quegli di dentro alla guardia, forse per la speranza dello accordo, la occuporno, e parte per quella, parte per il muro rovinato, cominciorno senza indugio a entrare nella cittá: per il che, concorrendovi tutta quella parte dell’esercito, il marchese, messi i soldati in ordinanza e mandato a significare a Prospero il successo, dato il segno entrò nella cittá; nella quale, attendendo tutti i soldati e i cittadini chi a fuggire chi a rinchiudersi nelle case, non si faceva alcuna resistenza. L’arcivescovo di Salerno e il capitano della guardia con molti cittadini e soldati, saliti in su le navi, si allargorno nel mare; il doge, il quale per la infermitá non si poteva muovere, fatto chiudere il palazzo mandò a costituirsi in potestá del marchese di Pescara, appresso al quale morí non molti mesi poi. Fu preso Pietro Navarra, tutte le sostanze della cittá andorno in preda de’ vincitori; molte famiglie ricche obligandosi, chi a questa compagnia di soldati chi a quella, di pagare quantitá grande di danari, e assicurandole o con pegni o con cedole di mercatanti, ricomperorno che le case loro non fussino saccheggiate. Salvossi nel medesimo modo il catino, tanto famoso, che con grandissima riverenza si conserva nella chiesa cattedrale. La preda fu inestimabile, di argenti di gioie di danari e di ricchissima supellettile, essendo quella cittá, per la frequentazione della mercatura, piena di infinite ricchezze. In questo fu manco acerba tanta calamitá, che per i prieghi de’ fratelli Adorni, perché la cittá non avea fatto segno alcuno di inimicizia, e perché si poteva dire che giá fusse convenuta, i capitani proveddero che niuno genovese fusse fatto prigione e che non fusse violata alcuna donna. Fu eletto doge di Genova Antoniotto Adorno; il quale, partito che fu l’esercito, con l’artiglierie prestategli da’ fiorentini accampatosi al Castelletto, prese il terzo dí la cittadella e la chiesa di San Francesco, e il dí seguente il Castelletto, datogli con certe condizioni dal castellano. La mutazione di Genova privò interamente il re di Francia di speranza di potere soccorrere le cose di Lombardia: perciò l’esercito mandato di nuovo da lui, il quale era pervenuto nello astigiano, ritornò di lá da’ monti; e lo Scudo, benché soprasedesse oltre al termine convenuto qualche dí, per alcune difficoltá che nacquono sopra le fortezze di Trezzo di Lecco e di Domodossola, resolute che furno queste, passò con le genti in Francia; osservatagli non solamente la fede, ma per tutto onde passò onoratamente ricevuto e trattato.